Racconto di Niccolò Favilli

Avevo dodici anni e ballavo sopra il tavolo di cucina con le scarpe rosse di mamma. Avevano i tacchi ed erano parecchio più grandi del mio piede eppure riuscivo ad eseguire ogni passo con estrema precisione e senza sforzo. All’inizio avevo avuto paura che lasciandomi andare alla danza il tavolo si sarebbe irrimediabilmente rovesciato, ma non era successo, era rimasto lì fermo a sorreggermi, ribattendo a ogni mia mossa con la sua voce di betulla e ci eravamo parlati così per più di un’ora, solo noi due, sotto la luce che filtrava dalla finestra della cucina.

Mio padre rincasò per primo e, assieme al piccolo Luca, si sistemò sul tavolo a bere il caffè latte che mamma gli aveva lasciato quella mattina. Lo sentì arrivare grazie al rumore della sua mustang e mi affrettai a risistemare il tavolo e riporre le scarpe rosse nell’armadio in camera dei miei genitori e dopo mi unì a loro, facendo finta di essermi appena svegliato, per giustificare la mia assenza. Pensando non ci fossi mio padre aveva bevuto più caffè latte del solito e così dovetti condividere la tazza con Luca, perché tanto noi non dovevamo andare a lavorare e quindi non c’era bisogno bevessimo più di un sorso a testa. Quando ebbi finito, mi misi a lavare le tazze, i cucchiaini e tutto il resto e solo dopo trovai il coraggio di chiedergli se avesse deciso qualcosa per quella sera. Vostra madre che ha detto? rispose sbuffando, senza nemmeno lasciarmi finire la frase. Ha detto che possiamo andare, se ci accompagni, perché è pericoloso di notte. E lei? Non viene? Ha detto che deve far visita alla nonna, ma ci ha lasciato i costumi. Mi passò accanto e con una mano raccolse un po’ d’acqua dalla cannella e si sciacquò la bocca e poi sputò nel lavandino. Vediamo, disse.

Incominciò a far buio alle cinque e per le sei tutti i lampioni della nostra via erano accesi. Dalla finestra di camera nostra, io e Luca potevamo vedere i ragazzini uscire e rincorrersi liberi con i sacchi carichi di dolciumi in mano e i loro genitori poco più indietro, allora corsi in corridoio e poi, man mano che raggiungevo camera dei miei genitori, rallentai e mi sistemai i capelli e cercando di non far rumore aprì la porta. Mio padre dormiva a pancia in su al centro del letto, con ancora le scarpe indosso. Signore, dissi a bassa voce, possiamo andare?, ma lui non rispose. Provai a ripeterlo un po’ più forte, ma lui dormiva con gli avambracci sulla faccia, come quando tornava la sera tardi e quindi mi arresi e tornai in camera dove trovai Luca ad aspettarmi sull’uscio. Si era già vestito da capo a piedi come una delle scimmie blu, con la maschera, il giacchetto, il cappellino e anche le ali che lo costringevano a passare in mezzo alla porta mettendosi di lato per non rovinarle. Che ha detto? Non ha detto niente, sta dormendo. Vidi i suoi occhi sparire da dietro la maschera. Ma è già tardi… si levò il cappellino e poi la maschera e le poggiò sul letto e tornò alla finestra a spiare i ragazzini in strada e come preso da un irresistibile senso di responsabilità mi voltai ancora una volta verso il corridoio, verso camera dei miei genitori. Ti va di andarci da soli?

Recuperai le scarpe rosse dall’armadio senza fare rumore, per non disturbare mio padre, e presi anche una di quelle camicette bianche che mamma aveva chiesto in prestito alla zia a inizio estate e me la cacciai nelle braghe per accorciarla. Per il vestito, chiesi una mano a Luca, dicendogli che ci serviva per fare uno scherzo a nostro padre. Usammo la tovaglia che mettevamo sul tavolo di cucina quando veniva a farci visita la nonna e con le forbici la tagliammo a misura e poi mi feci le trecce e le legai con i nastrini che mamma teneva in bagno a fianco alle medicine, li stessi che a volte prendeva per decorare i pacchi e i regali che faceva a Natale. Chissà che faccia fa papà quando ti vede, aveva commentato ridendo Luca prima che chiudessi la porta.

Mi resi conto in fretta che camminare non era la stessa cosa che ballare e per i primi due isolati dovetti chiedere aiuto a Luca per salire e scendere dai marciapiedi o girare intorno alle aiuole dove i tacchi affondavano facendomi perdere le scarpe per strada. Fu solo una volta arrivati all’incrocio alla fine della nostra strada che mi venne un’idea. Sciolsi i fiocchi che tenevano insieme le mie trecce e li divisi a metà con l’aiuto dei denti, dopodiché li passai sotto le scarpe e li legai intorno alle mie caviglie per assicurare la scarpa. Adesso avrei potuto correre da una casa all’altra senza problemi. Dove vuoi andare?, mi chiese Luca guardandosi intorno. Il suo sacchetto era pieno a metà e mi resi conto che non avevamo più molto tempo perché il cielo era quasi del tutto nero e le nuvole coprivano le stelle e prima o poi nostro padre si sarebbe svegliato e sarebbe corso in strada a cercarci. Andiamo a sinistra, gli dissi e ci fermammo a ogni casa a chiedere dolcetti, confrontando ogni tanto i nostri sacchetti con quelli degli altri bambini che venivano dalla direzione opposta per capire quale casa fosse la più generosa dell’isolato.

Ogni volta era Luca quello che otteneva più complimenti tra i due. Le anziane signore rimanevano incantate dalla complessità delle ali e dalla cura con cui erano state cucite la giacca e il cappellino e lui, ogni volta che gli facevano un complimento, imitava il verso delle scimmie per farle contente. Quel piccolo spettacolo gli faceva ottenere sempre qualche dolcetto in più e lui non perdeva occasione per farmelo notare e così, per ottenere un vantaggio su di lui, a un certo punto, mi lanciai in strada e iniziai a correre. Ehi! aveva urlato cercando di raggiungermi, ma le ali gli facevano resistenza e ben presto per evitare che si rovinassero aveva smesso di correre ed era rimasto indietro e per la prima volta quella sera suonai il campanello da solo.

Avevo il fiatone a causa della corsa, ma non mi importava, anzi, ridevo e mi sentivo un genio per aver fregato così bene tutti quanti, la mamma, mio padre e ora Luca che arrancava sul marciapiede tenendosi le ali con le mani. La vecchia aprì poco dopo. Era vestita da strega e mi ricordo i suoi capelli bianchi, il naso adunco, la pelle pallida, le scarpe rotte e gli occhi gialli come quelli di un gatto. Non era ridicola, ma insolitamente bella. Dolcetto o scherzetto? e allargai la sacca e lei ci mise una manciata di cioccolatini, senza staccarmi i suoi occhi gialli di dosso. Grazie signora, risposi e iniziai a ballare per lei come avevo fatto sul tavolo di cucina, muovendomi tutto per dimostrare il mio vero valore. Diedi di tacco, incrociai le gambe e feci una piroetta e la vecchia mi guardò e sorrise e mi diede tutti i dolci che le restavano. Sei proprio una bella bambina, sussurrò prima di chiudere la porta e io arrossii e tornai alla notte con un certo batticuore.

Mi ricongiunsi con Luca dopo qualche minuto e ci incamminammo verso casa. Non era molto contento che l’avessi abbandonato e per scusarmi gli diedi un po’ dei dolcetti della vecchia. È stato bellissimo, gli dissi ancora rosso in volto e lui ridacchiò pregustando lo scherzo per nostro padre.
Quando tornammo ci aspettava sul vialetto. Aveva il sigaro in bocca e la cintura in mano e fummo costretti a nascondere la nostra faccia dietro i sacchetti stracolmi di dolciumi per ripararci dal suo sguardo inquisitore. Dove eravate? e si alzò in piedi e venne verso di noi e mi vide. Perché sei vestito da femmina? mi chiese afferrandomi per un polso. Era uno scherzo, risposi, e aprii la bocca per ridere, ma gli mostrai soltanto i denti e in quel momento Luca indicò la sua faccia incredula e non si trattenne. Rise, rise da solo per qualche secondo e mio padre non mi mollò il polso, ma anzi lo strinse e notai la sua bocca incresparsi e poi arricciarsi alle estremità e dopo poco iniziare a ridere come mio fratello. Ci sei cascato! Ci sei cascato! ripeteva il piccolo Luca ridendo a crepapelle assieme a mio padre e m’intimavano con la loro risata a dire addio a Dorothy e alle scarpette e così, a poco a poco, mi tolsi le scarpe e mi misi a ridere anche io.