Il nostro sistema socioeconomico fonda se stesso proprio sul principio della connessione e della comunicazione permanenti. Che fine fanno il silenzio e l'autosufficienza? Come cavalcano gli apparati politici questo vuoto esistenziale e la paura della solitudine?

Il protagonista del film Perfect days di Wim Wenders si sveglia all’alba, bagna le piante, lavora meticolosamente alcune ore, guida attraverso le imponenti arterie asfaltate della città di Tokyo. Si addormenta spontaneamente, sogna pulviscoli di luce azzurrina, legge. Sembrerebbe, a un’occhiata superficiale, il prototipo dell’individuo moderno: alienato e ripiegato su se stesso. In realtà, la sua esistenza è la più compiuta parabola del pensiero orientale. Sosta presso di sé. Ha un equilibrio interno che gli consente di concentrarsi solo sul momento presente e solo nel momento in cui questo si manifesta. Dipende dagli altri e dalle circostanze esterne il meno possibile. È in grado di dare vita a una circolarità programmatica, pacificata che si sottrae al sordo brulicare del mondo, alle sue logiche.

Il protagonista di Perfect days è l’antieroe contemporaneo. Laddove il modello umano proposto dall’epoca scalpita, freme, è un coacervo di pulsioni nervose, non sopporta il silenzio, langue per restare connesso. Abitando un secolo che ha fatto coincidere la solitudine con il male, la cultura della relazione si è imposta pervasivamente come unica alternativa al degrado della persona. Marcando un concetto di stasi a scapito di peculiarità ontologiche, stare da soli vuol dire automaticamente essere soli.

Il sistema socioeconomico fonda se stesso proprio sul principio della connessione e della comunicazione permanenti. Non esiste più un luogo al mondo esente dal segnale telefonico. La scusa che fino a una decina d’anni fa traeva fuori d’impiccio suona oggi del tutto anacronistica. C’è campo ovunque. Solo in volo è ancora obbligatoria la modalità aereo, ma sono in corso trattative per destituire una norma considerata universalmente obsoleta, del resto sarà proprio vero che causerebbe interferenze alle apparecchiature degli aeromobili? I pareri divergono, staremo a vedere. Sottrarsi alla modalità relazionale è diventato, se non impossibile, a dir poco tortuoso. Le email, che prima scandivano il flusso di informazioni pertinenti ad ambienti di lavoro, sono state soppiantate da WhatsApp. La maggior parte degli scambi professionali avviene all’interno delle chat di gruppo, che ammantano il rapporto di dipendenza di un’illusoria apparenza di convivialità, ma soprattutto rendono reperibili, rintracciabili, costretti a riscontri immediati.

Grazie allo smartphone, tutti sono sottoposti a un dialogo ininterrotto, per il quale non esistono giorni festivi, soste, vacanze, distanze geografiche. L’aggiornamento quotidiano dei propri stati d’animo è amplificato dalle modalità audio e video in diretta. Un articolo uscito recentemente sosteneva che la parola meno ricorrente su WhatsApp sia proprio «ciao». Perché le conversazioni appartengono a un flusso onnivoro che mai si arresta e mai si deposita, non hanno un inizio né una fine. Le applicazioni di messaggistica riducono le variabili imponderabili che ci separano dall’altro, rispondono al tentativo illusorio di sentirlo sempre prossimo, vicino. Ma sono solo l’apice vertiginoso della nostra esigenza di comunicare.

Tutto ciò che avviene online risponde all’imperativo monolitico di aggregarsi. Basta un solo interesse in comune e subito proliferano comunità virtuali, occasioni d’incontro. Una tale bulimia relazionale sembrerebbe davvero la reazione inusitata e concorde di una società insoddisfatta, dolente, che compensa così la mancanza di certezze del momento storico che attraversa. In realtà, lo stesso apparato politico globale è costretto a raschiare sul fondo dell’emotività dei suoi elettori perché non dispone di alternative. Le attuali battaglie civili sono tutte concentrate sulle varianti in gioco dell’amore, sulla possibilità di disporre della sua dialettica libera. I cortei organizzati in occasione del cosiddetto pride month attirano migliaia di partecipanti ogni anno. Risulta invece drasticamente risicata l’affluenza alle manifestazioni del primo maggio, tanto per fare un esempio. L’amore è un fatto collettivo, certo, ma lo è altrettanto il lavoro. Il diritto di amare e di essere amati attrae più della lotta per accedere a un giusto salario. L’elaborazione critica della realtà si è del tutto esaurita, ha perso i suoi fondamenti.

Più di un secolo fa, moriva Dio. E con lui si estingueva anche un atteggiamento posturale, un certo tipo di interrogativo metafisico che esulava da sé e si rivolgeva al movimento invisibile e segreto dell’esistenza. La politica ha rappresentato così un rito condiviso in sostituzione alla perdita di Dio: la ricerca di senso è diventata orizzontale, perteneva all’individuo inteso in quanto esponente di una categoria. Fino alla seconda metà del Novecento si parlava di rivoluzione, oggi sembra del tutto anacronistico.

Ormai siamo interdetti anche della facoltà di interpretarci politicamente. I singoli hanno battuto in ritirata definitiva: le loro esperienze fondamentali si verificano e si svolgono solo all’interno del panorama relazionale. Sessualità, tradimenti, separazioni, lutti. Identità di genere. Il campo psicologico, il suo linguaggio, le sue nozioni si sono estesi. Non sono forse le paure, le idiosincrasie, le pulsioni in seno alla maggioranza il più grande paravento sfruttato dai programmi elettorali? L’obiezione più diffusa a chi si esprime su temi di natura universale è la mancanza di coinvolgimento in prima persona. In sintesi, per parlare di poveri bisogna essere poveri. La pretesa di contiguità tra il proprio io e le proprie istanze impoverisce il dibattito, lo parcellizza. Trasforma le rivendicazioni in fattori soggettivi, frutto di oscillazioni umorali, di connotati biografici, del proprio frastagliato vissuto.

I valori affettivi che la società impone alla stregua di parametri univoci sono allora un meccanismo di distrazione di massa o il tentativo ultimo di catturare l’attenzione dei cittadini? Senz’altro le nostre principali energie sono tutte spese all’interno della prossemica relazionale. Rimuginiamo incessantemente sui nostri rapporti, sui dettagli che li caratterizzano, sulle dinamiche che tendiamo a replicare nostro malgrado. Ripercorriamo infinite volte il loro arco narrativo. Tanto perlustrate e sovraccariche, le relazioni non rappresentano certo più una base necessaria sulla quale costruire tutto il resto. Sono fini a se stesse, premessa e conclusione delle componenti ulteriori e indefinibili del processo identitario. L’assunto secondo il quale siamo gravati dal peso della solitudine andrebbe capovolto: non siamo assolutamente più in grado di stare da soli, di calmare il caos interno, di assumere uno sguardo assorto e curioso nei confronti delle cose, che a fronte del silenzio e del vuoto non si spaventa e non sente il bisogno spasmodico di coprirlo, di spezzarlo. Può essere che gli organi di potere non abbiano creato appositamente un tale stato di frammentazione nervosa. Sicuramente però lo sfruttano a dovere, lo alimentano, dato che se la massa è convinta di essere infelice per ragioni intime, arbitrarie, particolari, eviterà di guardare alle ragioni universali, storiche, sistemiche della sua scontentezza