L’attività pratica quotidiana dei membri di una tribù riproduce, o perpetua, una tribù. Questa riproduzione non è soltanto fisica ma anche sociale. Attraverso le loro attività quotidiane i membri della tribù non si limitano a riprodurre un gruppo di esseri umani; riproducono una tribù, e cioè una particolare forma sociale nella quale questo gruppo di esseri umani svolge specifiche attività in una maniera specifica. Le attività specifiche dei membri della tribù non sono il risultato di caratteristiche “naturali” delle persone che le svolgono, come la produzione del miele è il risultato della “natura” di un’ape. La vita quotidiana attuata e perpetuata da parte dei membri della tribù è una specifica risposta sociale a particolari condizioni materiali e storiche.
L’attività quotidiana degli schiavi riproduce la schiavitù. Attraverso le loro attività giornaliere, gli schiavi non solo riproducono loro stessi e i loro padroni fisicamente; riproducono anche le loro abitudini di sottomissione all’autorità del padrone e gli strumenti con i quali il padrone li reprime. Agli abitanti di una società schiavista, la relazione padrone-schiavo sembra una relazione naturale ed eterna. Ma gli uomini non nascono padroni né schiavi. La schiavitù è una specifica forma sociale, e gli uomini si sottomettono ad essa solo in condizioni materiali e storiche molto particolari.
L’attività pratica quotidiana di lavoratori salariati riproduce il lavoro salariato e il capitale. Attraverso le loro attività giornaliere gli uomini “moderni”, come i membri di una tribù e gli schiavi, riproducono gli abitanti, le relazioni sociali e le idee della loro società; riproducono la forma sociale della vita quotidiana. Come la tribù e il sistema schiavista, il sistema capitalista non è né la forma naturale né la forma finale della società umana; come le forme sociali precedenti, il capitalismo è una risposta specifica a condizioni materiali e storiche.
A differenza di forme precedenti di attività sociale, la vita quotidiana nella società capitalista trasforma sistematicamente le condizioni materiali alle quali il capitalismo era originariamente una risposta. Alcuni dei limiti materiali all’attività umana vengono portati gradualmente sotto il controllo degli umani. Ad un alto livello di industrializzazione, l’attività pratica crea le sue stesse condizioni materiali e la sua stessa forma sociale, quindi l’argomento dell’analisi è non solo come l’attività pratica nella società capitalista riproduca la società capitalista, ma anche come questa stessa attività elimini le condizioni materiali alle quali il capitalismo risponde.
La Vita Quotidiana nella Società Capitalista
La forma sociale della normale attività delle persone nel capitalismo è una risposta ad una certa situazione materiale e storica. Le condizioni materiali e storiche spiegano l’origine della forma capitalista, ma non spiegano perché questa forma continui dopo che la situazione iniziale sparisce. Un concetto di “ritardo culturale” non spiega il proseguimento di una forma sociale oltre la scomparsa delle condizioni iniziali alle quali rispondeva. Questo concetto è solo un nome per tale proseguimento. Quando il concetto di “ritardo culturale” si presenta come nome di una “forza sociale” che determina l’attività umana, è una mistificazione che presenta il risultato delle attività delle persone come una forza esterna che esula dal loro controllo. Questo è vero non solo per un concetto come quello di “ritardo culturale”. Molti dei termini usati da Marx per descrivere le attività delle persone sono stati elevati a forze esterne o addirittura “naturali” che determinano l’attività umana, per cui concetti come quelli di “lotta di classe”, “relazioni di produzione” e particolarmente la “dialettica” svolgono nelle teorie di certi “Marxisti” lo stesso ruolo che svolgevano il “peccato originale”, il “fato” e “la mano del destino” nelle teorie dei mistificatori medievali.
Nello svolgimento delle loro attività giornaliere, i membri della società capitalista portano avanti contemporaneamente due processi: riproducono la forma delle loro attività ed eliminano le condizioni materiali alle quali questa attività inizialmente rispondeva. Ma non sanno di portare avanti questi processi: la loro attività non è trasparente per loro. Vivono nell’illusione che le loro attività siano risposte a condizioni naturali fuori dal loro controllo e non vedono di essere essi stessi autori di questi condizioni. Il compito dell’ideologia capitalista è quello di mantenere il velo che impedisce alle persone di vedere che le loro attività riproducono la forma della loro vita quotidiana; il compito della teoria critica è quello di svelare le attività della vita giornaliera, di renderle trasparenti, di rendere visibile nell’attività quotidiana la forma sociale dell’attività capitalista.
Nel capitalismo, la vita quotidiana consiste in attività interconnesse che riproducono ed espandono la forma capitalista dell’attività sociale. La vendita del tempo di lavoro per un prezzo (uno stipendio), la materializzazione del tempo di lavoro nelle merci (beni vendibili, siano essi tangibili o meno), il consumo di merci tangibili e non (come spettacoli e beni da consumo): queste attività che caratterizzano la vita quotidiana nel capitalismo non sono manifestazioni della “natura umana”, né sono imposte sugli uomini da parte di forze fuori dal loro controllo.
Se si sostiene che l’uomo è “per natura” un membro di una tribù privo di inventiva e un imprenditore innovativo, uno schiavo sottomesso e un fiero artigiano, un cacciatore indipendente e un impiegato dipendente, allora o la “natura” dell’uomo è un concetto vuoto oppure questa dipende da condizioni materiali e storiche, ed è in realtà una risposta a tali condizioni.
L’Alienazione dell’Attività Vitale
Nella società capitalista, l’attività creativa prende la forma della produzione di merci, cioè la produzione di beni vendibili sul mercato, e i risultati dell’attività umana prendono la forma di merci. La vendibilità è la caratteristica universale di tutta l’attività pratica e di tutti i prodotti.
I prodotti dell’attività umana che sono necessari alla sopravvivenza hanno anch’essi la forma di beni vendibili: sono disponibili soltanto in cambio di denaro. E il denaro è disponibile soltanto in cambio di merci. Se un gran numero di persone accettano la legittimità di queste convenzioni, se accettano la convenzione che le merci sono necessarie per ottenere denaro e che il denaro è necessario per sopravvivere, allora si trovano rinchiuse in un circolo vizioso. Siccome non possiedono merci, la loro unica via d’uscita è di considerarsi essi stessi, in parte o completamente, delle merci. È questa la peculiare “soluzione” che le persone si impongono di fronte a determinate condizioni materiali e storiche. Non cedono i propri corpi o parti di essi in cambio di denaro. Cedono il contenuto creativo delle proprie vite, la loro attività pratica quotidiana.
Appena le persone accettano questa equivalenza tra denaro e vita, la vendita dell’attività vitale diventa una condizione necessaria alla loro sopravvivenza fisica e sociale. La vita viene ceduta in cambio della sopravvivenza. Creazione e produzione vengono a significare attività venduta: l’attività di una persona è “produttiva”, utile alla società, solo quando è attività venduta. La persona stessa è un membro produttivo della società solo se le attività che occupano la sua vita quotidiana sono attività vendute. Appena le persone accettano i termini di questo scambio, l’attività giornaliera prende la forma di prostituzione universale.
Il potere creativo venduto, o l’attività quotidiana venduta, prende la forma di lavoro. Il lavoro è una forma storicamente specifica di attività umana, un’attività astratta che ha una sola proprietà: quella di essere vendibile sul mercato per una certa quantità di denaro. Il lavoro è un’attività indifferente, indifferente cioè al particolare compito svolto e indifferente allo scopo di tale compito. Scavare, stampare e scolpire sono attività diverse, ma sono tutte e tre lavoro nella società capitalista. Lavorare è semplicemente “guadagnare soldi”. L’attività vivente sotto forma di lavoro è un modo di guadagnare soldi. La vita diventa un mezzo di sopravvivenza.
Questo rovesciamento ironico non è il culmine drammatico della trama di un fantasioso romanzo, è un dato di fatto della vita quotidiana nella società capitalista. La sopravvivenza, cioè l’autoconservazione e la riproduzione, non è il mezzo per l’attività pratica creativa, è precisamente l’inverso. L’attività creativa sotto forma di lavoro, cioè di attività venduta, è una dolorosa necessità per la sopravvivenza, il lavoro è il mezzo per l’autoconservazione e la riproduzione.
La vendita di attività vitale porta ad un altro rovesciamento. Attraverso la vendita il lavoro di un individuo diventa “proprietà” di un altro, un altro se ne appropria, passa sotto il controllo di un altro. In altre parole, l’attività di una persona diventa l’attività di un’altra, l’attività del suo proprietario: diventa aliena alla persona che la svolge. In questo modo, la vita, i traguardi che un individuo raggiunge nel mondo, la differenza che fa la sua vita nella vita dell’umanità, non solo vengono trasformate in lavoro, un’onerosa condizione di sopravvivenza, ma vengono trasformati in attività aliena, attività svolta da chi compra quel lavoro. Nella società capitalista non sono gli architetti, gli ingegneri, gli operai ad essere costruttori: il costruttore è colui che compra il loro lavoro. I loro progetti, calcoli e movimenti sono a loro alieni; la loro attività vitale, i loro traguardi, sono suoi.
I sociologi accademici, che danno per scontata la vendita del lavoro, concepiscono questa alienazione del lavoro come una sensazione: l’attività del lavoratore gli “appare” aliena, “sembra” essere controllata da qualcun altro. Qualsiasi lavoratore può spiegare ai sociologi accademici che l’alienazione non è né una sensazione né un’idea che vive nella sua testa, ma un fatto reale della sua vita quotidiana. L’attività venduta è davvero aliena al lavoratore, il lavoro è davvero controllato dal suo acquirente.
In cambio della sua attività venduta, il lavoratore ottiene del denaro, il mezzo di sopravvivenza accettato convenzionalmente nella società capitalista. Con questo denaro può comprare merci, cose, ma non può riavere la sua attività. Ciò rivela una strana “lacuna” del denaro come “equivalente universale”. Una persona può vendere merci in cambio di denaro e può comprare le stesse merci con del denaro. Invece può vendere la sua attività vitale in cambio di denaro, ma non può comprare la sua attività vitale con il denaro.
Le cose che il lavoratore compra con il suo stipendio sono innanzitutto beni di consumo che gli permettono di sopravvivere, di riprodurre la sua manodopera per poter continuare a venderla. Sono inoltre spettacoli, oggetti di ammirazione passiva. Egli consuma e ammira i prodotti dell’attività umana passivamente. Non esiste nel mondo come agente attivo che lo trasforma. Ma come impotente spettatore può darsi che questo stato di ammirazione inerme egli lo chiami “felicità”, e siccome il lavoro è doloroso, può darsi che desideri essere “felice”, cioè inattivo, per tutta la vita (una condizione simile ad essere nato morto). Le merci, gli spettacoli, lo consumano, spende energia vitale nell’ammirazione passiva, viene consumato dalle cose. In questo senso, più ha e meno è. Un individuo può sormontare questa morte vivente attraverso l’attività creativa marginale, ma la popolazione non può farlo se non abolendo la forma capitalista di attività pratica, abolendo il lavoro salariato e quindi dealienando l’attività creativa.
Il Feticismo delle Merci
Alienando la propria attività e incarnandola nelle merci, in ricettacoli materiali di lavoro umano, le persone riproducono loro stesse e creano il Capitale.
Dal punto di vista dell’ideologia capitalista, e particolarmente da quello dell’economia accademica, questa affermazione è falsa: le merci “non sono il prodotto del solo lavoro”, ma vengono prodotte dai primordiali “fattori della produzione”, la Terra, il Lavoro e il Capitale: la Santissima Trinità capitalista, in cui ovviamente il “fattore” principale è l’eroe del racconto, il Capitale.
Lo scopo di questa superficiale Trinità non è l’analisi, dato che non è per l’analisi che vengono pagati questi Esperti. Vengono pagati per offuscare, per mascherare la forma sociale dell’attività pratica nel capitalismo, per velare il fatto che i produttori riproducono loro stessi, i propri sfruttatori e gli strumenti con cui vengono sfruttati. La formula della Trinità non riesce a convincere. È ovvio che la terra non è un produttore di merci più di quanto lo siano l’acqua, l’aria o il sole. Inoltre il Capitale, che è contemporaneamente un nome per una relazione sociale tra lavoratori e capitalisti, per gli strumenti di produzione posseduti da un capitalista e per l’equivalente in denaro dei suoi strumenti e i suoi “beni immateriali”, non produce nulla di più del blaterare modellato in forma pubblicabile dagli economisti accademici. Anche gli strumenti di produzione che sono il capitale di un capitalista si possono considerare dei primordiali “fattori della produzione” solo limitando lo sguardo ad un’azienda isolata: infatti guardare l’economia nel suo complesso rivela che il capitale di un capitalista è il ricettacolo materiale del lavoro alienato per un altro capitalista. Anche se la formula della Trinità non convince, però, riesce a svolgere il suo compito di offuscamento spostando l’argomento della domanda: invece di chiedere perché l’attività delle persone nel capitalismo prende la forma del lavoro salariato, dei potenziali analizzatori della vita quotidiana capitalista vengono trasformati in marxisti accademici domestici che si chiedono se il lavoro sia o no l’unico “fattore della produzione”.
Così gli economisti (e l’ideologia capitalista in generale) trattano la terra, il denaro e i prodotti del lavoro come cose che hanno il potere di produrre, di creare valore, di lavorare per i loro proprietari, di trasformare il mondo. Questo è ciò che Marx chiamò il feticismo che caratterizza le concezioni ordinarie della gente e che viene elevato ad un dogma dagli economisti. Per l’economista, le persone viventi sono cose (“fattore della produzione”), e le cose vivono (il denaro “lavora”, il Capitale “produce”).
L’adoratore di un feticcio attribuisce il prodotto della sua propria attività al suo feticcio. Ne risulta che egli smette di esercitare il suo potere (il potere di trasformare la natura, il potere di determinare la forma e il contenuto della sua vita quotidiana): esercita solo quei “poteri” che attribuisce al feticcio (il “potere” di comprare merci). In altre parole, il feticista evira sè stesso e attribuisce virilità al suo feticcio.
Ma il feticcio è una cosa morta, non un essere vivente: non ha virilità. Il feticcio non è nulla più che una cosa per il quale e attraverso il quale vengono mantenute le relazioni capitaliste. Il potere misterioso del Capitale, il suo “potere” di produrre, la sua virilità, non risiede nel Capitale stesso, ma nel fatto che le persone alienano la loro attività creativa, che vendono il loro lavoro ai capitalisti, che materializzano o reificano il loro lavoro alienato nelle merci. In altre parole, le persone vengono comprate con i prodotti della loro stessa attività, eppure vedono quest’ultima come attività del Capitale, e i loro prodotti come prodotti del Capitale. Nell’attribuire potere creativo al Capitale e non alla loro attività, cedono la loro attività vitale, la loro vita quotidiana, al Capitale, il che significa che le persone si danno ogni giorno alla personificazione del Capitale, al capitalista.
Vendendo il loro lavoro, alienando la loro attività, le persone riproducono quotidianamente le personificazioni delle forme dominanti di attività nel capitalismo, riproducono il lavoratore salariato e il capitalista. Non riproducono gli individui soltanto fisicamente ma anche socialmente, riproducono individui che sono venditori di manodopera e individui che sono proprietari di mezzi di produzione, riproducono gli individui e anche le attività specifiche, la vendita e anche la proprietà.
Ogni volta che una persona svolge un’attività che non ha definito lei stessa e che non controlla, ogni volta che paga per dei beni che ha prodotto lei usando del denaro che ha ricevuto in cambio della sua attività alienata, ogni volta che ammira passivamente i prodotti della sua stessa attività come oggetti alieni procurati dai suoi soldi, quella persona dà nuova vita al Capitale e annichilisce la sua propria vita.
Lo scopo di questo processo è la riproduzione della relazione tra lavoratore e capitalista. Non è però lo scopo degli agenti individuali coinvolti. Le loro attività non sono a loro trasparenti, i loro occhi fissano il feticcio che sta tra l’atto e il suo risultato. Gli agenti individuali fissano gli occhi su delle cose, proprio su quelle cose per cui le relazioni capitaliste vengono stabilite. Il lavoratore come produttore mira a scambiare il suo lavoro quotidiano per uno stipendio in denaro, mira proprio alla cosa attraverso la quale la sua relazione con il capitalista viene ristabilita, attraverso la quale egli riproduce sè stesso come lavoratore salariato e l’altro come capitalista. Il lavoratore come consumatore scambia il suo denaro per i prodotti del lavoro, proprio le cose che il capitalista deve vendere per realizzare il suo Capitale.
La trasformazione giornaliera dell’attività vitale in Capitale viene mediata da cose, non viene svolta dalle cose. L’adoratore del feticcio non si rende conto di ciò: per lui il lavoro e la terra, gli strumenti e il denaro, gli imprenditori e i banchieri, sono tutti “fattori” e “agenti”. Quando un cacciatore che indossa un amuleto abbatte un cervo usando una pietra, può essere che consideri l’amuleto come un “fattore” essenziale nell’abbattimento del cervo e perfino nel fornire il cervo come oggetto da abbattere. Se è un feticista responsabile e ben educato dedicherà la propria attenzione all’amuleto, nutrendolo con cura e ammirazione. Per migliorare le condizioni materiali della propria vita troverà un modo migliore di indossare il feticcio, e non di lanciare la pietra. In caso di necessità, può perfino mandare l’amuleto a “cacciare” per conto suo. Le sue attività quotidiane non sono a lui trasparenti: quando mangia bene, non vede che è stata la sua azione di lanciare la pietra, e non l’azione dell’amuleto, a procurargli il cibo. Quando fa la fame, non vede che è stata la sua azione di adorare l’amuleto invece di cacciare, e non l’ira del feticcio, a portare alla sua fame.
Il feticismo delle merci e del denaro, la mistificazione delle attività quotidiane delle persone, la religione della vita di tutti i giorni che attribuisce attività vitale a cose inanimate, non è un capriccio mentale nato nella fantasia degli uomini: ha origine nel carattere delle relazioni sociali nel capitalismo. Le persone si relazionano davvero tra loro tramite le cose, il feticcio è davvero l’occasione della loro azione collettiva e della riproduzione della loro attività. Ma non è il feticcio a svolgere l’attività. Non è il Capitale a trasformare le materie prime, né a produrre i beni. Se l’attività vitale non trasformasse le materie prime, esse rimarrebbero intrasformate, inerti, materia morta. Se gli uomini non fossero disposti a continuare a vendere la loro attività vitale, l’impotenza del Capitale verrebbe svelata, il Capitale cesserebbe di esistere, la sua ultima potenza rimasta sarebbe la capacità di ricordare una forma sorpassata di vita quotidiana caratterizzata dalla prostituzione universale giornaliera.
Il lavoratore aliena la sua vita per mantenersi in vita. Se non vendesse la sua attività vitale non potrebbe ottenere uno stipendio e non potrebbe sopravvivere. Ma non è lo stipendio a rendere l’alienazione condizione di sopravvivenza. Se gli uomini fossero collettivamente indisposti a vendere le proprie vite, se fossero disposti a prendere il controllo delle loro attività, la prostituzione universale non sarebbe condizione di sopravvivenza. Ciò che rende l’alienazione dell’attività vitale necessaria alla conservazione della vita è la disposizione delle persone a continuare a vendere il loro lavoro, non le cose per cui lo vendono.
L’attività vitale venduta dal lavoratore è comprata dal capitalista. Ed è solo quest’attività vitale a far vivere il Capitale e a renderlo “produttivo”. Il capitalista, “proprietario” di materie prime e strumenti di produzione, presenta oggetti naturali e prodotti del lavoro di altri come la sua “proprietà privata”. Ma non è il potere misterioso del Capitale a creare la “proprietà privata” del capitalista: l’attività vitale è ciò che crea la “proprietà”, e la forma di tale attività è ciò che la rende “privata”.
La Trasformazione dell’Attività Vitale in Capitale
La trasformazione dell’attività vitale in Capitale avviene tramite le cose, quotidianamente, ma non per opera delle cose. Le cose che sono prodotti dell’attività umana sembrano essere agenti attivi perché le attività e i contatti vengono stabiliti per e attraverso le cose, e perché le attività non sono trasparenti alle persone che le svolgono, le quali confondono l’oggetto mediatore con la causa.
Nel processo di produzione capitalista il lavoratore incarna o materializza la sua energia vitale alienata in un oggetto inerte usando strumenti che sono incarnazioni dell’attività di altre persone. Strumenti industriali sofisticati incarnano l’attività intellettuale e manuale di innumerevoli generazioni di inventori, miglioratori e produttori provenienti da ogni angolo della terra e da svariate forme di società. Gli strumenti stessi sono oggetti inerti, sono incarnazioni materiali di attività vitale ma non sono vivi. L’unico agente attivo nel processo di produzione è il lavoratore vivente. Egli usa i prodotti del lavoro di altri e li infonde di vita, per così dire, ma la vita è la sua: non è in grado di resuscitare gli individui che hanno immagazzinato la loro attività vitale nel suo strumento. Lo strumento può permettergli di fare di più in un dato tempo, e in questo senso può aumentare la sua produttività. Ma solo il lavoro vivente capace di produrre può essere produttivo.
Per esempio, quando un operaio aziona un tornio elettrico usa i prodotti del lavoro di generazioni di fisici, inventori, ingegneri elettrici, costruttori di torni. È ovviamente più produttivo di un artigiano che scolpisce lo stesso oggetto a mano. Ma in nessun senso il “Capitale” a disposizione dell’operaio è più “produttivo” del “Capitale” dell’artigiano. Se generazioni di attività intellettuale e manuale non fossero state incarnate nel tornio elettrico, se l’operaio avesse dovuto inventare il tornio, l’elettricità e il tornio elettrico, allora avrebbe impiegato numerose vite a produrre un solo oggetto con un tornio elettrico, e nessuna quantità di Capitale avrebbe aumentato la sua produttività al di sopra di quella dell’artigiano che lavora a mano.
La nozione della “produttività del capitale”, e particolarmente la dettagliata misurazione di tale “produttività”, sono invenzione della “scienza” economica, quella religione della vita quotidiana capitalista che consuma l’energia delle persone nell’adorazione, l’ammirazione e la l’adulazione del feticcio centrale della società capitalista. I colleghi medievali di questi “scienziati” svolsero dettagliate misurazioni dell’altezza e la larghezza degli angeli in Paradiso, senza mai chiedere cosa fossero gli angeli e il Paradiso e dando per scontata l’esistenza di entrambi.
Il risultato dell’attività venduta del lavoratore è un prodotto che non gli appartiene. Questo prodotto è un’incarnazione del suo lavoro, una materializzazione di una parte della sua vita, un ricettacolo che contiene la sua attività vitale, ma non è suo: è alieno quanto il suo lavoro. Egli non ha deciso di farlo, e quando viene fatto non ne dispone. Se lo vuole lo deve comprare. Ciò che ha fatto non è semplicemente un prodotto con certe proprietà utili. Per quello non avrebbe avuto bisogno di vendere il suo lavoro ad un capitalista in cambio di uno stipendio. Gli sarebbe bastato scegliere i materiali necessari e gli strumenti disponibili e formato i materiali guidato dai suoi obiettivi e limitato dalla sua conoscenza e abilità. È ovvio che un individuo può fare ciò solo marginalmente. L’appropriazione e l’uso da parte delle persone dei materiali e degli strumenti disponibili può avvenire solo dopo il rovesciamento della forma capitalista di attività.
Ciò che il lavoratore produce in condizioni capitaliste è un prodotto con una proprietà molto specifica, quella di essere vendibile. Ciò che la sua attività alienata produce è una merce.
Siccome la produzione capitalista è produzione di merci, l’affermazione che il suo obiettivo è la soddisfazione di bisogni umani è falsa, è una razionalizzazione e un’apologia. La “soddisfazione di bisogni umani” non è l’obiettivo né del capitalista né del lavoratore coinvolti nella produzione, né è un risultato di essa. Il lavoratore vende il suo lavoro per ottenere uno stipendio. Il contenuto specifico del lavoro gli è indifferente. Non aliena il suo lavoro ad un capitalista che non lo paghi in cambio di esso, per quanti bisogni umani possano soddisfare i prodotti di quel capitalista. Il capitalista compra lavoro e lo impiega nella produzione per ottenere merci che possano essere vendute. Gli sono indifferenti le proprietà specifiche del prodotto, come gli sono indifferenti i bisogni delle persone. L’unica cosa che gli interessa del prodotto è a quanto lo potrà vendere, e l’unica cosa che gli interessa dei bisogni delle persone è quanto hanno “bisogno” di comprare e come possono essere obbligate, attraverso la propaganda e il condizionamento psicologico, ad avere più “bisogno”. L’obiettivo del capitalista è di soddisfare il suo bisogno di riprodurre e ingrandire il Capitale, e il risultato del processo è l’espansione della riproduzione del lavoro salariato e del Capitale (che non sono “bisogni umani”).
La merce prodotta dal lavoratore viene scambiata dal capitalista con una quantità equivalente di denaro: la merce è un valore che può essere scambiata per un valore equivalente. In altre parole, il lavoro vivente e passato, materializzato nel prodotto, può esistere in due forme distinte ma equivalenti, in merce e denaro o in ciò che le due cose hanno in comune, in valore. Questo non significa che il valore sia lavoro. Il valore è la forma sociale del lavoro reificato (materializzato) nella società capitalista.
Nel capitalismo le relazioni sociali non vengono stabilite direttamente ma attraverso il valore. L’attività quotidiana non viene scambiata direttamente ma sotto forma di valore. Di conseguenza, ciò che succede all’attività vitale nel capitalismo non può venire tracciato osservando l’attività stessa ma solo seguendo le metamorfosi del valore.
Quando l’attività vitale delle persone prende la forma di valore (attività alienata), acquisisce la proprietà di poter essere scambiata, acquisisce la forma di valore. In altre parole, il lavoro si può scambiare con una quantità “equivalente” di denaro (stipendio). L’alienazione deliberata dell’attività vitale, che viene percepita come necessaria alla sopravvivenza dai membri della società capitalista, riproduce essa stessa la forma capitalista nella quale l’alienazione è necessaria alla sopravvivenza. Siccome l’attività vitale ha la forma di valore, i prodotti di quell’attività devono avere anch’essi la forma di valore: devono poter essere scambiati per denaro. Questo è ovvio dato che, se i prodotti del lavoro non prendessero la forma del valore, ma ad esempio la forma di oggetti utili a disposizione della società, allora o rimarrebbero nella fabbrica o verrebbero presi liberamente dai membri della società appena diventassero necessari. In entrambi i casi lo stipendio ricevuto dai lavoratori non avrebbe alcun valore, e l’attività vivente non potrebbe essere venduta per una quantità “equivalente” di denaro: l’attività vivente non potrebbe essere alienata. Di conseguenza, appena l’attività vitale prende la forma di valore, i prodotti di quell’attività prendono la forma di valore e la riproduzione della vita quotidiana avviene tramite cambiamenti o metamorfosi di valore.
Il capitalista vende il prodotti del lavoro su un mercato, li scambia per una quantità equivalente di soldi, realizza un determinato valore. La grandezza specifica di questo valore in un particolare mercato è il prezzo delle merci. Per l’economista accademico, il Prezzo è la chiave delle porte del Paradiso di San Pietro. Come il Capitale stesso, il Prezzo si muove in un mondo fantastico che consiste interamente di oggetti. Gli oggetti hanno relazioni umane tra di loro e sono vivi. Si trasformano a vicenda, comunicano tra di loro, si sposano e fanno figli. E naturalmente è solo per grazia di questi oggetti intelligenti, potenti e creativi che le persone possono essere così felici nella società capitalista. Nelle rappresentazioni visive dei meccanismi del paradiso dell’economista, gli angeli fanno tutto e gli uomini non fanno nulla: gli uomini semplicemente godono di ciò che questi esseri superiori fanno per loro. Non solo il Capitale produce e il denaro lavora, ma altri esseri misteriosi hanno virtù simili. Così l’Offerta, una quantità di cose che vengono vendute, e la Domanda, una quantità di cose che vengono comprate, insieme determinano il Prezzo, una quantità di denaro. Quando Offerta e Domanda si sposano in un particolare punto del diagramma, partoriscono il Prezzo d’Equilibrio, che corrisponde ad uno stato di beatitudine universale. Le attività quotidiane sono svolte da cose, e le persone vengono ridotte a cose (“fattori della produzione”) durante le loro ore produttive e a spettatori passivi di cose durante il loro “tempo libero”. La virtù dello Scienziato Economico consiste nella sua abilità di attribuire alle cose il risultato delle attività quotidiane delle persone, e nella sua inabilità di vedere l’attività vitale delle persone sotto le bizzarrie delle cose. Per l’economista, le cose attraverso le quali l’attività delle persone viene regolata nel capitalismo sono esse stesse le madri e i figli, le cause e le conseguenze della loro stessa attività.
La grandezza del valore, cioè il prezzo di una merce, la quantità di denaro per il quale si può scambiare, non viene determinata da cose, ma dalle attività quotidiane delle persone. Domanda e offerta, competizione perfetta e imperfetta non sono nulla di più che forme sociali di prodotti e attività nella società capitalista, non hanno vita propria. Il fatto che l’attività sia alienata, cioè che il tempo lavoro venga venduto per una determinata quantità di denaro, che abbia un certo valore, ha varie conseguenze per la grandezza del valore dei prodotti di quel lavoro. Il valore delle merci vendute deve essere almeno uguale al valore del tempo lavoro. Questo è ovvio sia dal punto di vista dell’azienda capitalista individuale, sia quello della società nel suo complesso. Se il valore delle merci vendute dal capitalista individuale fosse minore del valore del lavoro che ha impiegato, le sue spese per il lavoro sarebbero da sole maggiori del suo guadagno e andrebbe presto in bancarotta. Socialmente, se il valore della produzione dei lavoratori fosse minore del valore del loro consumo, allora la manodopera non potrebbe nemmeno riprodurre sè stessa, tantomeno una classe di capitalisti. Se invece il valore delle merci fosse soltanto uguale al valore del tempo lavoro speso per produrle, i produttori di merci riprodurrebbero soltanto loro stessi e la loro società non sarebbe capitalista. La loro attività potrebbe comunque consistere di produzione di merci, ma non sarebbe produzione di merci capitalista.
Perché il lavoro crei Capitale, il valore dei prodotti del lavoro dev’essere maggiore del valore del lavoro. In altre parole, la manodopera deve produrre un surplus, una quantità di beni che non consuma, e questo surplus deve venire trasformato in plusvalore, una forma di valore di cui si appropriano non i lavoratori (come stipendio) ma i capitalisti (come profitto). Inoltre, il valore dei prodotti del lavoro deve essere ancora maggiore, siccome il lavoro vivente non è l’unico tipo di valore incarnato in essi. Nel processo di produzione i lavoratori spendono la propria energia, ma usano anche il lavoro immagazzinato di altri come strumenti, e formano materiali sui quali è stato precedentemente speso lavoro.
Questo porta allo strano risultato che il valore dei prodotti del lavoratore e il valore del suo stipendio sono diversi, cioè che la somma di denaro ricevuta dal capitalista quando vende le merci prodotte dai lavoratori che ha assunto è diversa dalla somma che paga i lavoratori. Questa differenza non viene spiegata dal fatto che si deve pagare un compenso per i materiali e gli strumenti usati. Se il valore delle merci vendute fosse uguale al valore del lavoro vitale e gli strumenti, non ci sarebbe spazio per i capitalisti. Il fatto è che la differenza tra le due grandezze deve essere sufficiente a supportare una classe di capitalisti: non solo gli individui ma anche l’attività specifica che questi individui svolgono, cioè la compera del lavoro. La differenza tra il valore totale dei prodotti e il valore del lavoro impiegato per la loro produzione è plusvalore, il seme del Capitale.
Per localizzare l’origine del plusvalore è necessario esaminare perché il valore del lavoro sia minore del valore delle merci che esso produce. L’attività alienata del lavoratore trasforma le materie prime con l’ausilio di strumenti e produce una certa quantità di merci. Quando queste merci vengono vendute e le spese per le materie prime consumate e per gli strumenti vengono pagate, però, i lavoratori non ricevono il valore rimanente dei loro prodotti come stipendio: ricevono di meno. In altre parole, durante ogni giornata lavorativa i lavoratori svolgono una certa quantità di lavoro non pagato, lavoro forzato, per il quale non ricevono nessun equivalente.
Lo svolgimento di questo lavoro non pagato, di questo lavoro forzato, è un’altra “condizione di sopravvivenza” nella società capitalista. Come l’alienazione, però, questa condizione non è imposta dalla natura ma dalla pratica collettiva delle persone, dalle loro attività quotidiane. Prima dell’esistenza dei sindacati, un lavoratore individuale accettava qualsiasi lavoro forzato fosse disponibile, dato che rifiutare il lavoro avrebbe significato che altri lavoratori avrebbero accettato i termini di scambio disponibili, e il lavoratore individuale non avrebbe ricevuto alcuno stipendio. I lavoratori erano in competizione tra di loro per gli stipendi offerti dai capitalisti; se un lavoratore si licenziava perché lo stipendio era inaccettabilmente basso, un lavoratore disoccupato era disposto a sostituirlo, dato che per il disoccupato uno stipendio piccolo è comunque maggiore di nessuno stipendio. Questa competizione tra lavoratori veniva chiamata “lavoro libero” dai capitalisti, i quali facevano grandi sacrifici per mantenere la libertà dei lavoratori, siccome era proprio questa libertà a conservare il plusvalore del capitalista e a rendere possibile per lui accumulare il Capitale. Nessun lavoratore si prefiggeva lo scopo di produrre più beni di quelli per cui veniva pagato. Il suo scopo era quello di ottenere uno stipendio che fosse il più alto possibile. L’esistenza di lavoratori che non ottenevano nessuno stipendio e il cui concetto di uno stipendio alto era di conseguenza più modesto di quello di un lavoratore impiegato, però, rendeva possibile per il capitalista assumere lavoro ad un prezzo minore. L’esistenza di lavoratori disoccupati, anzi, permetteva al capitalista di pagare lo stipendio minore che i lavoratori fossero disposti ad accettare. Così il risultato dell’attività quotidiana collettiva dei lavoratori, ognuno dei quali ambiva ad avere uno stipendio che fosse il più alto possibile, era quello di abbassare gli stipendi di tutti: l’effetto della competizione di ognuno contro tutti era che tutti ottenevano lo stipendio minore possibile, e che il capitalista otteneva il surplus maggiore possibile.
La pratica giornaliera di tutti annulla gli obiettivi di ognuno. Ma i lavoratori non sapevano che la loro situazione fosse un prodotto del loro comportamento quotidiano: le loro attività non erano a loro trasparenti. Ai lavoratori sembrava che gli stipendi bassi fossero semplicemente una parte naturale della vita, come la malattia e la morte, e che il diminuire degli stipendi fosse una catastrofe naturale, come un’alluvione o un inverno rigido. Le critiche dei socialisti e le analisi di Marx, insieme a un aumento dello sviluppo industriale che concesse più tempo alla riflessione, strappò alcuni dei veli e permise ai lavoratori di vedere attraverso le loro attività in una certa misura. Nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, però, i lavoratori non si disfecero della forma capitalista della vita quotidiana, ma formarono sindacati. Nelle condizioni materiali differenti dell’Unione Sovietica e dell’Europa orientale, i lavoratori (e i contadini) sostituirono la classe capitalista con una burocrazia statale che compra lavoro alienato e accumula Capitale nel nome di Marx.
Con i sindacati la vita quotidiana è simile, anzi quasi uguale, a quella che era prima dei sindacati. La vita di tutti i giorni continua a consistere in lavoro, in attività alienata, e di lavoro non pagato, o lavoro forzato. Il lavoratore sindacale non stabilisce più i termini della propria alienazione, lo fanno per lui i funzionari sindacali. I termini dell’alienazione dell’attività del lavoratore non sono più guidati dalla necessità del singolo lavoratore di accettare ciò che è disponibile, ora sono guidati dalla necessità del burocrate sindacale di mantenere la sua posizione di pappone tra i venditori e gli acquirenti di lavoro.
Con o senza sindacati, il plusvalore non è un prodotto né della natura né del Capitale, viene creato dalle attività quotidiane delle persone. Nello svolgimento delle loro attività quotidiane le persone sono disposte non solo ad alienare tali attività, ma anche a riprodurre le condizioni che li costringono ad alienarle, a riprodurre il Capitale e dunque il potere del Capitale di comprare il lavoro. Ciò non perché non sappiano “quale sia l’alternativa”. Una persona debilitata da indigestione cronica dovuta al suo eccessivo consumo di grasso non continua a mangiare grasso perché non sa quale sia l’alternativa. O preferisce essere debilitato a rinunciare al grasso, oppure non gli è chiaro che il suo consumo giornaliero di grasso lo debilita. E se il dottore, il predicatore, l’insegnante e il politico gli dicono, primo, che il grasso è ciò che lo mantiene in vita e, secondo, che fanno già per conto suo tutto ciò che farebbe se fosse sano, allora non sorprende che la sua attività non gli sia trasparente e che non faccia grandi sforzi per renderla tale.
La produzione del plusvalore è una condizione per la sopravvivenza non della popolazione ma del sistema capitalista. Il plusvalore è quella porzione del valore delle merci prodotte dal lavoro che non viene resa ai lavoratori. Si può esprimere sia in merci sia in denaro (così come il Capitale si può esprimere come una quantità sia di cose sia di denaro), ma ciò non cambia il fatto che sia un’espressione del lavoro materializzato che è immagazzinato in una certa quantità di prodotti. Siccome i prodotti si possono scambiare per una quantità “equivalente” di denaro, quest’ultimo rappresenta lo stesso valore dei prodotti. Il denaro può a sua volta venire scambiato con un’altra quantità di prodotti di valore “equivalente”. L’insieme di questi scambi, che avvengono contemporaneamente durante lo svolgimento della vita quotidiana capitalista, costituisce il processo capitalista della circolazione. È attraverso questo processo che avviene la metamorfosi di plusvalore in Capitale.
La porzione di valore che non viene restituito al lavoro, cioè il plusvalore, permette al capitalista di esistere, e gli permette anche di fare molto di più che semplicemente esistere. Il capitalista investe una porzione di questo plusvalore, assume nuovi lavoratori e compra nuovi mezzi di produzione: estende il suo dominio. Ciò significa che il capitalista accumula nuovo lavoro, sia sotto forma del lavoro vivente che assume sia del lavoro passato (pagato e non) che è immagazzinato nei materiali e nelle macchine che compra.
La classe capitalista nel suo insieme accumula il plusvalore della società, ma questo processo avviene su scala sociale e di conseguenza non si può vedere osservando soltanto le attività di un singolo capitalista. Bisogna ricordare che i prodotti comprati da un dato capitalista come strumenti hanno le stesse caratteristiche dei prodotti che egli vende. Un primo capitalista vende degli strumenti ad un secondo per una certa somma di valore, e solo una parte di questo valore viene restituito ai lavoratori come stipendio. La parte rimanente è plusvalore, con il quale il primo capitalista compra nuovi strumenti e lavoro. Il secondo capitalista compra gli strumenti per il dato valore, il che significa che paga il quantitativo totale di lavoro reso al primo, il quantitativo che è stato remunerato e anche quello svolto gratuitamente. Ciò significa che gli strumenti accumulati dal secondo capitalista contengono il lavoro non pagato svolto per conto del primo. Il secondo a sua volta vende i suoi prodotti per un certo valore e ne rende soltanto una porzione ai suoi lavoratori, usando il resto per ottenere nuovi strumenti e lavoro. Se tutto questo procedimento venisse schiacciato in un unico periodo di tempo, e se tutti i capitalisti venissero aggregati, si vedrebbe che il valore con il quale il capitalista acquisisce nuovi strumenti e lavoro è uguale al valore dei prodotti che non restituisce ai produttori. Questo pluslavoro accumulato è Capitale.
In termini della società capitalista nel suo insieme, il Capitale totale è uguale alla somma di lavoro non pagato svolto da generazioni di esseri umani le cui vite sono consistite nell’alienazione quotidiana della loro attività vitale. In altre parole il Capitale, di fronte al quale gli uomini vendono i giorni delle loro vite, è il prodotto dell’attività venduta degli uomini e viene riprodotto ed esteso ogni volta che un uomo vende un altro giorno, in ogni momento in cui decide di continuare di vivere la forma capitalista della vita quotidiana.
Accumulazione e Stoccaggio dell’Attività Umana
La trasformazione di pluslavoro in Capitale è una forma storica specifica di un processo più generale: quello di industrializzazione, la trasformazione permanente dell’ambiente materiale dell’uomo.
Certe caratteristiche essenziali di questa conseguenza dell’attività umana nel capitalismo si possono comprendere per via di un’illustrazione semplificata. In una società immaginaria le persone passano la maggior parte del loro tempo attivo a produrre cibo e altri beni di prima necessità, e solo una parte del loro tempo è “in eccesso” nel senso che è esente dalla produzione di beni di prima necessità. Questo surplus di attività può venire dedicato alla produzione di cibo per sacerdoti e guerrieri che non prendono parte alla produzione, può essere usato per produrre beni che verranno bruciati in occasioni sacre, può venire consumato nello svolgimento di cerimonie o di esercizi atletici. In tutti questi casi le condizioni materiali di queste persone probabilmente non cambieranno da una generazione all’altra come risultato delle loro attività giornaliere. Una generazione di persone di questa società immaginaria, però, potrebbe immagazzinare il suo surplus di tempo invece di consumarlo. Ad esempio, potrebbero passare questo tempo a caricare delle molle. La generazione dopo può liberare l’energia immagazzinata nelle molle per svolgere compiti necessari, o può semplicemente usare l’energia delle molle per caricare nuove molle. In entrambi i casi, il plusvalore immagazzinato della generazione precedente fornirà alla nuova generazione una surplus di tempo maggiore. La nuova generazione può anche immagazzinare questo surplus in molle e altri ricettacoli. In un periodo relativamente breve, il lavoro immagazzinato nelle molle diventerà maggiore del tempo di lavoro di cui dispone una qualsiasi generazione vivente: spendendo relativamente poca energia, le persone di questa società immaginaria potranno sfruttare le molle per lo svolgimento di gran parte dei compiti necessari, e anche per quello di caricare nuove molle per generazioni successive. La maggior parte delle ore di vita che prima passavano a produrre beni di prima necessità saranno ora disponibili per attività non dettate dalla necessità ma proiettate dall’immaginazione.
Ad un primo sguardo sembra improbabile che delle persone dedichino ore di vita al compito bizzarro di caricare molle. Sembra altrettanto improbabile che, anche se caricassero delle molle, che le immagazzinerebbero per generazioni future, siccome scaricarle potrebbe fornire, ad esempio, un meraviglioso spettacolo in giorni di festa.
Se le persone non fossero libere di disporre delle proprie vite, però, se la loro attività lavorativa non appartenesse a loro, se la loro attività pratica consistesse nel lavoro forzato, allora l’attività umana potrebbe verosimilmente venire sfruttata per il compito di caricare molle, di immagazzinare un surplus di tempo lavorativo in ricettacoli materiali. Il ruolo storico del Capitalismo, un ruolo svolto da persone che accettarono la legittimità del controllo delle loro vite da parte di altri, consiste precisamente nell’immagazzinare attività umana in ricettacoli materiali per mezzo di lavoro forzato.
Appena le persone si sottomettono al “potere” del denaro di comprare lavoro immagazzinato e attività vivente, appena accettano il “diritto” fittizio dei detentori di denaro di controllare e disporre dell’attività sia vivente che immagazzinata della società, trasformano il denaro in Capitale e i detentori del denaro in Capitalisti.
Questa doppia alienazione, l’alienazione dell’attività vivente sotto forma di lavoro salariato e l’alienazione dell’attività di generazioni passate sotto forma di lavoro immagazzinato (mezzi di produzione), non è un singolo atto che ebbe luogo in un certo momento della storia. La relazione tra lavoratori e capitalisti non è una cosa che si impose sulla società ad un certo punto nel passato, una volta per tutte. Non c’è stato nessun momento in cui gli uomini firmarono un contratto o strinsero un accordo verbale in cui cedettero il potere sull’attività vitale di tutte le generazioni future in ogni parte del mondo.
Il Capitale indossa la maschera di una forza naturale. Sembra solido quanto la terra stessa, i suoi movimenti sembrano irreversibili quanto le maree, le sue crisi paiono inevitabili quanto i terremoti e le alluvioni. Anche quando viene ammesso che il potere del Capitale è creato dagli uomini, questa ammissione può essere semplicemente un’occasione per inventare una maschera ancora più imponente, quella di una forza artificiale, un mostro di Frankenstein, il cui potere sbalordisce più di quello di qualsiasi forza naturale.
Ma il Capitale non è né una forza della natura né un mostro creato dall’uomo in un certo momento del passato e che da allora ha dominato la vita umana.
Il potere del Capitale non risiede nel denaro, dato che quest’ultimo è una convenzione sociale che non ha più “potere” di quanto gli uomini siano disposti a dargli. Quando gli uomini si rifiutano di vendere il loro lavoro, il denaro non può svolgere nemmeno i compiti più semplici, perché il denaro non “lavora”.
Né il potere del Capitale risiede nei ricettacoli materiali in cui è immagazzinato il lavoro di generazioni passate, siccome l’energia potenziale contenuta in essi può essere liberata dall’attività di persone viventi a prescindere dal fatto che i ricettacoli siano o meno Capitale, cioè “proprietà” aliena. Senza attività vivente, la collezione di oggetti che costituiscono il Capitale della società sarebbe soltanto un mucchio di artefatti assortiti privi di vita propria, e i “proprietari” del Capitale sarebbero semplicemente un assortimento sparso di persone eccezionalmente poco creative (per formazione) che si circondano di pezzetti di carta in un vano tentativo di resuscitare memorie di un passato grandioso. L’unico “potere” del Capitale risiede nelle attività quotidiane di persone viventi. Questo “potere” consiste nella disponibilità delle persone a vendere le loro attività quotidiane in cambio di denaro e di cedere il controllo sui prodotti dell’attività loro e di quella di generazioni precedenti.
Appena una persona vende il suo lavoro ad un capitalista e accetta solo una parte del suo prodotto come pagamento per quel lavoro, crea le condizioni per la compera e lo sfruttamento di altre persone. Nessun uomo darebbe volontariamente il proprio braccio o il proprio figlio in cambio di denaro, eppure quando un uomo vende coscientemente e deliberatamente la sua vita lavorativa per acquisire i beni necessari alla vita, non solo riproduce le condizioni che continuano a rendere la vendita della sua vita necessaria alla conservazione di quest’ultima, ma crea anche le condizioni di questa necessità per altre persone. Le generazioni future possono naturalmente rifiutarsi di vendere le loro vite lavorative per lo stesso motivo che egli si rifiutò di vendere il suo braccio, ma ogni mancato rifiuto del lavoro alienato e forzato ingrandisce le scorte di lavoro immagazzinato con il quale il Capitale può comprare vite di lavoro.
Per trasformare il pluslavoro in Capitale, il capitalista deve trovare un modo di immagazzinarlo in ricettacoli materiali, in nuovi mezzi di produzione. E deve assumere nuovi lavoratori per attivare i nuovi mezzi di produzione. In altre parole, deve ingrandire la sua impresa, oppure iniziare una nuova impresa in un altro ramo della produzione. Questo presuppone o richiede l’esistenza di materie prime che possano essere modellate in nuove merci vendibili, l’esistenza di acquirenti dei nuovi prodotti, e l’esistenza di persone abbastanza povere da essere disposte a vendere il proprio lavoro. Questi requisiti vengono essi stessi creati dall’attività capitalista, e i capitalisti non riconoscono alcun limite od ostacolo alla loro attività: la democrazia del Capitale esige libertà assoluta.
L’imperialismo non è soltanto “l’ultima fase” del Capitalismo, ne è anche la prima.
Qualsiasi cosa si possa trasformare in un bene vendibile sul mercato è acqua al mulino del capitalista, sia che esso si trovi sulla terra del capitalista sia che si trovi su quella del vicino, che giaccia sotto il suolo o sopra, galleggi sul mare o strisci sul suo fondo, che sia confinata ad altri continenti o altri pianeti. Tutte le esplorazioni della natura da parte dell’umanità, dall’Alchimia alla Fisica, vengono mobilitate alla ricerca di nuovi materiali in cui immagazzinare lavoro, di nuovi oggetti che qualcuno possa essere insegnato a comprare.
Gli acquirenti di vecchi e nuovi prodotti vengono creati impiegando ogni mezzo disponibile, e nuovi mezzi vengono scoperti di continuo. Vengono stabiliti “mercati aperti” e “porte aperte” con la forza e con la truffa. Se alle persone mancano i mezzi per comprare i prodotti dei capitalisti, vengono assunti dai capitalisti e vengono pagati per produrre le merci che vogliono comprare. Se degli artigiani del posto producono già ciò che i capitalisti hanno da vendere, gli artigiani vengono mandati in rovina o le loro attività vengono acquisite. Se l’utilizzo di certi prodotti è vietato da leggi o tradizioni, queste vengono distrutte. Se le persone non possiedono gli oggetti sui quali usare i prodotti dei capitalisti, viene insegnato loro a comprare tali oggetti. Se le persone esauriscono i loro desideri fisici o biologici, i capitalisti “soddisfano” i loro “desideri spirituali” e assumono psicologi che ne creino. Se le persone sono talmente piene dei prodotti dei capitalisti da non sapere più cosa farsene di nuovi oggetti, gli viene insegnato a comprare oggetti e spettacoli che non hanno nessun impiego ma che possono semplicemente essere osservati e ammirati.
Si trovano persone povere in società agrarie e pre-agrarie su ogni continente. Se non sono abbastanza povere da essere disposte a vendere il proprio lavoro quando arrivano i capitalisti, vengono impoveriti dalle attività degli stessi capitalisti. Le terre dei cacciatori diventano gradualmente la “proprietà privata” di “proprietari” che usano la violenza statale per confinare i cacciatori a “riserve” che non contengono cibo a sufficienza per mantenerli in vita. Gli strumenti di contadini gradualmente diventano disponibili soltanto dallo stesso mercante che generosamente presta loro denaro con il quale comprare gli strumenti, fino a quando i contadini hanno “debiti” talmente grandi da venire costretti a vendere terra che né essi né alcun loro antenato aveva mai comprato. Gli acquirenti dei prodotti di artigiani si riducono gradualmente ai mercanti che vendono tali prodotti, finché non arriva il giorno in cui un mercante decide di far alloggiare i “suoi artigiani” sotto un unico tetto e di fornire gli strumenti che permetteranno loro di concentrare la propria attività sulla produzione degli oggetti più redditizi. Cacciatori sia dipendenti che indipendenti, contadini e artigiani, uomini liberi e schiavi vengono trasformati in lavoratori. Coloro che prima disponevano delle proprie vite di fronte a condizioni materiali ostili cessano di disporne proprio quando assumono il compito di modificare le loro condizioni materiali. Coloro che precedentemente erano creatori consapevoli della propria povera esistenza diventano vittime inconsapevoli della loro stessa attività proprio mentre aboliscono questa povertà. Delle persone che erano molto ma avevano poco ora hanno molto ma sono poco.
La produzione di nuove merci, la “apertura” di nuovi mercati, la creazione di nuovi lavoratori non sono tre attività separate: sono tre aspetti della stessa attività. Una nuova forza lavoro viene creata proprio allo scopo di produrre le nuove merci. Lo stipendio che ricevono questi lavoratori è esso stesso il nuovo mercato, il loro lavoro non pagato è la fonte di ulteriore espansione. Né barriere naturali né quelle culturali fermano la diffusione del Capitale, la trasformazione dell’attività quotidiana delle persone in lavoro alienato, la trasformazione del loro pluslavoro nella “proprietà privata” dei capitalisti. Ma il Capitale non è una forza della natura. È un insieme di attività svolte ogni giorno da persone. È una forma di vita quotidiana. La sua esistenza e la sua espansione continuate presuppongono soltanto una condizione essenziale: la disponibilità delle persone a continuare ad alienare le loro vite lavorative e così riprodurre la forma capitalista della vita quotidiana.
Kalamazoo, 1969