Da bambino avevo un albo a colori intitolato L’industria culturale del 2025. Mostrava un mondo meraviglioso, dove i confini erano sfrangiati e i matematici diventavano romanzieri, gli scrittori conferenzieri, i comici opinion leader, le soubrette gialliste e viceversa. Una sfera protetta e felice, popolata di gente con qualche migliaio di follower che si voleva tanto bene e non faceva che scambiarsi carinerie sotto forma di recensioni brevi e zeppe di lodi, pezzulli di quattro/cinque paragrafi che quasi mai parlavano dei libri per stare invece sulle persone, sul loro pensiero, sulla loro statura come intellettuali e attivisti. Un piccolo eden di complimenti, dove tutti erano amici. E di cui ho sempre desiderato fare parte. Così, dopo aver letto Viola. Scritture dal nulla, romanzo di Vincenzo Profeta, ho pensato di buttare giù una recensione, e di usarla come chiave di accesso.
Preparo due paginine scritte bene e le invio alla Lettura del «Corriere della Sera». Passano cinque minuti e ricevo una chiamata. È un tizio della redazione, che inizia con una specie di interrogatorio. Mi chiede in che rapporti mi trovi con Vincenzo Profeta, vuole sapere se siamo amici. Sono in imbarazzo. Militare nella stessa cover band dei Gazosa significa essere amici? Sono amici due che sono stati scartati all’ultimo provino per la corrente edizione di Pechino Express, alla quale avrebbero partecipato come “I scrittori”? È amicizia convenire sul fatto che non avere mai più riproposto il duo Leo Gullotta-Dj Francesco come conduttori di Striscia La Notizia sia il più grave errore della carriera di Antonio Ricci? Se sì, io e Vincenzo Profeta siamo amici. Ma non so più se è un bene o un male. Non capisco: non erano tutti amici, quelli dell’industria culturale? E allora? Il redattore resta zitto. Un silenzio severissimo. Cerco di riempirlo, e inizio a parlare del libro: “Sa”, dico, “è proprio un bel libro, Viola, quando l’ho letto…”. Casca la linea. Provo a richiamare. Iliad. Ancora. Iliad. Aspetto due ore e chiamo di nuovo. Sempre Iliad. Mando una mail. Iliad. Mi sa che la recensione non la vogliono più. Mi sa che l’industria culturale mi ha respinto. È colpa mia? O è colpa di Viola di Vincenzo Profeta?
Cos’è, Viola? È un libro uscito per Gog Edizioni, un romanzo breve in quattro capitoli, di cui il primo (che occupa più di metà volume) e gli ultimi due corrispondono a un ininterrotto flusso di pensieri del protagonista – Osvaldo, scrittore, proiezione neanche troppo dissimulata dell’autore –, ossessionato da un amore devozionale per Viola, tizia insopportabile che vive a Milano e con cui si interagisce solo via chat (è un’intelligenza artificiale? Speriamo, sarebbe l’unica scusa). In mezzo, un racconto scritto da Osvaldo: la passione tra due ragazze durante il Covid, ospedalizzazioni, deliri da terapia intensiva.
Detta così, potrebbe essere colpa di Viola. Storia d’amore anni 2000, intellettuale disastrato e ragazzina idiota che per darsi un tono si appropria di luoghi comuni sui luoghi comuni, ipotesi relazione uomo-macchina ma senza gli occhioni di Joaquin Phoenix (che potrebbe anche rispondere a una delle mie lettere: io sono VERO), incursioni nell’attualità, metaletteratura. Roba già sentita. Invece Viola, nel bene e nel male, è un libro come ne capitano pochi, oggi. Perché la storia d’amore non è un pretesto dozzinale per tirare avanti delle riflessioni noiosissime sull’artificialità dei sentimenti, ma un epifenomeno del processo di scarnificazione che Osvaldo pratica su se stesso e, indirettamente, sulla porzione di mondo che gli compete. L’interazione con l’imbecille di Milano lo costringe in zone insopportabili, da cui prova a fuggire affidandosi a una carambola di considerazioni che costituiscono l’elemento peculiare del romanzo.
Leggere Viola è abbandonarsi alle idee di Osvaldo, buone o meno che siano. Un debordare di pensieri che apre a continue (davvero: continue) divagazioni. Gli argomenti? Capitalismo, accelerazionismo, esoterismo, manie estetico-culturali e ostentazioni contemporanee, teorie del complotto (Stevie Wonder che in realtà ci vede clamoroso), satanismo e vertigini mistiche, anticristi russi, la sfiducia nelle possibilità del linguaggio, gli angeli e gli arcangeli, la geopolitica, il digiuno intermittente, i servizi segreti, la netta sensazione – infine – che la verità stia spesso se non sempre sulla superficie. E sono intorno a un 20%. La forma? Un flusso di coscienza, tecnica ormai antica ma che qui sembra l’unica via possibile per dare tangibilità alle aggressioni mentali subite da chi scrive. A volere cavare fuori un blurb da quarta di copertina, dunque, Viola è un libro modernissimo nel contesto, modernista nello stile, antimoderno nei contenuti e nelle risoluzioni.
Io sono un tipo semplice, di quelli che gli strutturalisti definiscono “buoni per il concio”, e in un libro mi piace trovare roba antichissima, come la percezione che la scrittura sia innervata da una precisa visione del mondo (o da un complesso di idee che tendono a) – bene anche se moraleggiante, purché strutturata –, con cui magari andare d’accordo; la ricerca di una cifra stilistica netta, personale; scontatezze ridotte al minimo; momenti di grazia e universalità; sprazzi di humour, se possibile.
Ora, è innegabile che leggendo Viola si finisca immersi in una visione del mondo, senza mai ricevere però la sensazione di essere investiti da una serie di preconcetti ideologici disciolti in prosa – anzi, quasi tentennando per il fatto che non si ammicchi MAI al lettore –, e nel tentativo di uno stile che, anzitutto, prova a essere stile, non l’anti-stile ormai troppo diffuso, intercambiabile tra libro e libro, autore e autore, senza picchi né crolli, blando eppure con qualche colpo di misurato effetto per non annoiare, ma in definitiva piatto: no, lo stile di Vincenzo Profeta ha una sua caratura, con limiti (il discorso-fiume, a volte, non è condotto con il nascosto ma necessario rigore che consenta comunque di seguirlo, e nei luoghi più convulsi si trasforma in un affastellamento di sintagmi poco fruibile) e con momenti notevolissimi. Soprattutto, è riconoscibile, ha un volto, un carattere specifico. E poi, al di là dell’apparente brutalità, della confusione, della fatica che si fa per seguire il barcamenarsi tra pensieri ai limiti della paranoia e della psicosi, quello che resta, di tutto Viola, è una sensazione di lieve divertimento e la tenerezza che ispira la lotta di Osvaldo con sé e con il mondo, a tratti commovente. Questo, almeno, vale per me: uno che si è commosso solo con Hachiko, fate voi.
Se un vizio lo vogliamo trovare, oltre ai già citati momenti di sfilacciamento del flusso interiore, c’è da dire – ma è roba forse da beghine – che il linguaggio spesso inclina allo scurrile: un compilatore di concordanze della Crusca, voglio dire, si direbbe almeno sorpreso, nel contare in doppia cifra il lemma “sborra”, credo un unicum nella storia letteraria italiana non deliberatamente destinata alle auto-palpazioni.
Viola, infine, è un libro da leggere, davvero. Perché è un libro in cui l’autore ha messo qualcosa di suo, non ciò che si preoccupa che gli altri pensino gli appartenga. Non badando al pubblico, insomma. E questo, quindi, non può costituire principio di ragione sufficiente per l’esclusione dal micromondo dell’industria culturale. Non c’è verso che ignorino libri degni di lettura. Impossibile. Provo ancora per telefono. Iliad. Mi sa che è colpa mia, allora.