I brand funzionano perché sfruttano la nostra ricerca di senso e di identità, producono in noi un desiderio, che lasciano però perennemente incompiuto, se non nell'attimo fugace del consumo. Può la pratica del sogno lucido insegnarci a trasformare il brand in una cabina di prova dei nostri desideri?

Nel numero 3568 di Topolino, alcune vignette raccontano l’ennesima sfortuna di Paperino: la sua iconica 313 finisce di nuovo in panne. Come se non bastasse, il suo sfogo con l’automobile ferma viene ripreso con il cellulare da alcuni passanti e finisce in rete, diventando virale. Paperino decide di sfruttare la fama inattesa esibendo (a pagamento, s’intende) la protagonista del video ai curiosi appostati lungo lo steccato di casa. Tutto procede per il meglio, fin quando una notte Paperino ha un incubo: la sua macchina, offesa, lo accusa di metterla in ridicolo. I sensi di colpa fanno il resto e il business è subito smantellato.

Il fumetto per antonomasia si è sempre fatto vanto della sua capacità di essere specchio dei tempi che si è trovato a raccontare. La storia di Paperino mette il lettore di fronte a una verità squallida con la quale siamo in effetti piuttosto familiari: nulla è estraneo alla logica del profitto, neanche la sfiga, nel momento in cui si mettono al lavoro le forme di comunicazione e di interazione sociale nell’ottica di generare valore economico. Così, nella storia riassunta, le disavventure di Paperino diventano una cornice riconoscibile, inquadranti un preciso ordine del mondo del quale si può essere partecipi acquistando prodotti o esperienze in esso racchiusi. Diventano, in una parola più familiare, un brand.

Definire questo concetto è un’impresa ardua. Martin Kornberger, in Brand Society, propone un’equazione per rappresentarne almeno una forma basilare: brand è uguale a funzionalità più significato. Lexus è lussuria, non solo un’automobile, Nike è performance, non solo un paio di scarpe, e così via. Se un secolo fa molti prodotti venivano venduti sulla base della loro utilità, oggi a quest’ultima è necessario che si affianchino dei valori aspirazionali, non direttamente collegati alla soddisfazione di un bisogno. Il prodotto ha esigenza, in altre parole, di ottenere rilevanza culturale. Un esempio: un capo Uniqlo non è solo un vestito, ma è un oggetto culturale che comunica qualità economicamente accessibile nel rispetto dell’ambiente e di chi produce, designando allo stesso tempo una comunità di persone che condivide dei valori morali, ed escludendo altre persone che quei valori non li condividono. Il brand è il medium che consente questa incorporazione di prodotti (e servizi) in contesti culturali significativi per i consumatori. L’oggetto è desiderabile perché già ci contiene, ci ha incorporati sin dal momento della sua produzione. Il prodotto è diventato un’esperienza. Scrive Kornberger: “i brand sono stati gli strumenti utilizzati per staccare le ‘cose’ dalla funzionalità limitata di prodotti e renderle il motore di un desiderio infinito di autorealizzazione e di stile di vita”. Lo strumento, a guardarsi in giro, funziona piuttosto bene.

Chi compra Patagonia salva il mondo

Seguendo le riflessioni di Kornberger, alcune ragioni del successo del branding sono legate al prodotto stesso. La prima si può rintracciare nella progressiva omologazione dei processi produttivi: la stessa merce viene realizzata con modalità pressoché uguali da diversi produttori, e non resta che puntare su altri fattori per rendere distinguibili i vari sottoinsiemi della stessa tipologia di prodotto. Un’altra ragione risiede, specularmente, nella complessità dei prodotti: per il consumatore è impossibile valutare con attenzione le particolarità di tutti i modelli di cellulare, quando è il momento di comprarne uno nuovo. Il brand, in questo caso, è un facilitatore nel processo decisionale: compro un I-Phone perché è Apple, anche se non sfrutterò mai tutte le potenzialità di quel modello. Il brand funziona così bene che le imprese producono non più in funzione del prodotto stesso, ma con l’obiettivo di diventare un marchio riconoscibile, valido, etico, garantendosi così ritorno economico. Il branding ha riorganizzato concettualmente il nostro modo di intendere la produzione umana di qualsiasi bene, tangibile o meno. Brands come first.

Altre ragioni esulano dalla sfera produttiva per dirigersi verso il polo opposto; ad esempio, la capacità del brand di perpetuare l’interazione con i consumatori. Se inizialmente i valori trasmessi dai prodotti potevano essere monoliticamente imposti dai produttori, oggi qualsiasi brand è un mosaico che invita al bricolage, a una ri-costruzione del suo significato, in modo tale da personalizzarlo, farlo su misura, ma sempre all’interno di un recinto che il brand stesso circoscrive, per rendersi riconoscibile.

Un’ultima ragione da esporre getta luce invece sulla genealogia del suo ruolo di trait d’union tra i due poli, e apre finalmente una strada percorribile criticamente: il branding funziona perché beneficia del cosiddetto lavoro immateriale all’interno del processo di produzione capitalistico. Il lavoro immateriale è definito da Maurizio Lazzarato nel saggio omonimo come “il lavoro che produce il contenuto informazionale e culturale della merce”. Il primo aspetto si riferisce alle nuove capacità informatiche, che continuano a modellare i processi produttivi all’interno delle imprese, soprattutto quelle dell’industria e del settore terziario; quello culturale fa riferimento a tutte le attività che non sono normalmente classificabili come “lavoro”: attività dedicate alla produzione di cultura, di conoscenza, all’espressione politica e sociale; più in generale tutto ciò che concerne la manipolazione di idee e significati. Tradotto, il lavoro immateriale riguarda la creazione di contenuti digitali, la gestione dei social media, la pubblicità, e più in generale l’attività informatica del processo produttivo. Per far ciò, il capitalismo si è appropriato dello strumento principale attraverso il quale i soggetti utilizzano e modellano il regno dei simboli: la comunicazione.

Il capitalismo ha sempre ricercato, nel suo sviluppo, una relazione di mutua implicazione fra tutte le forze sociali, scrivono Michael Hardt e Antonio Negri in Impero. La comunicazione è, nella loro disamina, una leva imprescindibile nei mutamenti avvenuti nella natura del lavoro. Basti pensare alla staffetta tra modello di produzione fordista e toyotista: laddove il regime fordista produceva in massa merci standardizzate, quello toyotista comunica perpetuamente con il mercato, producendo solo in funzione dei suoi orientamenti. Il ruolo della comunicazione si arricchisce se pensiamo al settore dei servizi, che si basano proprio sullo scambio continuo di conoscenze e informazioni. È qui che si rintraccia il lavoro immateriale, “che produce beni immateriali, come ad esempio un servizio, un prodotto culturale, conoscenza o comunicazione” attraverso la struttura delle reti informatiche, che deve quindi essere costruita e sorvegliata in modo tale da garantire il profitto. L’infrastruttura dell’informazione è così cooptata all’interno dei processi produttivi stessi. Di conseguenza la comunicazione, che oggi avviene per larga parte attraverso questa infrastruttura, è posta al servizio dei processi produttivi, e con essa tutto ciò che veicola: arte, politica, religione, filosofia. La cultura viene cioè attivata (attraverso la comunicazione) al solo scopo di creare dei mondi significativi all’interno dei quali le persone possono consumare. La comunicazione, scrive Lazzarato, diventa produttiva perché “produce” la produzione, cioè la attiva. The Truman Show, con Andy Warhol come demiurgo: non c’è più differenza tra esporre in una vetrina o in una galleria d’arte.

Il lavoro immateriale perpetua, innovandola, la nuova relazione che si è stabilita tra produzione e consumo grazie al ruolo della comunicazione: dando forma ai valori, al gusto, all’immaginario, il lavoro immateriale rende i prodotti stessi portatori di quei valori, di una certa estetica. Nella società postindustriale il consumatore è inteso come soggetto “attivo”, che comunicando stabilisce i bisogni da soddisfare. Il brand non è altro che la forma specifica di questa nuova relazione, e il fatto che ogni atto estetico, culturale, sociale, acquisisca il potenziale per “brandizzarsi” dà la cifra della sua pervasività. Il capitalismo è, sotto questo punto di vista, totalitario nel senso in cui lo intendeva Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, cioè manipolatore di bisogni umani. E in quanto totalitario, reclama l’individuo nella sua interezza, e la risposta di quest’ultimo non può essere un semplice adattamento, ma una vera e propria mimesi, un’identificazione immediata dell’individuo con la società.

Due riflessioni. La prima è che da tutto ciò consegue che il brand, per struttura e caratteristiche, è un fenomeno inaggirabile nella nostra società. Si tratta di uno strumento legato ai rapporti di produzione capitalistici, che pur storicamente determinati e quindi transitori, sono oggi soli e totalizzanti. Il brand è perciò uno strumento che non va demonizzato, ma utilizzato, tramite un’opera di de-ontologizzazione volta a creare uno spazio, una distanza che renda possibile la presa, all’interno della quale si possa inserire un’azione che abbia come obiettivo quello di superare la logica di profitto sottostante. Il brand può, in altre parole, essere utilizzato applicandogli una diversa logica: per farlo, è necessario distanziarsi dallo strumento per comprendere che non ne esiste un solo utilizzo, una sola dimensione nel senso di Marcuse. Per identificare le possibilità di uno sviluppo ottimale, bisogna astrarre dal modo in cui esse sono utilizzate al presente, e analizzarne le possibilità negate. Una scatola, rovesciata, può diventare una scala.

In secondo luogo, credo che questo discorso possa rientrare nell’alveo dell’Invito al reincantamento[1] di cui parla Marco Mattei, quando auspica che quest’ultimo venga messo in atto attraverso lo stesso strumento che, in precedenza, aveva prodotto il disincanto del mondo: la ragione calcolatrice. L’obiettivo è quello di “inventare l’industria del calcolo che impedisca di calcolare (sul)le esistenze”, per citare Bernard Stiegler, un autore cardine nel testo di Mattei. Ogni strumento è un farmaco (phármakon), nel suo doppio significato, antico e moderno, di veleno e cura: che sia un algoritmo, l’intelligenza artificiale, il brand, il suo utilizzo non è mai univoco, unidimensionale. Date queste premesse, una critica etica e morale è un punto d’osservazione necessario ma insufficiente sul branding, perché ha connaturato il rischio di un finto rifiuto, di escapismo. Serve piuttosto andare ad analizzare criticamente le contraddizioni interne a questo fenomeno, per poterlo comprendere e stravolgere nel suo utilizzo, con l’obiettivo di scardinarne le logiche sottostanti.

Una prima contraddizione riguarda la presunta attività del soggetto nel modellamento del brand. Abbiamo visto come il soggetto si percepisca come attivo all’interno della nuova relazione produzione-consumo. Ciò non vuol dire però che lo sia davvero. Il ruolo attivo è assunto semmai dal consumo, non dal consumatore, la cui attività è solo apparente, poiché sempre mediata. L’attività del consumatore è cioè caratterizzata da “interpassività”, dalla credenza da parte del soggetto di essere “attivo” laddove è invece un medium (un brand, ad esempio, o una connessione internet) ad essere attivo al posto suo, provocando un senso di soddisfazione senza la necessità di interagire con il mondo reale. Il concetto di interpassività è di Slavoj Žižek, ma è utilizzato contestualmente da Jodi Dean in un saggio sul capitalismo comunicativo[2]. Firmare una petizione, cliccare un bottone, ci fa sentire attivi, laddove è invece il feticcio, la connessione, ad essere attiva per noi, e la sua attività sta nel fatto che, reiterando l’oggetto (like, firme, views, ipertesti da esplorare all’infinito), ad esempio una richiesta politica, lo rimpiazza, dislocandolo e proteggendo lo spazio effettivo della rivendicazione. Il soggetto, allo stesso modo, si sente attivo perché attraverso il brand sente di aver scelto attivamente un valore, un significato; tuttavia, nella martellante richiesta di conferma tramite un altro prodotto di quel valore, di quel significato, il brand lo rimpiazza, dislocandolo e impedendo una sua cosciente acquisizione.

Una seconda contraddizione la si può riscontrare all’interno della narrazione proposta dal brand. Il capitalismo, appropriandosi del lavoro immateriale, veicola attraverso la merce dei valori, simbolici, per mezzo di una narrazione intrinseca alla merce stessa. Flavio Pintarelli[3] definisce questa attività come worldbuilding, cioè creazione di un universo di senso attorno a un marchio all’interno del quale si possono inventare e raccontare storie indefinitamente; si può cioè fare storytelling, con un ultimo inglesismo. La Terra di Mezzo di Tolkien è un esempio perfetto di mondo che ha preso vita attraverso la tecnica del worldbuilding. Questo paragone, che è di Pintarelli, omette però un fatto fondamentale: a differenza della Terra di Mezzo, la narrazione del brand oltrepassa la finzione, creando una iper-realtà totalmente nelle mani del capitalismo. Pintarelli ha ragione quando accosta il branding allo storytelling, ma quest’ultimo è solo uno strumento attraverso il quale “il capitalismo si appropria della prassi narrativa e la sottomette alle regole del consumo”, scrive Byung-chul Han ne La crisi della narrazione. Il capitalismo considera le narrazioni come dispositivi che possono essere costruiti, modificabili a proprio piacimento; così facendo, però viene meno il momento di verità interno alla narrazione stessa, la sua capacità di dare senso organicamente a una serie di fatti e valori potenzialmente irrelati tra di loro. E così, continua Han, “ci troviamo a comprare, vendere, consumare racconti ed emozioni. Le storie vendono. Storytelling is storyselling”. È qui la contraddizione: nel tentativo di appropriarsi della prassi comunicativa della narrazione, il capitalismo la distorce, la piega ai suoi scopi, espungendo la caratteristica fondamentale: il senso. In gioco, in questa partita, è la ricerca di senso e identità (individuale e sociale), che il brand non è capace di soddisfare, fin quando sottostà alla logica del profitto e propone delle narrazioni inorganiche, che procedono per accumulo senza spostarsi di un millimetro e che non sopravvivono oltre l’attimo stesso del loro consumo. A queste condizioni, i brand non sono cattivi; semplicemente, non funzionano, perché sono deboli e interscambiabili, micronarrazioni instabili del presente. Il brand, quando non trasforma le persone in monoliti, le rende un’accozzaglia di storie e significati irrelati.

L’ultima contraddizione riguarda un corollario del “teorema” del brand: il personal branding. Con personal branding si intende quel complesso di strategie messe in atto da un individuo per manipolare la propria immagine sociale con lo scopo di ottenere un guadagno economico. Nella forma che conosciamo oggi, ha circa trent’anni, considerato come inizio di questo arco temporale il famoso articolo “The Brand Called You”, scritto da Tom Peters e uscito nel 1997. L’insufficienza della critica etica a proposito del branding si manifesta particolarmente in questo sottoinsieme. L’essere umano cura da sempre la propria immagine pubblica; non serviva aspettare il personal branding. Il problema è semmai che, poiché il lavoro immateriale è coinvolto anche nella produzione del sé sociale, cioè dell’immagine che noi forniamo all’esterno, essa diventa soggetta al processo di mercificazione, contaminata dalla produzione capitalistica. Ciò avviene poiché il sé si costruisce in relazione all’ambiente sociale circostante, ed è dunque influenzato dalla cultura che il lavoro immateriale mette al servizio del profitto. L’immagine pubblica diventa così merce in quanto prodotto di lavoro umano, dotato di utilità e che però non ha rapporto immediato con il consumo e che dunque si realizza solo all’interno di un mercato. La critica solo etica manca il bersaglio nella misura in cui al suo fondo è una critica alla cura di un’immagine pubblica: il personal branding è cattivo perché fornisce un’immagine inautentica di noi. Ma non esiste un’immagine sociale che sia autentica, che non tenda alla coerenza, a scapito di una moltitudine che conserviamo all’interno della maschera sociale. E, in secondo luogo, anche se fosse autentica, oggi in quanto merce troverebbe comunque il suo unico sbocco nella spendibilità sociale, col rischio frustrante di non assumere un valore di scambio sufficiente. La differenza non è quindi che l’immagine pubblica oggi è inautentica e prima era autentica, ma che non era merce prima del capitalismo, perché era funzionale semmai alla ricerca, ad esempio, di prestigio sociale non vincolato necessariamente a una logica utilitaristica. Il problema non è (non soltanto, perlomeno) che la nostra immagine sociale sia autentica, o finta, il problema è come smettere di far sì che venga considerata spendibile sul mercato. Non si va in burnout perché l’immagine sociale è inautentica, ma perché viene spremuta, monetizzata, valutata solo in termini di valore di scambio.

Il minimo comune denominatore tra l’analisi delle caratteristiche del brand e quella delle sue contraddizioni è l’idea che il brand sia un medium. Il sociologo Niklas Luhmann definisce questo concetto come una “congiunzione labile” di elementi, estremamente permeabile e transitoria. È una definizione che riesce a rendere conto del suo carattere dialettico: nel momento in cui subentrano le componenti culturali, il brand che le ospita ne assume le caratteristiche di indeterminatezza e instabilità, tipiche della cultura stessa. Questa malleabilità del medium comporta allo stesso tempo un certo grado di ambivalenza: l’assegnazione di un valore ad un prodotto è un evento completamente arbitrario, e quel processo di significazione può riprodurre ma anche sfidare le relazioni di potere esistenti. Assorbendo i processi di significazione culturale, il capitalismo ha inglobato nel brand anche il loro potere sovversivo. Lo spazio di cui riappropriarsi è dentro il brand, e non al suo esterno.

Esistono già alcune possibilità tracciate per recuperare questo spazio di manovra sociale e politica, inserite in uno spettro di opzioni piuttosto ampio ed eclettico, che va dai guru motivazionali all’Open Source Movement[4], passando anche per Gianni Rodari, del cui passaggio “dal prefisso all’utopia” Alice Sagrati ha parlato su Stanca[5]. Tutte sembrano condividere l’idea di una prassi che si può riassumere così: assumere controllo sulla realtà. Variano gli strumenti: la tecnologia, la fiducia in se stessi, la fantasia. Esiste però un altro strumento, in apparenza impermeabile al controllo umano: quello dei sogni. Nelle vignette citate in apertura, Paperino realizza attraverso un sogno di aver messo in atto dei comportamenti deviati. La mia proposta condivide con questa storia l’idea che la dimensione onirica possa essere foriera di nuove chiavi di interpretazioni della realtà. Lo strumento per ottenere queste chiavi si chiama onironautica, cioè quella serie di tecniche volte a produrre dei sogni lucidi.

Il punto focale della presa di controllo dei sogni, nella tecnica onironautica, è naturalmente quello di rendersi conto di star sognando. Bisogna cercare cioè dei segni che individuino con chiarezza una condizione distorta, bizzarra, impossibile nel mondo reale. Si tratta di effettuare, in altre parole, test di realtà, come saltare, guardarsi allo specchio, provare a urlare. Tutte queste azioni comportano, nel sogno, reazioni impossibili nella realtà. La forza di gravità, ad esempio, non agisce coerentemente quando si sta sognando. A dire il vero, il dubbio che si stia sognando, e che conduce a tali esperimenti, è già di per sé un primo test di realtà; il sognatore che avverte il bisogno di accertarsi della sua condizione ha già fatto il passo più importante verso la consapevolezza. È importante sottolinearlo, perché si tratta di un procedimento che può porsi come minimo comune denominatore tra sogno e realtà. Ogni movimento dialettico impone infatti che la negazione arrivi prima del mutamento: il dubbio precede l’azione, lo schiavo è già libero quando rompe le catene, e il fine è già operante nei mezzi che si scelgono per capire e per lottare. Se Marcuse, ne L’uomo a una dimensione, esponendo il processo proprio in questi termini, si riferisce al reale, possiamo ragionevolmente estendere il discorso alla pratica onirica del sogno lucido, con lo scopo di preparare un terreno comune che permetta di trasporre, seguendo il percorso inverso, le caratteristiche e le possibilità dell’onironautica nella realtà, specificatamente all’interno del brand.

Una volta entrati, dopo il test di realtà, nel sogno lucido, si apre la possibilità di manipolare a proprio piacimento il mondo onirico, maneggiarlo proprio come se fosse sveglio e cosciente. Il libro di Stephen LaBerge e Howard Rheingold, Exploring the World of Lucid Dreaming, oltre a fornire una serie di tecniche utili per raggiungere uno stato cosciente nei sogni, sostiene che il sogno lucido riesca ad apportare una serie di benefici fondamentali, tra i quali realizzazione del desiderio, acquisizione di maggiore fiducia in se stessi, generazione un senso di liberazione nella propria vita. Tutti sono eligibili a essere trasposti nel reale.

La modalità attraverso cui il sogno può soddisfare la nostra pulsione desiderante è piuttosto evidente, già dal nostro linguaggio: non è un caso se parliamo spesso del “lavoro dei nostri sogni”, della “casa dei nostri sogni”, e così via. Nella sfera onirica è infatti possibile abbandonare ogni limitazione e fare un’esperienza coinvolgente di ciò che desideriamo più fortemente. Padroneggiare le tecniche onironautiche serve a modellare i sogni a nostro piacimento, in modo tale da far sì che la sua forma corrisponda esattamente alla realizzazione di un nostro desiderio. Qual è la sua controparte sul piano reale?

Una suggestione proviene proprio da Kornberger il quale, sulla scorta di Slavoj Žižek, scrive che i brand sono creati per produrre desiderio, non per soddisfarlo. I brand sono immagini idealizzate e irraggiungibili che servono solo a mettere in moto il nostro desiderio. Il sogno lucido, in questo contesto, si pone in diretto contrasto con questa logica riproduttiva del brand. Il tentativo deve essere perciò quello di prendere il controllo dei brand, modellandoli affinché abbiano un reale potere di soddisfacimento nei nostri confronti. La sfida va posta in maniera interrogativa: può il femminismo, ad esempio, considerarsi un brand, nella misura in cui cessa di legarsi ad una logica di consumo e conservare la spinta liberatrice verso l’emancipazione? Presentare un messaggio politico e sociale rivoluzionario “con il vestito della domenica” può erodere, sfruttandola, la logica stessa del branding, conservando la sua spinta realizzante e significativa (nel senso di portatrice di significato) a scapito della subordinazione al consumo? È ancora un brand, a queste condizioni? Una domanda simile la pone a proposito della cultura, con il suo stesso verificarsi, il festival internazionale della Letteratura Working Class, nato dall’esigenza di sfuggire alle logiche mercificanti del mondo culturale stesso[6]. In generale, i brand contengono sempre un’indeterminatezza di significato che apre la possibilità dell’impegno politico; sono un luogo di lotta attraverso il quale si verificano contestazioni sul significato. Hanno il potere di mediare molti aspetti della vita delle persone, ma esistono anche modi di appropriazione che sfuggono al controllo.

Questo primo beneficio necessita di una specificazione, che previene una critica e costituisce a sua volta il secondo beneficio. Nessuno capace di produrre sogni lucidi crede che la soddisfazione dei desideri nel sogno sia esattamente la stessa cosa che realizzarli nella realtà. Ciò nonostante, si può raggiungere nel sogno un elevato grado di soddisfazione, grazie alla capacità di controllarlo. La pratica onironautica può abituarci a pensare così anche in relazione al brand, che condivide con il sogno l’interpassività del soggetto. In entrambi i casi, il soggetto si percepisce infatti come attivo. In quest’ottica, prendere consapevolezza del fatto che il brand non è una ricerca realmente attiva di soddisfazione del proprio desiderio, può renderlo più simile a un sogno, cioè una cabina di prova dei nostri desideri. Il discorso sembra astratto solo in apparenza: comprare un abito che rispetta chi lo produce e l’ambiente, se fa di me un attivista politico, lo fa in maniera mediata, e non diretta; se ciò provoca in me un senso di benessere (ho fatto una buona azione), se realizza un mio desiderio, perché non fare un passo oltre, e attivarsi per modificare effettivamente la realtà attraverso la propria azione politica (al prossimo Fridays For Future vado a manifestare)? Per ragionare sul brand in questi termini però devo realizzarne l’insufficienza. È la posizione della stessa Jodi Dean a proposito della comunicazione su Internet, quando sostiene che questa non è necessariamente un ostacolo alla resistenza politica. La rete consente una comunicazione globale, “ma i piaceri del medium non dovrebbero distogliere la nostra attenzione dal fatto che il cambiamento politico richiede molto, molto di più della comunicazione in rete e dal modo in cui il medium stesso può costituire una barriera contro l’azione sul campo”. Ciò vale per internet, vale per il brand, vale più in generale nella realtà.

Tutto ciò, nella sostanza, non è nulla di nuovo. Le strategie di resistenza alla brandizzazione tendono verso gli stessi obiettivi. Credo, però, come ho sostenuto anche altrove[7], che la cornice al cui interno vengono sistemati gli elementi possa fare la differenza. Lottare per la propria realizzazione all’interno di una realtà distorta è più accattivante se si pensa a noi stessi come onironauti immersi in una dimensione bizzarra, impossibile, eppure manipolabile.

Le regole del sogno possono essere piegate dalla consapevolezza, all’interno del sogno stesso. Così, la realtà pervasiva e unidimensionale del brand può essere manipolata, politicizzata, affinché si ponga al servizio del rilancio di condizioni antagonistiche che sono e rimangono ineliminabili. Si tratta di riconoscerne la possibilità. Questa dimensione simbolica, che per Jolie Dean vale in particolare per il digitale e i suoi strumenti, altrettanto può valere per il fenomeno della brandizzazione, che del digitale è figlio prediletto. “Al fine di identificare e definire le possibilità esistenti per uno sviluppo ottimale, la teoria deve astrarre dal modo in cui esse sono organizzate e utilizzate al presente”, scrive Marcuse ne L’uomo a una dimensione, e non rifiutare quelle possibilità. Rovesciare la scatola per farne una scala. Rinsavire come Paperino. Riuscire un giorno a sentirsi come Baumgarten, protagonista dell’omonimo romanzo di Paul Auster il quale, dopo un sogno, sente di essere entrato in uno spazio interiore che ha modificato le circostanze della sua vita: “Baumgarten è stato trasformato dalla storia che si è raccontato nel sogno. E se la camera cieca ora ha una finestra, magari un domani le sbarre spariranno e lui sarà finalmente libero di sgusciare fuori all’aria aperta”.


[1] https://www.indiscreto.org/invito-al-reincantamento/

[2] https://www.researchgate.net/publication/240798916_Communicative_Capitalism_Circulation_and_the_Foreclosure_of_Politics

[3] https://flaviopintarelli.it/2024/03/06/branding-worldbuilding-storytelling/

[4] Ethics of Open Source Movement. The “Open Source Movement” has its… | by Asad Ali | Medium

[5] Mettere in pratica l’utopia – Stanca (rivistastanca.com)

[6] Riusciremo a ricreare una comunità? – Stanca (rivistastanca.com)

[7] https://nido.treccani.it/2023/12/13/do-what-you-want-cause-a-pirate-is-free/