La serie, rivedendola oggi, è una cartina tornasole anche di come siamo cambiati noi, la percezione dei rapporti col nostro corpo e quelli sessuali/sentimentali.

C’era una volta un mondo pre-social, un decennio ubriaco d’entusiasmo alle soglie del nuovo millennio, con un clima salubre da politicamente scorretto, dove tutti siamo stati felici per un po’… e poi c’eravamo noi, troppo piccoli per essere figli dell’atomica, ma abbastanza grandi per vedere come il millennium bug sarebbe stato il primo fake a incularci.

Ogni favola inizia con ‘C’era una volta’, esattamente come quella di Sex and the City che iniziava con un articolo di Carrie Bradshaw (Sarah Jessica Parker) di fronte all’indimenticabile finestra in una fittizia quanto famosa 245 E 73rd Street (in realtà 64 Perry Street).

Era il 6 giugno del 1998 e la serialità televisiva stava per essere sconvolta da quello che, inizialmente, sembrava di più uno studio socio-antropologico sessuale che un semplice telefilm. Solo Dream On, nel 1990 (dagli stessi creatori di Friends), aveva parlato, o provato a parlare di sesso in maniera diversa, ma il protagonista era, ahinoi, sempre un uomo.

In Sex and the City, ben prima e in modo realmente progressista per buona pace delle Girls di Lena Dunham, era una donna over 30 e le sue tre amiche, tutte e quattro donne benestanti e in carriera, che parlavano di sesso a un pubblico inizialmente perplesso ed ignaro di cosa pensassero le donne sul sesso e le relazioni alla fine del secolo.

Ispirato inizialmente dalla rubrica di Candace Bushnell, Sex and the City ha preso vita propria, basandosi anche sulle esperienze degli sceneggiatori, parlando direttamente al pubblico (almeno durante la prima stagione), rompendo la quarta parete, e portando donne e uomini a riflettere sulle rispettive similitudini e differenze. Se le donne possono fare sesso “come gli uomini” ossia senza sentimenti (vedi Samantha Jones, interpretata da Kim Catrall), gli uomini sono capaci d’innamorarsi e alcune donne no, come confessa nel primo episodio Mr. Big (Chris Noth, depennato subito dal reboot per accuse di molestie) a una ancora acerba Carrie che non si era mai innamorata. Per la prima volta erano i corpi degli uomini ad essere reificati, denudati, soppesati, giudicati, derisi anche, ma non le donne, infatti SJP non ha mai voluto fare una scena di nudo che fosse parziale o integrale.

Al suo meglio, Sex and the City ha rappresentato un ponte comunicativo tra uomini e donne, una simpatica e preziosa auto-analisi su come le donne possono e vogliono vivere la sessualità, come i sentimenti, e il tutto tramite quattro modelli di donne che, inizialmente, non apparivano mai stereotipate, e non dico che questo bastasse a tutte noi per identificarci in una solo di loro o tutte, ma erano comunque una traccia, un insieme di coordinate per muoversi in uno territorio ancora sconosciuto, soprattutto quando cresci in provincia e non puoi parlare di pompini perché, in automatico, diventi la zoccola del paesello.

La serie ha rappresentato davvero qualcosa. Ha aiutato la gentrificazione del West Village? Sì. Ha portato una marea di povere mentecatte ingenue a NY per cercare l’amore? Certo, ma SATC come ogni prodotto di successo ha sempre la sua fan base ipertossica.

È stata la serie che non aveva bisogno di un revival/sequel inclusivo, perché mia cara gen Z, ebbene sì, Sex and the City era già inclusivo prima che i rompicoglioni woke o pseudo tali nascessero, o decidessero di monetizzare col politicamente corretto.

Generi non binari, coppie interraziali, trans, matrimoni gay, adozioni gay, il reddito di singletudine, il sesso anale, il sesso promiscuo, la paura dell’AIDS, i pompini, il rimming, le orge, i tradimenti, la crisi del maschio contemporaneo, il razzismo, gli europei visti come eurotrash o snob intellettuali, la bellezza come arma per progredire nella vita, il femminismo di terza generazione, i feticisti, le persone emotivamente non disponibili, drag queen, drag king, escort, tumori o malesseri che dir si voglia, casi umani, narcisisti manipolatori, milf, gilf, cougar, toy boy, esibizionisti, eiaculatori precoci, madri castranti, figure paterne mancanti, love bombing, gaslighting, rapporti tossici, uso di droghe, aborti… Carrie, Miranda (Cynthia Nixon), Samantha e Charlotte (Kristin Davis) si muovevano già a cavallo tra gli anni novanta e gli anni zero nel campo minato delle relazioni umane, in un luogo come Manhattan dove il futuro, o quel presente che stiamo conoscendo noi adesso, era già concreto, palpabile e vivibile. In Italia, dove la serie è arrivata solo nel 2000, mentre Carrie s’innamorava di Mr. Big e correva per la città sulle sue Manolo Blahnik, noi ragazzine (forse Xennials forse Millennials a seconda della sbornia del sociologo di turno) nei bagni delle medie parlavamo dei jeans come scudi antistupro, e solo da una manciata di anni, nel ’96, lo stupro era diventato un reato vero e proprio.

In un’epoca, questa, dove la gente per eccitarsi guarda video di prolassi anali e dove già prima del primo appuntamento ti chiedono se la prossima volta potrebbe andarti bene una cosa a 3/4/5/6 e, perché no, forse simulare uno stupro di gruppo, per la gen Z e l’attuale gen Alpha parlare di sesso anale o averne paura, come Charlotte nell’episodio quattro della prima stagione, può risultare ingenuo, infantile, quasi surreale. Eppure, al contempo, queste generazioni credono che avere un cazzo di 17/18 cm rappresenti un problema (poveri minus habentes), completamente traviate da una pornografia d’accatto, inconsapevoli di cosa fosse l’erotismo, la filmografia di Salieri o la saga di Concetta Licata.

La serie, rivedendola oggi, è una cartina tornasole anche di come siamo cambiati noi, la percezione dei rapporti col nostro corpo e quelli sessuali/sentimentali; a ripensare a un personaggio come Barkley, quello che nella prima stagione si scopava solo le modelle e le filmava senza consenso, la cosa potrebbe sapere di probabile materiale da revenge porn quanto di anti-body inclusivity. Io sono nata nel 1986, perciò ho seguito SATC dai miei 14 ai 18 anni. Rivedendo le repliche negli anni successivi, la mia amata Carrie Bradshaw era sempre meno perfetta, più complessa, a tratti detestabile, così come le altre, e a mano a mano che accumulavo esperienze sessuali, sentimentali, di convivenza, mesi o anni da single, di incontri de visu o tramite app di dating, mi rendevo conto di quanto avesse ragione Mr. Big e di quanto fossero dannosi e ambigui personaggi come Aidan (John Corbett) o le stesse protagoniste, ma il bello di SATC sta proprio nei personaggi detestabili perché umani.

Negli Stati Uniti hanno creato un sito contro Carrie Bradshaw, ma senza andare troppo lontano basta aprire una qualsiasi discussione sulla pagina Reddit della serie per capire, a farsi alterne, quanto siano odiate queste quattro amiche e ben prima del reboot indegno iniziato da tre anni e che si concluderà, finalmente, il 15 agosto.

Michael Patrick King scrivendo le ultime due puntate, ha capito che era il momento di chiudere, definitivamente si spera, l’arco narrativo di Carrie, Miranda e Charlotte (la compiantissima Samantha apparsa solo in un cameo nella prima stagione di And Just Like That).

La bellezza di SATC è che in poco meno di mezz’ora ti lasciava una qualche forma di riflessione tra le risate e l’eccitazione, AJLT, nel suo essere dramedy da 40 minuti e passa (dove l’accento sta sul drama, scritto all’americana), sembra copiare in forma esasperatamente woke Girls che, a sua volta, non sarebbe mai nato senza SATC. Un po’ come quando I Simpson si sono ridotti a copiare Family Guy (I Griffin) diventando una parodia di se stessi. Il risultato di queste tre stagioni è stato così imbarazzante da portare King a fare dell’autoironia; nell’episodio dove Miranda si rivela fan di un programma trash simile a Love Island (da noi è durata solo una stagione) perché adora fare dell’hate-watching. Ok, autoironia per i bassi ascolti e le continue critiche, ma anche una frecciata verso i detrattori di questa serie.

C’è chi scrivendo di SATC ha parlato di Carrie come la prima antieroina delle serie TV, e in un certo senso chi ha odiato AJLT ha continuato a seguirlo proprio per l’hate-watching che non è di per sé una cosa del tutto negativa: intanto molti fan non volevano la conclusione della serie, ma chiedevano semplicemente una scrittura migliore, che fosse all’altezza della sorella maggiore SATC, altri, invece, ne volevano ancora, un po’ come nei primi anni zero si bazzicavano siti come Rotten per schifarsi e continuare a bearsi di quello schifo.

I livelli di cringe di questo sequel/reboot o come volete chiamarlo, sono tanti, forse troppi: da Mr. Big che nel primo episodio viene forzato a toccarsi guardando Carrie, la relazione di Miranda con Che Diaz (Sara Ramirez) dove Miranda sembra una morta di fica, o rimanendo in tema masturbazione maschile, quando Aiden nascondendosi nel furgoncino si lecca il palmo della mano per avere meno frizione col cazzo.

Forse solo la stagione cinque di SATC ha quasi raggiunto quei livelli o quando Carrie stalkera Mr. Big in chiesa con sua madre.

Se Carrie provvedeva ben poco ad alimentare il Sex nel titolo della serie, ci ha sempre mostrato, però, l’altro grande e silenzioso protagonista, trattato con lo stesso amore che le ha sempre riservato Woody Allen: New York. Questa (non) città, questa Babele insofferente ai provinciali che tutti accoglie e che ha accolto, in AJLT non è quasi pervenuta: non ci sono più le passeggiate di Carrie, i locali assurdi che ‘hanno la vita di un moscerino’, ma solo party di ultra lusso, un perenne MET Gala per qualsiasi scoreggia o rutto emesso dalle tre anti-eroine, più le loro nuove amiche come Seema (Sarita Choudhury, che dovrebbe sostituire Samantha) e Lisa (Nicole Ari Parker) una documentarista che non ha alcun senso, funzione o caratterizzazione psicologica abbastanza sfaccettata da renderla interessante. Lisa gira con queste collane statement, da donna di successo, facendoci notare l’ennesimo elefante nella stanza: la moda.

La moda in SATC (se escludiamo l’ultimo episodio della sesta stagione) aveva fatto scuola, mischiando alta moda, vintage, abbigliamento accessibile (sempre meno andando avanti) e citazionismo, e che vi piaccia o meno Carrie era davvero una icona da seguire. In AJLT ritorniamo al discorso parodia, quasi che Carrie e le altre avessero la santa intenzione di apparire sulla pagina di Instagram ‘Humans of New York’, esagerando letteralmente, rischiando il ricovero coatto à la Frances Farmer. Quanto ci sarebbe da dire contro questa nuova serie, partendo dalle figlie di Charlotte o Brady (Niall Cunningham), il figlio di Miranda e Steve, che avrebbero dovuto portare noi vecchi fan come i nuovi, verso la sessualità vista dalla gen Alpha come della ormai superata gen Z. Forse le nuove generazioni non scopano? Visto che dopo il primo quarto di secolo ci siamo liberati dell’emozioni e dei sentimenti, i vostri figli non sanno gestire un ‘no’, figurarsi una relazione con tutto quello che comporta in termini umani ed emotivi; sarebbe stato, a ogni modo, interessante vedere questi ragazzi tra i 14 e i 20 anni, questi giovani contrari alle pastoie del genere, ma al contempo così pieni di etichette e definizioni da essersi incastrati tra migliaia di paletti linguistici, come si relazionano al sesso o a quegli scarabocchi confusi che chiamano relazioni sentimentali.

Niente, neanche questo. Solo una Charlotte che pare totalmente lobotomizzata con problemi da prima mondo e Carrie, e qui forse l’unica cosa interessante, alle prese col suo grande vero amore, l’approdo emotivo che ci è sempre stato per lei dopo mille delusioni amorose: il piccolo appartamento? No. Le scarpe? No. New York? No.

La scrittura.

Carrie in questa stagione si scopre scrittrice e per la prima volta si cimenta nella fiction (ovviamente con rimandi a se stessa), e non nel racconto delle sue avventure sessuali o sentimentali. Il suo nuovo vicino di casa e possibile amante, lo scrittore scorbutico Duncan (Jonathan Cake) vede Carrie per quello che è, fondamentalmente (no, non una stronza egoriferita), una scrittrice.

Paul Auster scriveva ‘alcune storie capitano solo a chi sa raccontarle’.

Bene, seppure Carrie e socie abbiano creato negli anni una probabile fanbase di carampane annoiate, che hanno speso i pochi soldi che avevano per un tour di SATC, che identificano i tumori della loro vita coi fidanzati di Carrie, che vantano di avere avuto anche loro un Mr. Big e di averlo domato… al contempo Sex and the City ha raccontato, con tutti i difetti di scrittura o di formato del caso, cosa significasse essere una donna alla fine del millennio: ci ha rassicurato che se ci piace far pompini non siamo troie, che se un uomo non ti vuole può non volerti dopo averci scopato la prima sera come alla decima, che i single sono davvero discriminati dalle coppie, che stare in una relazione non significa sconvolgersi ma raggiungere dei compromessi, che non siamo meno donne se decidiamo di non avere figli, che tutti ci giudichiamo a vicenda e che forse non è sempre un male il giudizio, che mangiare da sole in un locale non è un reato, che non si è mai troppo vecchi per cambiare vita, che possiamo amare dei personaggi pur con migliaia di difetti come già facciamo con le persone della nostra vita, che anche le donne possono essere tossiche quanto gli uomini, e che seppur viviamo ‘nell’epoca dell’anti-innocenza’ esiste e resiste ancora qualche relitto del Novecento che crede nell’amore, e se quell’amore l’ha perso, crede ancora nel potere salvifico dell’arte.

E che Mr. Big ha sempre avuto ragione.

P.S.: Anthony (Mario Cantone) dovendo sostituire Stanford (Willie Garson, scomparso nel 2021), ha regalato a noi fan le poche scene comiche di AJLT, soprattutto quando il giovane fidanzato Giuseppe (Stefano Pigazzi) vede il suo coinquilino farsi una sega su un burattino che ha il suo stesso viso.