Francesco Piccolo fa il furbo con lo spirito del tempo. “Son qui: m’ammazzi” è il libro fatto a immagine e somiglianza dell’uomo sognato dal progressismo: innocuo, compiacente e in contraddizione con se stesso.

Dicono sia stato folgorato al gran galà annuale della Feltrinelli, mentre alti dirigenti e autori di grido danzavano, tra estasi e grazia, sulle note di Mueve la Colita (sì, come in quella scena de La Grande Bellezza). Al fatidico “Asi, Asi!” de los hombres, all’atavico sprigionarsi d’energia creatrice, in quel gesto di sincretistica preghiera a Giove, a Shiva e allo yang, Francesco Piccolo ha compreso, tutto d’improvviso e inequivocabilmente, il significato dell’essere uomini, il principio della virilità. Quella sapienza l’ha poi riversata in volumi dai titoli eloquenti, come Separazione del Maschio e L’Animale che mi porto dentro, e nel recente Son qui: m’ammazzi! (Einaudi, 2025), commento a “tredici capolavori che […] hanno contribuito a legittimare il mito della maschilità e la cultura virile”.

È vero, il libro è un pacchettino confezionato apposta per esplodere nella questione del momento, con le vendite pronte ad impennarsi al prossimo femminicidio – ma dall’altro lato Piccolo, autore Einaudi con la fissazione per il tema, parrebbe avere il curriculum per parlare del maschile, con il filtro della letteratura. A libro chiuso, voglio dire, l’operazione editoriale sembrerebbe anche accettabile – poi però arriva il brutto, poi si comincia a leggere e fare i conti con una visione dell’uomo così spudoratamente sprezzante da non poter essere autentica, soprattutto vista la pretesa di rintracciarla nelle grandi (tali o presunte) opere del canone italiano. Dopo poche righe, infatti, scopriamo che “il maschile è inteso come potente, arrogante, violento, sopraffattore, egoista e famelico…”, e gli uomini, che “dovrebbero starsene buoni buoni sul banco degli imputati”, sarebbero tutto sommato coscienti della loro natura di “trogloditi, sopraffattori, violenti, arroganti, egocentrici”. Ora, badate bene, se Piccolo ritiene che la mascolinità possa essere declinata anche positivamente – come, ad esempio, forza, sicurezza, coraggio – si guarda bene dal farcelo sapere. Creda o meno che il maschile partecipi di questi valori, la loro totale omissione, in favore di tutte quelle altre caratteristiche concepite come detestabili, basta a configurare il libro come una (nemmeno troppo) velata critica al maschile stesso in quanto tale.

Eppure, per amissione dello stesso autore nella prefazione, “la denuncia in letteratura è imbarazzante”, e beh, la sua non è una denuncia ma “soltanto una testimonianza dei fatti”. Piccolo, in breve, ti tira un sasso fra le palle e poi nasconde la mano, finge di non sapere che proprio una testimonianza – sapientemente confezionata, tra enfasi e non detti, per un pubblico predisposto – può diventare un atto di accusa, che intitolare un libro sul maschile “Son qui: m’ammazzi!” – le parole che Lucia, la ragazza “molestata, concupita, vessata” rivolge all’uomo-padrone con il suo destino tra le mani – è più di un furbo ammiccamento, è surfare sull’onda del più ovvio risentimento anti-patriarcale.

Il risultato è la solita sfilza di osservazioni sul maschio, l’autore che passa l’acqua calda al microscopio letterario per dirci che gli uomini usano il cazzo come l’ago della bussola, che sono prevaricatori o sottoni, che il forte (pregiudizialmente maschio) se la prende con il debole (necessariamente donna) – quel tipo di profonda e matura consapevolezza che in genere si raggiunge tra i banchi della terza media. Anche turandosi il naso davanti ai miasmi ideologici di Piccolo, il libro scorre senza un brivido, senza una parola vagamente rivelatoria sulle questioni che ci si propone di mettere in luce, è tutta un’attesa di un guizzo che non c’è, insomma è una minchia che non si alza, tragicamente arresa all’impotenza (che si tratti di un geniale espediente metanarrativo, per colpire il lettore con un esemplare contrappasso?).

Il problema, in definitiva, va ricondotto tanto alla scelta dei testi – che Piccolo, furbescamente, definisce personale per coprirne la faziosità – quanto alla loro interpretazione, talmente imbevuta di preconcetti e storture logiche da essere offensiva per quasi tutti gli autori nominati, oltre che per l’intelligenza dei lettori (primo assunto, per rendere l’idea, del Tractatus piccoliano: in un’opera letteraria, ogni uomo malvagio prova la brutalità del maschio, ogni donna malvagia la misoginia dell’autore). I brani affrontati, così veniamo informati all’inizio, dovrebbero costituire per l’uomo-lettore “uno specchio molto evidente”, ma proprio l’insistenza sui caratteri scontati del maschile, la descrizione, ingenua, di personaggi stupidamente colpevoli o patetici, schiavi dei più prevedibili istinti finisce con il deformarli fino a una insulsa, irriconoscibile caricatura. Se anche il punto fosse la messa in scena di tutto e solo il peggio del maschio, bisognerebbe comunque mostrare (per imporre un’altezza allo sguardo, mica per altro, per un po’ di prospettiva) che ogni viltà è il rovescio di una grandezza, che la ferocia è complementare all’amore e la virilità un edificio instabile sul confine tra eroismo e mostruosità. Per ogni Zeno (Un uomo ridicolo, uno dei commenti più “personali”) che, in preda all’arrapamento (parola di Piccolo), chiede la mano alla sorella più brutta dopo i rifiuti di quelle belle, esiste uno Stavrogin, un giudice Holden, in grado di concupire la creatura più indifesa con agghiacciante autocoscienza; per ogni Federí (Le generazioni, il capitolo omaggio all’amico Starnone) con il pugno sempre in canna c’è un Amleto incapace di farsi la propria violenta giustizia. Anche l’Innominato (che per Manzoni era mille altre cose, prima di essere un mammifero pene-munito), convertito dalla debolezza di Lucia, sarebbe la prova che il maschile sta in bilico tra l’esercizio crudele della potenza e la rinuncia a quest’ultima – e non, come Piccolo vuole, il simbolo del potere assoluto che il maschio esercita sulla femmina.

Vedete la differenza? Da un lato ci sono gli uomini come ce li racconta l’autore, per metà anime belle per metà scimpanzé, invischiati nel male soltanto nella misura in cui cedono alle proprie maschie pulsioni, dall’altro lato una ambiguità rivelatrice, l’idea che c’è una nobiltà negli istinti e il male si sceglie col cervello, mica col cazzo. Il punto è come può, proprio uno scrittore – uno che dovrebbe sguazzare nelle sfumature, via dal paludoso bla bla dei giorni –, rifiutarsi di contemplare il più banale complemento delle proprie soffocanti convinzioni? Ci vorrebbe il coraggio della vera scrittura o un pensiero un filo più affilato, mentre Piccolo ha scritto un libro per fare engagement e lusingare la (sacrosanta, c’è da dirlo?) lotta delle donne contro le prevaricazioni dei bruti, una strizzatina d’occhio alle adepte del femminismo mainstream. Si capisce, gli uomini moderni – che sotto sotto lavorano, comunque, sempre, per fottersele – alla sfida devono prediligere la compiacenza, all’audacia la furbizia. Piccolo, buonuomo, non fa eccezione.