4 tesi sulla violenza senza codice degli uomini e sull'intromissione dello Stato nella sfera sentimentale degli individui

1)

Il patriarcato è un sistema di riconoscimenti. Su basi più o meno arbitrarie, all’uomo riconosce gli attributi della forza, della violenza, della virilità. Alla donna quelli della cura, della pazienza, della femminilità. L’uomo è principio di morte, la donna è principio di vita. Distruzione e creazione. Verticalità e orizzontalità. Si tratta beninteso di invenzioni letterarie, di falsificazioni biologiche, di mitologie religiose che però, tutte insieme, formano le coordinate simboliche entro cui si muovono le società patriarcali. A rendere queste astrazioni funzionanti (performative si dice adesso) e quindi legittimo il Patriarcato, è il dispositivo, inteso in senso foucaultiano, della guerra, come insieme di pratiche, metodi e discorsi. Il patriarcato ha senso di esistere esclusivamente dove c’è la guerra come principio di risoluzione delle controversie. La guerra, infatti, regola lo spazio, assegna ruoli, dispensa oneri e benefici. L’uomo paga il prezzo della sua autorità politica, morale, domestica con l’eventualità della morte violenta. La donna paga il prezzo della propria incolumità con la sottomissione al maschio-marito (con tutte le eccezioni del caso, con tutte le implicazione positive e negative del caso, per gli uomini come per le donne). Ingiustizia, sopruso? A entrambe le categorie vantaggi e svantaggi, ma finché c’è stata la guerra questo sistema è stato legittimo, altrimenti, come qualsiasi altro ordinamento (insegna lo storico Ferrero) se non avesse funzionato in un determinato contesto la storia lo avrebbe liquidato. Un sistema politico è come una lingua, viene costruito, utilizzato e modificato sempre in base alle necessità dei parlanti. Così è successo al patriarcato.

Venuto meno il dispositivo della guerra, a partire dal 1945, quando abbiamo attivato il dispositivo della pace (a livello individuale e internazionale) e i conflitti hanno subito un dislocamento geografico e mentale, svolgendosi in luoghi sempre più remoti, portati avanti per procura, da altri popoli con indici di virilità e ferocia ancora alti (in cui non si sente affatto parlare di rivendicazioni femministe) il patriarcato ha iniziato il suo declino. Questo sistema, ad oggi, in una società che non ha più la guerra come fondamento, ha perso le ragioni stesse della sua esistenza: è diventato un modello inattivo. A che scopo le donne dovrebbero pagare il costo della propria obbedienza? Perché gli uomini dovrebbero tenere fede alle incombenze e alle fatiche, ai pericoli della virilità laddove questo principio non serve più alla conservazione e riproduzione della specie? Le rivendicazioni femministe proliferano nella società post-bellica, che gradualmente e quasi naturalmente si è liberata di una sovrastruttura patriarcale ormai obsoleta, di cui rimangono gli ultimi residui, come dei lapsus.

2).

Quella a cui assistiamo oggi è una violenza generalizzata, priva di forma, che si compie fuori da qualsiasi codificazione. È violenza bruta, primitiva, informe, disorganica, che solo in estrema malafede può essere ricondotta a un leitmotiv preciso, specie a quello dei “figli sani del patriarcato” – al momento il plot narrativo più efficace a livello mediatico (ma Turetta, appartenente alla tanto incensata Gen Z, e che a 22 anni dorme con un peluche, in che modo risponde ai canoni del patriarcato?). I casi di femminicidio sono compiuti da soggetti diversi per età, educazione, background culturale, uomini che mandano segnali contraddittori, non sistematici, che manifestano fragilità emotive, disforie, insicurezze patologiche, che agiscono spesso sotto uso di sostanze stupefacenti. Ogni orrore è diverso e per questo imprevedibile. Da qui lo stupore di vicini, amici, parenti. Il patriarcato, come ogni sistema codificato, impone dei diritti e dei doveri, dei lasciapassare e dei divieti, e per secoli ha funzionato da regolatore sociale (con tutte le sue imperfezioni) tra i sessi. Informando l’uomo della sua predominanza fisica, su cui si è spesa una lunghissima letteratura, ha esorcizzato la violenza brutale e perenne sulla donna, ma l’ha codificata in determinati perimetri. La prevaricazione è lì, inserita in una più ampia economia della tragedia generale. Qui la prevaricazione è casuale, ovunque in potenza e da nessuna parte. Non è un effetto collaterale del sistema, ma il sistema stesso funziona ormai per effetti collaterali.

3).

Questi effetti collaterali sono strumentalizzati da un’élite femminista che si sta costituendo come nuovo ceto egemone. Appropriandosi delle tragedie mediaticamente più rilevanti, trasforma la violenza senza codici in una narrazione funzionale alla sua corporazione di interessi. Nell’introduzione al volume Élite e masse vi è un’interpretazione del femminismo e delle sue metamorfosi alla luce della teoria élitista:

Se guardiamo per esempio all’odierna avanzata dei movimenti femministi, patrocinati da una minoranza organizzata di intellettuali ed esponenti politiche, attiviste, volontarie e influencer, con grandi doti comunicative e munite di formule ideologiche ad altissimo coinvolgimento, assistiamo alla graduale occupazione, da parte di una nuova élite, portatrice di nuove istanze, delle principali centrali di diffusione del consenso sociale: partendo dalle nicchie delle facoltà universitarie dove si è elaborato il nucleo teorico del femminismo della cosiddetta terza ondata o intersezionale, per arrivare fino all’editoria, alla stampa, alla televisione, ai social network, alle sedi governative nazionali e internazionali dove questa produzione discorsiva ha assunto, in parte, carattere performativo. Non si contano più i contenuti creati sul web, le mobilitazioni associative, le iniziative parlamentari, i fondi stanziati per le attività di promozione, gli eventi culturali, i libri, i film, le rubriche sui quotidiani, i palinsesti televisivi, le fiere, i festival, le rassegne letterarie e cinematografiche, dedicati alla trasformazione normativa e culturale della società in vista della parità dei sessi e dell’inclusività delle persone queer, della lotta alla violenza di genere, alla mascolinità tossica, al patriarcato e al suo sistema di valori. Ora, però, noi vediamo che buona parte dell’élite occidentale, per lo più composta da uomini, bianchi, eterosessuali, che presiede i vertici delle nostre istituzioni ma anche delle grandi aziende e dei media, con i suoi apparati di forza, di omissione ed esclusione, osteggia solo relativamente l’ascesa di questo movimento, e più spesso gli risulta vantaggioso promuoverne le cause per non scontentare quella parte crescente e rumorosa di opinione pubblica che le rivendica. Se c’è un’élite conservatrice, parrochiale, identitaria, a disagio con la political correctness, cialtronesca nelle sue manifestazioni di resistenza al femminismo, che suonano fuori tempo massimo di fronte a un panorama sociale mutato, essa è solo il residuo di un vecchio establishment in declino o più spesso di un populismo parvenu che a suo tempo ha saputo conquistare le sedi del potere politico, ma non quelle dove si produce il discorso, e seppure è rappresentativa delle idee che per forza d’inerzia la maggioranza silenziosa (o comunque passiva) della società condivide, si è rivelata incapace di egemonizzare i luoghi deputati alla produzione ideologica, specie i nuovi medium, utilizzati dalle generazioni più giovani e più sensibili ai temi avviati dalla nuova élite. L’oligarchia conservatrice è però funzionale alla narrazione dell’élite femminista, che per contrappeso si tara sul bilanciere politico come forza contraria e antagonista, ostacolata dal “potere”, per godere di un prestigio rivoluzionario che la rende più attrattiva. Come suggerisce Mosca, quando «una nuova corrente di idee si diffonde, contemporaneamente avvengono forti spostamenti nella sua classe dirigente». Le élite più lungimiranti, indipendentemente dalla loro connotazione politica, e che rivestono ruoli decisionali a tutti i livelli della vita sociale, di fronte all’engagement suscitato in ampi strati della popolazione delle rivendicazioni femministe, stanno riassestando il loro baricentro politico o aziendale (nel caso delle multinazionali), rinnovando l’offerta e quindi i mediatori, commissionari o rappresentanti capaci di farsi carico di queste nuove istanze, per lo più assumendo dalla nuova élite femminista i suoi futuri membri. È in atto un processo fisiologico di circolazione delle élite, stavolta non per il tramite di guerre o rivoluzioni violente, ma attraverso un processo di cooptazione, dovuto all’«affermazione di forze nuove, che produce un continuo lavorio di endosmosi ed esosmosi fra la classe alta e alcune frazioni di quelle basse». I rischi a cui questa nuova élite va incontro, quindi, sono gli stessi in cui si è imbattuto il Lumpenproletariat in passato, nel suo spostamento verso l’alto. Sono già diversi gli ambienti femministi che si lamentano dei pericoli di un movimento che civetta con un neoliberismo fallocentrico, e che se vuole mettere in discussione i soggetti del dominio, non punta il dito contro le modalità di quello stesso dominio. Andi Zeisler parla di “marketplace feminism”, quando le aziende si appropriano del linguaggio, i valori e dell’attivismo femminista per vendere i loro prodotti senza curarsi però della reale condizione sociale femminile, altre ancora di femminismo corporativo (o di trickle-down feminism), che si limita a raccontare in termini individualistici il successo di un’esigua frazione di donne bianche privilegiate, nella speranza, disattesa, che quello stesso privilegio si riversi a beneficio della maggioranza. Le frange femministe più radicali non si accontentano di vedere qualche golden skirts occupare cariche di alta responsabilità professionale, e sollevano il problema di una «costruzione patriarcale della femminilità ad opera del capitalismo», che elargirebbe qualche concessione simbolica a una minoranza di donne per dare un’immagine di equità e giustizia: un banale fenomeno di tokenism attraverso cui tutto cambia perché nulla cambi davvero.

4).

Le campagne di sensibilizzazione, l’educazione affettiva o relazionale e più in generale l’intromissione delle Stato nella sfera sentimentale degli individui genererà un aumento di quegli stessi fenomeni che sta tentando di arginare. L’eccessiva normativizzazione e formalizzazione dell’esistenza, è il prodromo alla perdita di intensità dei significati della vita. La cui mancanza è la causa principale della violenza cieca. In proposito, abbiamo risultano illuminanti dei passi di Tiqqun:

L’impero è abituato a quelle che chiama “campagne di sensibilizzazione”. Queste consistono nell’innalzamento deliberato della sensibilità dei sensori sociali a questo o quel fenomeno, cioè nella creazione di questo fenomeno, e nella costruzione della rete di causalità che permetterà di materializzarlo.

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L’impero è tanto più all’opera perché la crisi è ovunque. La crisi è la maniera di esistenza regolare dell’Impero, così come l’incidente è l’unico momento in cui appare l’esistenza di una società assicurativa. La temporalità dell’Impero è una temporalità dell’urgenza e della catastrofe.

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L’impero non ha, non avrà mai, un’esistenza giuridica o istituzionale, perché non ne ha bisogno. L’Impero, a differenza dello Stato moderno, che si pretendeva essere un ordine della Legge e dell’Istituzione, è il garante di una proliferazione reticolare di norme e dispositivi. In tempi normali, questi dispositivi sono l’Impero.

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Si assiste sotto l’Impero a una proliferazione del diritto, un’accelerazione cronica della produzione giuridica. Questa proliferazione del diritto, lungi dal sancirne una sorta di trionfo della Legge, riflette al contrario la sua estrema svalutazione, la sua definitiva obsolescenza. La Legge, sotto il regno della norma, è ormai solo una maniera tra le tante, e non meno regolabile e reversibile delle altre, di retroagire sulla società. È una tecnica di governo, un modo di porre fine a una crisi, niente di più.

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L’estensione delle competenze della polizia imperiale, del Biopotere, è illimitata, perché ciò che essa ha il compito di circoscrivere, di fermare, non è nell’ordine dell’attualità, ma della potenza. L’arbitrarietà si chiama qui prevenzione, e il rischio è questa potenza ovunque in atto in quanto potenza che fonda il diritto universale d’ingerenza dell’Impero.

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Il nemico dell’Impero è interno. È l’evento. È tutto ciò che potrebbe accadere, e che minerebbe la consistenza di rete di norme e di dispositivi. Il nemico è quindi, logicamente, presente ovunque, sotto forma di rischio.

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Non serve distinguere tra poliziotti e cittadini. Sotto l’Impero, la differenza tra la polizia e la popolazione è abolita. Ogni cittadino dell’Impero può, in qualsiasi momento, e alla mercé di una reversibilità veramente bloomesca, rivelarsi un poliziotto.

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(Ogni persona è per se stessa e per gli altri, in virtù del suo stato di colpa bianca, un rischio, un hostis potenziale. Questa situazione schizoide spiega il rinnovamento imperiale della denuncia, della sorveglianza reciproca, dell’endo- e dell’inter-polizia).