E si fece avanti tra la folla un uomo coperto da umili, lise vesti (un misto tra H&M e le offerte OVS) e, col viso segnato da anni di lavoro e cesellati dalla calura, domandò ad alta voce: ‘Per favore, insegnaci a cantare’.
Era una bellissima giornata nelle campagne di Vetulonia, in lontananza si sentivano dei birbanti aprire, con qualche settimana d’anticipo, la stagione venatoria, fare bisboccia tra i campi intonando cori da stadio e inculando i cartonati di qualche vegana famosa della tv italiana.
A Lucio scese una lacrima ripensando a quel pomeriggio, alla richiesta umile di un uomo che ignorava l’autotune, all’essere diventato in poco tempo il Salvatore della Patria, il faro della musica italiana, il figlio di un Dio maggiore che avrebbe redento con la sua semplicità ed empatia il mondo dalle baby gang milanesi.
Ma il sogno, come ogni bel sogno, era durato un battito di ciglia, a malapena un valzer con Topo Gigio e un concerto hardcore con DODO: dall’avere il suo nome sulle strade, un intero reparto di oncologia infantile a lui dedicato, all’essere condannato all’oblio, alla morte certa, mentre una folla di utenti di X preferiva a lui il sempre eterno Fabrizio Corona, urlando a polmoni pieni ‘CORONA, NON PERDONA!’.
Questo suo mito cresciuto così velocemente dopo Sanremo sembrava destinato a sedimentarsi nel cuore degli ascoltatori e, invece, il Banjoista – prima di suicidarsi – gliel’aveva predetto che sarebbe stato l’ennesimo fenomeno da baraccone inalzato da quegli ormai vecchi tromboni della critica della generazione X.
Il Banjoista non sbagliava mai, era diventato la Cassandra dei poveri per i suoi seguaci su FB, ma aveva già visti dei piccoli fuochi inquietanti nascere come Vasco Brondi, Calcutta, Motta, i Maneskin… i Maneskin che, secondo la stessa critica che ha inalzato e distrutto Lucio, avrebbero riportato tra le mani dei ragazzi dei veri strumenti musicali, il rock nelle camerette e i sogni bagnati dei concerti. Il vecchio Banjoista sapeva che il rock non sarebbe tornato di moda, che i ragazzi non avevano ‘sbatta’ di imparare qualche strumento e che quello dei Maneskin sarebbe rimasto un caso isolato, tra il geniale e l’imbarazzante, un po’ l’equivalente musicale de Il carosello.
D’altronde, Damiano David aveva deciso di diventare come Totò in Uccellacci e Uccellini e frequentare una col nome di un sapone, mentre il resto della banda – già dai tempi di X FACTOR – lasciava il tempo che trovava… roba che Pete Best a confronto ha avuto una carriera di successo senza i Beatles.
Una voce debole, in sospeso nell’aria, che s’interrompeva a ogni sillaba – come Romina Power – interruppe il flusso di coscienza di Lucio chiedendogli: ‘Non sei tu il Brian Wilson della Maremma? Salva te stesso e noi!’
Subito dopo intervenne l’altro, un ricciolino con delle scritte in faccia che con rabbia rispose al tipo: ‘Noi riceviamo ciò che abbiamo meritato’ poi si girò verso Lucio e disse: ‘Lucio, ricordati di me quando tornerai nel tuo ristorante Macchiascandona e parlerai con Marta Donà’.
‘In verità Tony io ti dico: oggi starai a cena con me’.
Poi richiuse gli occhi e gli parve di sentire sulla sua pelle la seta di Gucci, la campagna fatta con Bianconi, grande amico, nel 2017, i sogni di gloria e quel piccolo album che s’incularono giusto lui, papà/mamma, gli amici e, non si sa come, TUTTE le testate musicali più importanti dell’epoca. Che strano, eppure di visualizzazioni non ne aveva quasi e iscritti ancora meno, come si spiega il fenomeno Lucio Corsi? Il suo primo album, Bestiario Musicale, uscito nel ’17, in quel mondo cinico pre-pandemia si guadagnò da Rockit la definizione eccessivamente benevola, per non dire surreale, di Pet Sounds della Maremma: “la Civetta, L’upupa, La volpe” e tutte le 8 tracce del brano venivano vendute come nostalgia pastorale quando, in fin dei conti, sembrano libri pop-up, disegni d’asilo di un giovane uomo spacciato per idiota sapiente. Alcuni definirono il suo autore come nostrano Brian Wilson, altri, come il Banjoista che non era sul libro paga di nessuno, lo vedevano più simile al Kaspar Hauser raccontato da Herzog nel suo bellissimo film. Ancora oggi Bestiario musicale ha solo 136 voti su RYM (Rate Your Music) di cui solo 17 prima del 2018 e dopo Sanremo 2025 almeno una cinquantina.
Eppure, non successe niente, il piccolo Lucio era in giro dal 2014, dai tempi degli EP Vetulonia Dakar e Altalena Boy, il lavoro estenuante dell’ufficio stampa non riusciva a fare miracoli, per quello c’era bisogno di lui, di Lucio.
Ricorda, stremato, di quando in gioventù venne dalla bella Calabria il saggio Brunori Sas, mentre dalle terre di Montepulciano veniva Francesco Bianconi e, insieme, provarono, nel 2020, una nuova uscita, accolta da Rolling Stone Italia come l’equivalente musicale de La vita agra di Luciano Bianciardi: con Cosa faremo da grandi, prodotto da Bianconi, il piccolo Lucio lascia quell’immaginario da Piccolo Principe fuori tempo massimo per abbracciare il lato glam, quello scoperto con Gucci, avvicinandosi al povero Ivan Graziani e a quel redivivo David Bowie a cui lo paragonarono dal giorno 1, fino all’esplosione di Sanremo.
Il Banjoista continuava a trovare i versi di Lucio degni al massimo delle pagine della Smemoranda, la musica, come la sua poetica, fasulla e deteriore; d’altronde chi lo criticava non si aspettava Glory Days di Bruce Springsteen ma neanche testi come: ‘Trovare un posto alle valigie è sempre uno dei miei problemi, per non farle rimanere tutto il viaggio in piedi’. E passò anche un terzo album, ma lui attingeva energia dal silenzio per i giorni che sarebbero seguiti, La gente che sogna rimase in sospeso, sia presso il pubblico che la critica, come una voce che grida nel deserto. Le ricchezze di Amazon Prime Video e un certo calo di personalità di Verdone, però, fecero il resto.
Dopo Sanremo arrivò l’epoca dei miracoli, a Lucio bastava tendere una mano perché chi fosse afflitto da pensieri maligni o da un Sesso e samba di troppo, ritrovasse la pace. Finché la virtù era in lui tutti furono guariti… come se tutta la parentesi trap e reggaeton italiana non fosse mai esistita, ma il Banjoista, a differenza di Lucio, sapeva che della critica musicale e dei vecchi tromboni non ci si poteva fidare, erano stati i Farisei a innalzare la trap, così come l’avevano distrutta non appena avevano subodorato in Lucio qualcosa dei loro giorni di gloria, anche se in una versione minore, musicalmente e liricamente parlando.
Il nome di Lucio si diffuse attraverso il Paese, si unirono altri fan e altri adepti. Giunto a Sanremo, Lucio, per ringraziare un pasticciere napoletano che gli aveva regalato un vassoio di chiacchiere, si tolse una spilla indefinita dal cappellino. Seguirono commenti e urla di quanto fosse grande Lucio Corsi, così come si alternarono ulteriori miracoli dacché il piccolo Lucio viaggiava sempre senza denaro contante.
Una volta venne visto fare stage diving con una ciambella salvagente e a tre ore dai pasti, cosa che non riusciva a Morgan da molti anni; un’altra volta usò le patatine sulle spalline disegnate da Balenciaga per Ye West come dono salvifico, a mo’ di monetine, per i neo-diciottenni in fila al casinò di Monaco. Certo, non erano cose economicamente importanti, non era la collana d’oro che una volta Ozzy Osbourne regalò a un barbone in mancanza d’altro, ma era pur sempre un oggetto che era stato a contatto col David Bowie della Maremma, mica un Olly qualsiasi! Come la conferenza stampa tenuta in un due stelle Michelin e non in un tre, insomma, Lucio uno di noi. Lui, come scriveva Walt Whitman, conteneva moltitudini: Randy Newman, Pavement, Peter Gabriel, Marc Bolan, Ian Hunter, David Bowie, Lucio Dalla, Ivan Graziani, Ivano Fossati, Dolcenera, tutti erano Lucio, Lucio era un passepartout per noi cuori infranti.
Se solo non fosse stato troppo impegnato in questa posa da finto umile, da suor Maria scesa dalle montagne, da puro ragazzo di campagna, e avesse ammesso fin da subito che in primis lui se l’era sentita calla, che era stato mandato sui palchi con una falsa e deformata percezione di cosa fosse l’arte, forse, avrebbe dato retta al Banjoista: il problema non è il fenomeno Lucio Corsi, ma il motivo per cui oggi la gente ha bisogno del fenomeno Lucio Corsi.
Perché? E la colpa riposa tra gli scritti dei farisei, nelle cartelle stampa che ricevono le redazioni musicali italiane, quelle che per sentirsi giovani avevano accolto qualsiasi freak come ‘il futuro della musica’ e appena avevano accarezzato l’idea di dare un calcio in culo a tutti i vincitori di amici, all’influencer di TikTok, all’ennesimo caso da Youtube e da X Factor, all’autotune, a una epica basata sull’estetica, sulle mignotte e sui brand di moda, appena quei critici avevano capito l’opportunità di sfanculare vent’anni di bugie indotte e scritte e intere scatole di Tavor, ecco che Lucio Corsi diventava un ibrido tra Dylan Thomas e Bruno Lauzi con l’aspetto di uno dei T.Rex ibridato con una bertuccia e un rospo, per poter aspirare anche al ruolo di modello dalla bellezza inclusiva (purtroppo, non ancora graziato dalla vitiligine o baciato dalla calvizie, ma il tempo – si dice – è galantuomo e la speranza è l’ultima a morire…).
Era stato bello finché era durato, anche il suo mandato come sindaco di Grossetto, o la direzione musicale di The Voice Jr, lui era grato di tutto. Le cose andarono male dopo le due date all’Alcatraz: Ticketone diede il tutto esaurito in neanche un minuto, roba che neppure la reunion degli Oasis. Il giovane piangeva mentre chiedeva al cameriere di allontanargli l’amaro calice – nello specifico, un Fernet – e ricordava i bei tempi quando solo il Banjoista e altri due o tre rosiconi, cattivi e invidiosi, gli rendevano la vita impossibile ricordando che il Glam esisteva già e che Flavio Giurato non era in fondo Mozart, quanto piuttosto il fratello di un noto fenomeno della dislessia; tutto questo prima che loro capissero (per suicidarsi poco dopo) che era impossibile combattere contro di lui e il suo immaginario fasullo: era come cercare di convincere i propri compagni di classe che il ragazzo tetraplegico con paralisi cerebrale della scuola fosse in realtà Keyser Soze.
Quando, una mattina, durante l’ultima edizione di X Factor, la gente aveva fatto conoscenza di quattro ragazzi con capelli a caschetto chiamate Blatte, con musiche in MIDI e testi composti da Elettra Lamborghini, la crepa nostalgica e marcia di retromania della critica farisaica italiana si era fatta ancora più grande, ingoiando il mito di Corsi ed espellendolo dal corpo in un paio di settimane, insieme al povero ed innocente Topo Gigio, prontamente sostituito dal Gabibbo.
‘Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno…’ disse a denti stretti Lucio. ‘Pubblico, ecco vostro figlio… tutto è compiuto’.
Dichiaro chiuso il televoto.