G:
Partiamo dal titolo. Sconfessioni. Il primo pensiero va a Sant’Agostino. Che cos’è una sconfessione? Quanto c’è di vero e quanto c’è di falso in ciò che scrivi? Del resto anche una sconfessione è sempre parziale…
Daniele Mattei:
In Sconfessioni si sconfessa e ci si confessa.
Forse non si crea se non per ricreare, la creazione possiede questo potere assoluto: nel riportare in vita, trasfigurare la realtà o anticiparla, porre la domanda, colei che squarcia, mettere il dito nella piaga, rendere qualcosa eterno o intuire la profezia di uno sfacelo.
Cos’è una sconfessione mi chiedi -, posso rispondere nel modo più chiaro e semplice: ciò che ho scritto, mi smuove dentro e condiziona la mia vita, il gettare il mio corpo nella lotta, possono trovare concordia o meno, ma l’unica cosa che rivendico e che non vi è nulla che io non sentissi necessario di dire, non vi è provocazione inutile, cosa che perlopiù detesto e includo nella pornografia esistenziale che ci è toccata in sorte.
Ma non posso non citare Céline che spesso torna, come Cioran, con alcune sue epocali frasi, nel libro: “Mettere la propria pelle sul tavolo” e ancora meglio quando aggiunge: “Il faut payer”, bisogna pagare.
E dato che Céline lo abbiamo citato lasciami aggiungere una frase che come sai dico sempre: “Di storie ne è piena la strada”. Ecco di ennesime storie, storielle, tattiche per tenere incollato il lettore, non me frega assolutamente niente. Qui non ci sono tattiche, semmai tecniche di sopravvivenza.
Vorrei che con il mio lavoro dopo averlo letto, lo si prendesse, lo si aprisse dove e quando serve, che lo si tagliasse anche per prendere frasi, parole utili come una corda tesa in un momento di aiuto, che faccia ardere chi arde degli stessi ardori, consolare, che delle parole siano mano tesa, sentire che questa volta non si è soli.
“Di storie ne sono pieni i commissariati…”
Cosa è vero? Cosa è falso? Forse nel momento in cui ricostruiamo tutto lo diventa o forse è il gesto artistico l’unico che toglie davvero il velo? D’invenzione vi è quasi nulla.
Non posso che essere assolutamente d’accordo con te, una sconfessione è sempre parziale, e perdonami la battuta rubata ma bisognerà dispiacere e in maniera sempre nuova, come diceva Debord, ma che siano sentite, il resto come tanto, troppo, è posa o moda.
Quello che posso dire è di non aver tradito con quello che per me sarebbe stato il più alto tradimento: la comodità delle idee, anche le migliori, le più grandi intenzioni con pessime applicazioni, nel cercare lo scandalo, l’effetto ormai insopportabile che quasi tutti in ogni forma artistica ricercano. Mi sembra l’ultima pornografia per cuori asettici e parafrasando le storie di cui sono pieni i commissariarti -, di scandali inutili, ne abbiamo pieni i…
Ma forse Sconfessioni, ricorderai il suo primo titolo, altro non è che una preghiera….
G:
Hai un passato da darkettone, nel modo di vestire, nelle idee, nei libri che hai letto, negli ambienti che hai frequentato. Perché un ragazzo nato sul finire degli anni ’70 ha fatto una scelta così radicale?
DM:
Quando ero bambino m’incantavano quelle creste punk fluorescenti da guerrieri celesti, mi rapivano gli occhi i dark con i neri spolverini lunghi fino ai piedi, erano monacali, misteriosi, avvolti in strani mantelli, quei loro capelli corvini dritti, sparati verso il cielo.
Ed è come se avessi visto in loro il mio destino.
Quegli ambienti non erano à la page allora ma resistevano, dall’Italia a Berlino, ed io potevo andare a ballare freneticamente solo lì, sentirmi in un’unione fatta di un riconoscersi per medesimo rifiuto, stessa negazione, forse inattitudine, cercando di vestire la vita diversamente. Cosa erano quelle figure al mio vedere di bimbo? Quando lo diventai, fu estetica, etica, vita diversa.
Con i limiti e l’infinito che i vent’anni hanno dentro sé: delimitare il mondo, scegliere di stare dentro quel No, riconoscersi in alcune persone, alcune solitudini, negazioni anche radicali, spietate e innanzitutto con se stessi. Il resto è sempre stato posa, in un batter di ciglia s’è fatta merce e il mercato ha comprato in un attimo tutti quelli che non aspettavano altro che farsi comprare, e così la diversità s’è livellata sempre più all’uguale.
Fai un gesto punk però, abbi una morale.
Estetica ed Etica, negazione e rifiuto questo fu, tutto fa il giro e rincontrandosi, diversi e uguali, questo è.
G:
Questo lato apparentemente oscuro sembra crollare nelle ultime pagine del libro, quando spogliandoti di tutto, lasciandoti dietro “anche i migliori”, trovi pace nel luogo più luminoso del mondo, un’isola greca dove il sole accecante spezza le pietre. Come spieghi questo passaggio, questa trasformazione, questa specie di illuminazione sotto la luce di un’estate che sembra invincibile?
DM:
L’estate è come la felicità, non dura che un attimo.
E’ un per sempre che svanisce in un senso di irreale, un’astrazione, e spesso l’invisibile in lei appare.
Quando l’estate finisce si è davvero certi che sia mai esistita? Camus la chiamava “invincibile”, io in Sconfessioni faccio diverse variazioni, a volte affermando, altre chiedendo, altre riannodando il tempo, se sia davvero invincibile ed infinita.
Quel lato oscuro come lo chiami tu, non poteva che portarmi qui, sconfessando anche me stesso, – troppo facile perseverare, non sconfessarsi mai, diventare la copia ingiallita di quello che si era -, ma non rinnego nulla e ciò che sono stato lo sono e lo porto sempre con me. E’ un modo di vedere, di tagliare la realtà e ricucire la vita in modo diverso anche se mi viene sempre da dire: guai a chi si addormenta sugli allori capovolti dell’anti-conforme, il conformismo dell anticonformismo è dietro l’angolo. Addormentati nell’illusione di avere ragione, il potere che negavi lo costruisci altrove. Quindi restare svegli e non pensarsi migliori. I migliori ormai si danno un prezzo, non accorgendosi che sono anch’essi in rottamazione.
Quindi sono per la domanda, per vedersi anche da un altro specchio, senza rinnegare, non restare comodi ma andare in fondo alla complessità dolorosa delle cose.
Di “oscurità” anche artistica o presunta tale ne abbiamo anche troppa, di scandalo che mi depriva, che mi deprime, che non scandalizza nulla, che non ha né la grazia di un’icona né lo sfregio di un iconoclasta.
G:
Senza anticipare nulla, nel finale, dopo questa lunga corsa durata un’intera esistenza, sfinito ti inginocchi davanti un’icona frantumata dal tempo e sfregiata dalla salsedine. Cosa ha rappresentato per te quell’immagine misera eppure potentissima?
DM:
Quell’icona, trovata per caso o – forse per destino? – al confine di un’isola, come potrebbe non trovarsi lì, in un quasi altrove dove chi deve arrivarci, arriva?
Mi ha profondamente colpito, turbato, e quello che racconto: quel gesto potente – forse l’unico imbarazzo in un libro per tanti altri versi, nelle opinioni e nelle esperienze, spudorato -, è stato per me unico, sacro. Quell’icona, probabilmente da poco, consumata dal tempo, oserei dire consumata meravigliosamente, non poteva che far rilucere un incanto nel suo assoluto celarsi. E quel gesto che descrivi, lo ho compiuto davvero come comandato da altro. Su ciò sai meglio di me che chi sa sentire sente immediatamente e sentirà dentro di sé, agli altri, all’arroganza di chi crede solo al suo d’io, e che mai lo farebbe verso nulla e nessuno, non ho molto da dire. Il niente, il loro io, l’unico dio minuscolo, egotico al quale credono, presto li seppellirà e senza resurrezione.
C’è una piccola, enorme storia che racconta Simone Weil: il gesto di Alessandro di gettare l’acqua a terra per essere come i suoi soldati, lì, sostiene, sta il bello e il bene.
G:
In Sconfessioni racconti la tua storia, che poi è un insieme non lineare di storie, ma in qualche modo è anche una storia collettiva che riguarda una generazione, ma forse riguarda tutte quelle generazioni che volevano cambiare il mondo ma poi hanno cambiato se stesse.
DM:
Su questo non lo so, ognuno ha quella che gli tocca in sorte -, cosa sia la mia generazione. ‘X’ la chiamano i nuovi cifratori di asettici elenchi d’esistenze.
Mai generazione fu più di passaggio, più fatta da monadi, da poco sentire comune, da voglie per me entrambi tristi: o l’adattamento all’attuale o l’arroccarsi per paura nel passato mitologico, accettare tutto o aver paura di vedere.
Il nuovo che avanza o il favolistico meglio del prima. Per quanto mi riguarda non so se se credo al meglio del prima ma al progresso del pessimo assolutamente sì.
Quello che mi ferisce, stupisce, disgusta è vedere che con una grande nonchalance si è passati dal fanatismo più feroce al più indecente lassismo su tutto. Se nulla vale tutto vale e anche l’idiozia non ha più pudore.
Il giorno della presentazione un caro amico che ha condotto un’esistenza lontana e vicina alla mia, mi ha fatto pensare dicendomi che ciò che avevo espresso anche duramente era fin troppo ottimista, mi ha fatto sorridere e riflettere molto e potrebbe avere ragione.
Chissà che questa solitudine, questa rabbia che a volte è sorda, questa frantumazione assoluta in tutto, non sia l’ultima nostra utopica uguaglianza.
G:
Il libro è costruito in modo speculare. Ogni pagina ha lo stesso numero di righe della successiva. Hai rispettato una simmetria nella composizione, c’è una cura ossessiva per la parola, per il giro di frase. Cosa cerchi in questo equilibrio?
DM:
Mi interessa lo stile, il ritmo, la musica delle parole, la circolarità del tempo che sembra riportarci all’altro, allo stesso, il sacro, l’invisibile, quell’attimo in cui ci sembra come miracolosamente di poterlo davvero cogliere.
E poi la geometria delle pagine, il ricamo eterno di una frase, l’eleganza mai fine a se stessa, il limite dove tentare di far rilucere il necessario delle parole, quel ritmo, quella musica che io non posso eludere, che forse mi possiede e da cui mi faccio possedere.
La costruzione di Sconfessioni è forma e contenuto, è il non lasciare nulla, zero, al caso, è dire il necessario.
Di tanto, di troppo, di dire tutto e spesso male non ne posso più, mi sono dato dei limiti e in loro ho cercato di far risuonare le parole. Chi desidererà immergersi in questa architettura scoprirà che ogni pagina è stata lavorata ossessivamente così: nel limite, un illimite.
Amo le variazioni, le mille sfumature dell’identico, non mi interessa, in ogni ambito artistico, che chi ha ossessivamente una voce, la propria, inconfondibile.
Per i lettori maniacali come l’autore posso confessare che sono quattro capitoli da 23 pagine esatte l’uno e che in ognuno vi è una costruzione precisa, solo alla fine con chi mi ha con grande grazia aiutato nelle correzioni, abbiamo scoperto che il numero complessivo è 111, si dice sia un numero angelico…
G:
Solitudine, mercificazione, sputtanamento delle idee, pornografia dei sentimenti, indifferenza: sono questi i temi che ricorrono in queste pagine e ricorrono attraverso i personaggi che incontri, ognuno alle prese con la sua incapacità di stare al mondo, ma ognuno ha la sua tecnica di sopravvivenza. Qual è la tua?
DM:
Sono costretto a dire quello che ho detto all’inizio: non avere freddo agli occhi, anche quando l’inverno arriva nei tuoi, quando ciò che detesti lo vedi nelle facce, negli usi, costumi e mentre tutti dicono a tutto di sì, saper contrapporre un No. Non è posa di negazione, è voglia di vedere, di combattere una guerra all’idiozia, alla conformità, sempre più conforme anche quando non fa che vestirsi di anticonformismo, è la libertà di dire finanche che la libertà sembra assomigliare a volte così tanto all’obbedienza. Mi spaventa, essendo stato dalla parte della diversità, vederla ridotta all’uguale come ho detto prima, e mi sembra sempre più essere l’uguaglianza della merce.
Certo m’assale sempre più un dubbio, e così rispondo anche alla questione “solitudine”: se questo è davvero il migliore, dei mondi possibili, se possiamo tutto ma nulla sembra davvero possibile, come mai tanta infelicità, solitudine, disperazione? E nemmeno gridata, ma taciuta, sottile, come un cancro dell’anima che lentamente isola, corrode, consuma? Come mai in tutta questa pornografia d’esistenza, il dolore, persino la morte, la sconfitta, la diversità vera che non ha appartenenza che non fa comodo a nessuno, sembra essere l’ultimo vero tabù, un rimosso che in questa felicità terribilmente infelice, in questa pace fasulla, non sembra possibile e viene costantemente rimossa?
Quella che i personaggi hanno come tecnica di sopravvivenza è la loro, e la mia di spietatezza: non cercano alibi, se devono vedere vedono, se devono affondare affondano, si spezzano, si rialzano, combattono e come ho detto prima, tutti forse tentano. Sicuramente il loro privato è politica. Come può non crollare tutto l’Occidente nelle braccia e nella solitudine agghiacciante di un’ex modella anoressica? Come può un privato non farsi politico nell’abbandonarsi come merci? Nei nostri telefonini pieni di immagini porno spedite e accumulate, i nostri occhi vuoti e un abbandono algido come un clic atroce. Le parole che si svuotano, le immagini, anche le più estreme, che si svuotano in un porn’oltre esistenziale.
Lo sputtanamento delle idee, mi sembra che anche conservando, come credo bisogni fare – il senso dello stupore, l’arte dell’incontro, la ricerca dell’altro da sé, evitando il cinismo compiacente, sia ineluttabile.
In molti luoghi, in troppe facce è come dissolto il volto, i comportamenti si assomigliano, il gesto radicale svuotato, la trasgressione mercato, tutto si sputtana mentre, forse manca il coraggio di sputtanarsi davvero.
È avvenuto un détournement in realtà chiarissimo per alcuni, paranoie e apocalissi negli occhi, dicono altri: Molto di ciò che era anticorpo, uno spostamento per la norma è la nuova norma, e il codice è la rassomiglianza, non chiede nemmeno di obbedire la nuova obbedienza, chiama liberi i sudditi, credendosi tali obbediscono.
Non dico ciò da censore, la mia vita non lo è stata, non lo è, ma bisognerebbe vedere le cose anche quando fanno male, il coraggio di andare finanche contro sè stessi.
Né lo dico con il gusto del polemista per mestiere, non ne posso più dello scandalo, del distruggere, non so nemmeno più cosa visto che siamo in panorama di rovine. Quello che dico tocca me per primo e credo che nulla sia più pubblico del privato, quando le cose finiscono per entrare violentemente nelle nostre vite.
G:
In Sconfessioni citi diversi autori (Baudelaire, Rimbaud, Camus, ma soprattutto Cioran e Florenskij), i testi che ti hanno formato, isolandoti dal mondo circostante al punto da farti trovare la tua direzione. Credi che Sconfessioni possa essere un libro capace di orientare? A chi lo conisglieresti, o sconsiglieresti?
DM:
Perdonami una chiosa da romanticismo residuale: se il mondo non perderà ogni opposizione ci saranno sempre adolescenti che leggeranno Baudelaire, Rimbaud. Per tutta la mia vita, soprattutto nella giovinezza ho cercato chi mi orientasse, anche forse per finire paradossalmente a volte nella direzione opposta.
Credo, spero, alla trasgressione, alla differenza come elemento detonante, detournante, il resto ahimè è noia è mercato. Credo alla malinconia, alla tristezza, quando smuove, quando scuote, essa stessa può essere ed è politica. Sconsiglio Sconfessioni a tutti quelli che non hanno dubbi, che cercano certezze, che credono che quello che vediamo sia ciò che è, che non hanno moti del cuore e sangue a ribollire, quelli che dicono che non si può dire nulla, quelli che sguazzano in ciò in cui non sguazziamo, al potere dei più buoni, ai cinici in tutto e forse già post umani, io non li invidio.
Lo consiglio a chi cerca, a chi non ha né vuole rappresentanza, compiacenza, comodità di parte, a chi è ancora capace di provare qualcosa, e si lascia toccare, turbare, come io ho tentato di fare, in questo sputtanamento di tutto, di sputtanarmi.
Cioran e Florenskij, così lontani e forse così vicini.
Li ho voluti insieme, il primo fu un mio grande amore di gioventù, letto e riletto, mandato a memoria ma che riapro, il transilvano forse ne sarebbe contento -, solo all’uopo o quando vuoi puntarti una rivoltella alla testa. Stile unico, inimitabile, affetto immenso anche se ora spesso amo Cioran quando persino lui tradisce sé stesso.
In Sconfessioni lo cito spesso, con le sue frasi più da cliché che ho scelto volutamente anche conoscendolo tutto. E’ un monito, una mano tesa, quella che Ceronetti descrive con compassione nell’introduzione di Squartamento, così è ancora Cioran per me e appare e scompare lungo tutto il libro, quasi fosse un protagonista.
Florenskij con quella splendida frase dalle “Porte regali”, libro celestiale, è l’invisibile, anche quando s’attraversa o è attraversato dalla disperazione o da una gioia, – forse il tentativo più estremo che si può tentare è la sua ricerca, che citandolo, “non è da qualche parte lontano da noi, ma ci circonda”.
G:
La vita ti ha sconfessato? Ha rimesso in discussione le tue idee? Ti ha cambiato? Ti ha tradito? Ma la vera libertà dell’uomo dopotutto, non è riuscire a credere a qualcosa proprio quando la vita ti toglie sotto i piedi qualsiasi certezza?
La vita ha sconfessato moltissimo in me, ma credo che bisogna sapersi far sconfessare, avere il coraggio di cambiare, a volte proprio per ritrovare se stessi.
Forse sono sempre stato nella domanda, per quanto forte, per quanto da scorticato e nella domanda mi ritrovo. Forse più che la vita che sconfessa, che tradisce, così è da sempre -, è il mondo attuale che ha comprato ciò che sembrava incomprabile, che ha modificato i parametri. Comprato molto, mercificato il resto, e allora siamo noi a cambiare o il non avere freddo agli occhi oggi significa avere il coraggio di farlo, mentre il mondo e le idee, come si dice nella quarta di copertina cambiano casacca?
E anche questo è Sconfessioni: cambiare e restare gli stessi, avere il coraggio di guardare e di guardarsi.
E anche in una preghiera spezzata, tentare di credere, finanche inginocchiarsi davanti qualcosa ch’è sfregiata, dalla e come la vita.