Joyce Carol Oates fa il solletico al Nobel e Chiara Valerio vuole portare gli occhiali come lei, solo che non ci riesce. Se Chiara Valerio potesse diventare la scrittrice che progetta di essere, probabilmente sarebbe Joyce Carol Oates. Oates ha 86 anni e 63 romanzi all’attivo; nel complesso qualche decina di migliaia di pagine che spaziano dalla vita di Marilyn Monroe alla chirurgia di asportazione del clitoride.
Una certa qualità di pensiero la colloca spesso ai margini del dibattito pubblico contemporaneo. Non si spiegherebbe altrimenti il suo interesse per una serie come Yellowstone, lo spettacolo televisivo del conservatorismo americano.
Oates è vedova di due mariti e ama impiegare il tempo libero sui social.
In un messaggio su X di qualche tempo fa, si è definita “l’unica persona che conosco a seguire Yellowstone”, perché Yellowstone è la serie che tutti guardano e di cui nessuno parla, come pure è già stato scritto da autorevoli commentatori.
L’impostazione della trama è persino banale. Il proprietario di un immenso ranch del Montana di nome Yellowstone è disposto a tutto per proteggere il suo ranch.
Il patriarca si chiama John Dutton ed è interpretato da Kevin Costner col cappello da cowboy, gli stivali e il lazo. Mancherebbe la Colt di Ringo, ma all’occorrenza abbondano le armi automatiche.
Attorno all’interesse superiore di John Dutton e del suo ranch, si muove manco a dirlo una corte assetata di sangue, potere e soldi.
Gli autori della serie non hanno scrupoli a servirsi degli espedienti classici della drammaturgia hollywoodiana. Sulla collina degli Oscar bisogna pur sempre ammazzarsi l’un l’altro per affermare il proprio esserci nel mondo. Al tempo stesso entra in scena una sperimentazione al rovescio della semantica egemone nel cinema commerciale di epoca woke.
Quando si è trattato di costruire il personaggio di Beth Dutton, la figlia del patriarca, Joyce Carol Oates spiega come gli sceneggiatori abbiano lavorato contro le comuni aspettative femministe, costruendo un personaggio retrogrado e anti-progressista, che tende a risolvere i suoi problemi a coltellate, piuttosto che con psicanalisi e benzodiazepine. L’influenza “politica” e materiale di Beth sugli snodi della storia di Yellowstone è totale. A lei è domandato lo scioglimento decisivo dello sviluppo del racconto.
La visione semplificata della società americana, dunque dell’intero occidente, funziona così: la parte “rossa” (retrograda, filo-cristiana, filo-“bianco”, filo-“capitalista”, poco istruita, sospettosa nei confronti degli immigrati, anti-aborto, non così favorevole alla concessione dei diritti civili a tutti i cittadini) sta contro la parte “blu” (liberale se non effettivamente progressista, nel complesso ben istruita, incline al laicismo, alle tasse, ai programmi di assistenza sociale, ai benefici sanitari, all’istruzione, al diritto di aborto e soprattutto amichevole verso neri, immigrati, minoranze, gay/lesbiche/queer/trans).
Rispetto a questa geografia bio-politica, il Montana di Yellowstone è un’eterotopia, cioè uno spazio “reale” di contestazione del reale così come ci viene assegnato dall’autorità costituita.
Il paesaggio, dunque la natura, dunque l’ambiente, stanno al centro del discorso. Il principale teorico del concetto di natura dentro la nostra angoscia ecologista è il marchese De Sade, così come importato in Italia dal malthusianesimo di Pasolini e dei suoi epigoni di campagna.
Nella dissertazione sull’omicidio che Sade mette in bocca al papa Pio VI, la natura odia la vita e il suo principale scopo è l’eliminazione del genere umano. Di qui l’adorabile marchese legittima l’infinita serie di torture e violenze da infliggere alle sue eroine della purezza. Nel quadro della morale di De Sade, il crimine è essenziale alla volontà di distruzione che “anima” la natura.
Se la conservazione e la riproduzione sono leggi alle quali gli uomini non possono sottrarsi, la contestazione della necessità della vita è la parola d’ordine del linguaggio sadiano. La vita, dunque l’esserci nella natura, è un diritto riservato, particolare, e comunque “in via d’estinzione”. È questa la sostanza di quella particolare esperienza che la dottrina definisce “apocalisse psicopatologica”.
Per capire in cosa consiste l’idea di natura di un immaginario cowboy del Montana di nome John Dutton, e in cosa differisce da quanto appena descritto, bisogna considerare Yellowstone un’opera d’arte. Al netto di ogni intrinseca qualità di eccellenza visiva e poetica, da Warhol in poi ogni opera d’arte è un genere di pubblicità. Le opere d’arte pubblicizzano l’identità degli artisti che le producono. Questa identità si divide adesso in tre categorie: l’artista queer, l’artista outsider e l’artista folk. A loro spetta il compito di esercitare la semantica eletta della marginalità, un codice di segni che si condensa di fatto in una specie d’ipomania dell’apocalisse.
Per Ernesto de Martino, di cui è stata recentemente rieditata la raccolta di scritti La fine del mondo, il campo della congiuntura culturale dell’occidente è dominato da un senso di «disperata catastrofe del mondano, del domestico, del significante e dell’operabile: una catastrofe che narra con meticolosa e ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, il perder di senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile».
Nel descrivere i sintomi di una neurastenia apocalittica, de Martino si riferisce tra gli altri all’episodio dello sradicamento di una quercia davanti alla casa di un contadino di Berna e al pastore dell’Appennino calabro che, durante un occasionale tragitto in auto, perde di vista il campanile del suo paese, Marcellinara. In entrambi i casi, si attivano il disagio e la schizofrenia di una sindrome da spaesamento. L’effetto di una condizione di spaesamento è, per il contadino di Berna e il pastore di Marcellinara, l’inizio di un «vissuto di fine del mondo». Nella visione di de Martino, il contadino e il pastore, esauriti dalla perdita del proprio orizzonte domestico, sono i prodromi etnologici di Antoine Roquentin nella Nausea di Sartre.
L’esemplificazione neo-western del cowboy di Kevin Costner è la nemesi di Roquentin. John Dutton è “appaesato” a Yellowstone, nel senso del suo radicamento al paesaggio di una patria culturale.
Il nostro rapporto con il paesaggio è ambiguo. Siamo in grado di percepirlo in forma reificata, e reale, solo dopo averne acquisito una concreta possibilità di trasformazione. La fotografia, d’altra parte, funziona come appagamento simbolico di questo impulso. Eppure, nonostante una certa tendenza a infarcire le scene di Yellowstone della struggente bellezza delle praterie, nessun cowboy si sogna di tirar fuori il telefono per postare un selfie all’alba su instagram.
Per John Dutton vale il principio contrario alla trasformazione. Da questo punto di vista, il paesaggio del Montana è materia intangibile. L’idea di custodire una patria culturale “così come è” sta alla base dell’ambientalismo conservatore dei cowboy di Yellowstone, e ha poco da condividere con l’esaltazione nazionalista del partito della restaurazione MAGA.
L’ironia vuole che sia più facile trovare un’istanza di rivoluzione nel retrogradismo insolente di un allevatore di bovini piuttosto che in tanti proclami del più evoluto progressista. Depurato della sua pur lunga serie di grottesche pacchianate, Yellowstone va presa così, come il paradosso semiotico della conservazione, dove conservare è l’unica possibilità generativa di un ethos della salvezza.
Donald Trump e John Dutton adottano modelli di affari incompatibili.
L’impresa del ranch, che in Yellowstone per sineddoche diventa l’impresa del mondo, non deve per forza produrre utili. Basta stare in pari con le spese. Il conservatorismo dell’aristocrazia terriera americana, per quanto opposto alle istanze turbospeculative dell’immobiliarista di Gaza, ne costituisce tuttavia l’ineludibile piattaforma elettorale.
L’innesto sul tecno-feudalesimo di Elon Musk sembra ancora più critico. Dutton è anche un cowboy, ma prima di tutto un proprietario terriero, un latifondista. Incarna i valori plastici di un proto-feudatario del nuovo millennio.
Ai signori della tecnologia elettrica interessa il dominio del tempo, da cui derivano l’azzeramento dello spazio e il suo astratto controllo. La natura del potere di John Dutton è invece tipicamente spaziale. Per un cowboy latifondista del Montana, il tempo consiste in un patto tra vivi, morti e chi deve ancora nascere. L’oggetto di questo contratto è la terra, per questo tutto il feudalesimo di Yellowstone si gioca intorno ai vincoli giuridici della successione ereditaria. Di qui discende una gerarchia di valori difficilmente condivisibile con i preziosi geni della Silicon Valley, pronti a trasferirsi su Marte in attesa dell’olocausto digitale.
Il colpo di scena della scrittura di Yellowstone sta nel mettere insieme i due piani, tecno-feudalesimo e conservatorismo, nella prospettiva di una visione escatologica, cioè nel considerare la schizofrenia dell’America di Trump e Musk come una forma conclamata di apocalittismo psicopatologico, per offrire ai sintomi di questa sindrome l’occasione di un riscatto, di una palingenesi a cavallo, sotto le stelle del Montana.