Sono con Aristotele al Carrefour. Si sta cercando la curcuma quando di colpo ritira fuori la storia dei sillogismi. Sbraccia, gesticola tutto rosso, prova a spiegarsi ma pare in difficoltà. Io – magari sbagliando, non so –, gli dico che qualcosa non mi torna, il procedimento logico mi affascina, sì, ma si presta anche a mille eccezioni: insomma, lo contraddico. Dà di balta: mi urla contro, tira in terra la lattina di Fanta e va via. Dieci minuti, e torna indietro. Sembra più calmo, pare rientrato in sé. Si stira con le palme il chitone, si appoggia al carrello e mi guarda negli occhi, sospirando. “Senti”, mi dice, “ascoltami bene, per cortesia. Argomento semplice, proprio per farti un esempio. Allora, premessa maggiore: tutti i rapper sono esseri umani, giusto?”. Annuisco. “Tutti gli esseri umani – premessa minore – sono mammoni, giusto?”. Continuo ad annuire. “Ecco, questo premesso, non vedo altra conclusione se non affermare che i rapper sono tutti mammoni”, dice, e continua a guardarmi, come aspettando quell’approvazione che ancora non mi sento di dargli. Non è personcina tranquilla, Aristotele. Non lo è mai stato e lo si nota anche adesso, dalla frequenza con cui si ravvia i capelli, da come compulsa i braccialetti. “Allora? Sei d’accordo o no?”. “Aristotele”, gli dico, “coi rapper, non capisco, forse mi tornava di più quella del ristorante[2]…”. “Θεὲ ἅγιε, τοιούτους σκληροὺς δεῖ μοι πάλιν εὑρίσκειν!”, m’interrompe, e si allontana di nuovo, sbraitando. Io rimango lì, secco. Guardo Lorenzo Rocci, che si era allontanato per prendere un fustino di Dash. “Non lo tradurre”, mi dice. “Non lo tradurre che rimanerci male è un minuto”.
Dopo cena ripenso a tutto il discorso. Ad assillarmi non è più la validità o meno del processo deduttivo – che potrebbe anche essere ammessa –, quanto il tema: che significa i rapper sono mammoni? I grill sui denti, i tatuaggi sul collo, la droga, e ancora la malavita, amicizie peligrosas, cicatrici dermatologiche e interiori, la rabbia sociale, il barrio, il senso di rivalsa, la strada, i coltellini svizzeri, il marciapiede, i punteruoli da compensato, tutto questo e poi si ricasca a farsi smacchiare i calzoni dalla mamma? Non fosse Aristotele, verrebbe da tirare dritto. Ma siccome è Aristotele, il visionario che ha vaticinato cinque degli ultimi otto vincitori di MasterChef dopo il primo Pressure Test, l’unica è cercare una playlist e dare il via. Metodo scientifico, amici. E magari anche Peer review, che vi piace tanto. Ghali.
Uooh-uooh-uooh, bella!
Sono uscito dalla melma,
da una stalla a una stella.
Compro una villa alla mamma
e poi penserò all’Africa.
Stoppo. Come una villa alla mamma? E poi l’Africa? Ma che è, un’OPA? Cambio canzone.
[…] Devo stare attento, mannaggia
se la metto incinta poi mia madre mi, ah!
Perché sono ancora un bambino,
un po’ italiano, un po’ tunisino.
[…]
Dritto per la mia strada
Meglio di niente, mas que nada, vabbè
Tu aspetta sotto casa
Se non piaci a mamma, tu non piaci a me
Sento un brivido che si spicca dalla punta dell’alluce, corre a ritroso tutta la rete delle fibre nervose, si schianta dalle parti dell’ipotalamo. Mi agghiaccio. Un bambino? Avrai trent’anni, Ghali. Vai ospite nei talk show, mi fai il baluardo progressista e poi “se non piaci a mamma, non piaci a me”. Ma poi che è, questa inserzione brasileira, è inutile fare il globetrotter e poi la domenica tutti col bavaglio a mangiare i cannelloni madonna mamma ma che ci hai messo? il risentimento di non avere ancora un nipote da angariare dici? Pensavo noce moscata. Cambio ancora: “Mamma, dai, sincera ti aspettavi tutto questo?”. La statistica parla: tre canzoni su tre e si arriva alla mamma entro il quarto rigo. Prima di passare oltre, leggo il titolo della prossima traccia: Mamma, s’intitola. Ghali perduto, penso: punto per Aristotele.
Ma può darsi che Ghali sia un caso isolato. È un oggetto mediatico di difficile lettura, va a Sanremo con un pupazzone, neanche ci prova a rimpiattare l’infantilismo. Vado avanti. Sfera Ebbasta. Pseudonimo protervo, ghigno beffardo, bazza in alto, fierezza, autonomia.
[…] Sono una rockstar, rockstar,
a uccidermi no, non sarà una stronza,
il mio cuore è freddo anche più del mio polso
e se provi a scaldarlo rischi che si sciolga.
Qui ti voglio Aristotele, chiacchiera con Sfera, di sillogismi, stai tranquillo che non arrivi alla premessa minore e prendi una coltellata. “Pusher sul mio iPhone, pute sul mio iPad”: LA DROGA, finalmente, e poi pute, che non so cosa significhi ma la voglio immaginare una parola mondo che ingloba in quel semantema che rimanda allo scaracchio tutte le efferatezze possibili e soprattutto il disprezzo per l’ovvio, tra cui il familismo acritico.
Mamma, guarda, senza mani, sono una rockstar,
mamma, sai che a parte te non amo nessun’altra.
Urlo, salto in piedi, rovescio il Fruttolo. Non ci posso credere. Mando indietro, ascolto di nuovo: “Mamma, sai che a parte te non amo nessun’altra”. L’ha detto davvero. Inizio ad assaporare il gusto amaro del torto: stai a vedere ha ragione Aristotele. Con gli universali ci ha capito il giusto, ma se poi ci dà su queste faccende che gli vuoi dire. Che gli vuoi dire.
Ma ci sarà qualcuno che si salvi, cristo di dio: scorro veloce, Fedez?, figurati, Fedez è fisso con sua madre, le ha intestato tutto, è grassa se a suo nome gli è rimasto un monopattino, e infatti “sono solamente un bambino / che chiamerai papà”, roba da sfasciare il De Trinitate di Sant’Agostino, vabbè niente Fedez, ma questi – Fedez, Ghali, Sfera Ebbasta –, questi sono quelli più noti, amati dal pubblico che è figlio del pubblico di Toto Cutugno, nipote del pubblico che a Sanremo osannava Consolini e Latilla, è chiaro che qui si corra sul nazionalpopolare. No, è un errore di metodo: bisogna cercare altrove, fuori dal grande pubblico, Noyz Narcos, per dire, che forse neppure l’ha avuta, una mamma, pare nato da un’esplosione in un laboratorio chimico Noyz Narcos, no, macché laboratorio chimico, ce l’ha la mamma, e le chiede scusa, Sorry mama: “Vita puttana” – scrive, e per un attimo ti pare un maledetto – “mamma sorry” dice, poi “Secco don’t worry” – chi è Secco, il babbo? –, e arrivederci anche Noyz Narcos, dritto a rimpolpare l’ultimo tomo dell’Organon.
Lowlow forse? Nemmeno Lowlow: “Una mattina andavo in banca insieme a mamma / E ho visto Nico entrare e calarsi il passamontagna”, vita cruenta accompagnando la madre a fare un giroconto. Emis Killa? “Mamma, è un nome troppo comune per ciò che sei / accomunerei le stelle ai tuoi occhi in comune ai miei”, bella, buona anche per un bigliettino d’auguri in terza elementare. Tedua! “Innanzitutto devo tutto a mia madre per stare al mondo / Anche se al mondo non ci so stare”, complimenti signora bel lavoro. Gemitaiz? Nome cattivo, cranio tatuato, eppure:
Ricordo, mamma che mi chiamava
quando il fine settimana
al tramonto tornavo a casa
che puzzavo di marijuana
(scusa mamma)
Mi sa che ho perso. Provo ad aprirmi all’internazionale, ma il Dear mama di TuPac secca il proposito sul nascere. Ha ragione Aristotele, inutile insistere. Anzi, sarà il caso che vada a dirglielo, prima che si metta a scrivere un trattatello per convincermi.
Esco di casa e mi incammino verso il circolo. Fa freddo, mi metto i guanti e intanto continuo a pensare a tutte queste canzoni piene di mamme. Che, a pensarci, neanche fosse parola facile da mettere in rima, “mamma”: con che rima “mamma”? Tolto il suffisso “-gramma” – “porto la mamma a fare il fonocardiogramma” – resta poco, se non “dramma” – ma non mi pare questo il caso – e qualche assonanza scadente. È proprio una questione di autonomia apparente, cinismo confuso con adultità, emancipazione sbandierata ma fittizia. IL CONTEMPORANEO, griderebbe il mio amico Massimo Gramellini, non fosse che gli hanno fatto due otturazioni e con le consonanti occlusive è ancora in difficoltà. Resta che Aristotele ha ragione anche stavolta, e se c’è una cosa che mi fa impazzire è quando sa di avere ragione, allora sta zitto una trentina di secondi, ti guarda, e poi fa il gesto dei surfisti. Da battere nel muro.
Eccolo lì, seduto. Ma non è solo. Accanto a lui, Pirrone, lo scettico. “Eccoci”, penso, “ci risiamo”. L’ultima volta li abbiamo divisi in quattro, con Pirrone che brandiva l’attizzatoio del barbecue. Seedorf non glielo puoi toccare. Ma ora sembrano tranquilli: Pirrone è seduto, si massaggia la pancia e sorride. Il “maestro di color che sanno” (prenota così, al ristorante), invece, è in lacrime e con le cuffie nelle orecchie, gobbo perché i fili sono pieni di nodi e non gli arrivano bene alla testa. Li raggiungo, ma Aristotele non mi guarda neanche: continua a piangere e riposiziona gli auricolari. Guardo Pirrone: “Fabri Fibra, bambino”, mi sussurra: “Fabri Fibra”.
[1] A chi percepisca il dovere filologico di rimarcare la distinzione tra rapper e trapper e fare questioni d’appartenenza a una sottocultura che si picca d’essere ruvida e guarda male noi che ancora si piange a sentire Come saprei di Giorgia si raccomanda con cordialità di pensare alla sua, di mamma.
[2] 1. Al ristorante qualcuno dovrà pure pagare; 2. Tu sei qualcuno; 3. Paga te.