Le due attività del pensiero, da un lato, e il bucarsi dall'altro - il farsi di eroina o dell'oppioide che si preferisce - benché all'apparenza inconciliabili, sono in realtà animate da una tensione simile, che le spinge verso la depersonalizzazione.
dal libro "Il sex-appeal dell'inorganico" (Einaudi)

Se cerchiamo nelle esperienze comuni qualcosa che presenti analogie con il sentire neutro del farsi cosa, lo troviamo nelle tossicomanie e in particolare in quelle provocate dall’oppio e dai suoi derivati. Da De Quincey a Borroughs tutta una vasta produzione letteraria descrive gli splendori e le miserie della droga: ciò che colpisce in essa è l’opposizione tra l’esperienza tossicomane e l’orgasmo sessuale, nonché il rilievo assunto dal mondo delle cose nella percezione. La tonalità generale del drogato sembra caratterizzata dal sentire il proprio corpo come una cosa, dal farsi un corpo estraneo quanto una veste, dal sottrarsi al ciclo di tensione, scarica e riposo. Ora questa letteratura ha sottolineato il legame tra la spersonalizzazione e la sospensione della soggettività provocato dall’uso delle droghe da un lato e lo sviluppo dello spirito poetico dall’altro: essa è connessa con l’elaborazione di una teoria che considera il processo poetico come l’avvento di una parola impersonale e autonoma, più simile a una cosa che all’espressione di uno stato d’animo o alla manifestazione di una volontà. In tal modo essa ha precorso la sensibilità contemporanea, nella quale il sentire presenta il carattere della massima artificialità.

Tuttavia nell’attuale imporsi dell’esperienza tossicomane come modello e paradigma di ogni sentire, l’avventura poetica trova insieme il proprio coronamento e il proprio superamento. Infatti la cosa con cui ci confrontiamo oggi non è soltanto un poema o un’opera d’arte: la cosa che sente è proprio l’uomo. Paradossalmente, ad essa sembra giungere più facilmente la filosofia, da sempre amica della virtù, che la poesia da sempre circondata da un alone di sregolatezza e di trasgressione. L’ingresso della filosofia nel mondo dell’eccesso è più essenziale e perturbante di quello compiuto dalla poesia e dalla letteratura: infatti non si tratta di trarre ispirazione da esperienze intemperanti ed eccessive per comporre testi o scrivere libri, ma di considerare il filosofare stesso come una pratica che crea una dipendenza simile a quella istituita dalle droghe, come un bisogno che non può essere soddisfatto se non in modo provvisorio e instabile, perché è infinito.

Del resto a partire dal momento in cui il modo di sentire tossicomane passa dalla patologia alla fisiologia della società contemporanea, come può l’attività intellettuale, di cui la filosofia è l’esempio per eccellenza, e quella corporea, di cui la sessualità è l’esempio per eccellenza, mantenersi e sopravvivere se non sostenendosi l’una con l’altra, dando origine, così a una nuova esperienza? Ora è vero che la filosofia è stata molto spesso considerata con sospetto e qualche volta criminalizzata e condannata, come nel caso di Socrate e di Bruno; ma nonostante questa lotta millenaria per la propria sopravvivenza, essa non ha mai perduto la speranza di costituire una guida della vita privata e collettiva. Parimenti, è vero che per due millenni si è visto nella sessualità il peccato più comune e frequente, ma proprio perciò essa è stata l’oggetto per eccellenza del pentimento, del perdono e della assoluzione; proprio per la sua oscillazione tra la sublimazione amorosa e la degradazione animale essa è parsa meritevole di indulgenza, perché in entrambi i casi generava una malattia benigna culminante nell’attimo liberatorio e catartico dell’orgasmo.

La scena aperta dalla tossicomania è molto più cupa e tenebrosa, perché essa si confronta non col mondo divino e col mondo animale, che sono entrambi in ultima analisi rassicuranti, perché quasi umani, ma col mondo inanimato e opaco delle cose, cui sembra preclusa ogni possibilità di redenzione e di riscatto. Il connubio della filosofia con la sessualità nell’esperienza neutra del darsi come una cosa che sente e del prendere una cosa che sente, crea uno stato affine a quello provocato dalle droghe, perché incurante di tutto ciò che non sia il proprio proseguimento infinito e la propria ripetizione. La sessualità neutra instaura una dipendenza infinita perché sottratta ai ritmi e alle alternanze biologiche: essa si costituisce nel movimento radicale del filosofare e si nutre della sua spinta eccessiva e intransigente. Non si tratta affatto di adoperare delle comuni droghe come uno strumento per filosofare o per l’esercizio della sessualità, per avere dei bei pensieri e delle immaginazioni eccitanti, ma del fatto che l’incontro tra filosofia e sessualità genera un effetto simile all’oppio e ai suoi derivati. Sembra così che la filosofia e la sessualità passino dalla parte del male in modo più essenziale e costitutivo di quanto non sia mai avvenuto: qui il male non è quello spirituale, simbolizzato dalla rivolta e dalla sfida diabolica, né quello bestiale dell’orgia e della crapula, ma quello inorganico della dipendenza e del non poter fare a meno di qualcosa di fisico, simile alle sostanze usate dai tossicomani.

Quando trovate la realizzazione della cartesiana cosa che sente nel cunnilingus o nella fellatio del vostro partner, quando avvertite nello svolgersi coerente e rigoroso della prosa filosofica il movimento inarrestabile che vi porta a leccare la fica o il cazzo o l’ano del vostro compagno, diventato una neutra e sconfinata estensione di tessuti variamente piegati, quando voi stessi sapete offrire il vostro corpo come un deserto o una landa, affinché sia percorso dalla distaccata e inesorabile investigazione dell’occhio, delle mani, della bocca del vostro amante, quando null’altro vi interessa o vi eccita o vi attrae che ripetere ogni sera la cerimonia della duplice metamorfosi della filosofia in sesso e del sesso in filosofia, allora forse avete fatto passare tanto l’uno quanto l’altro dalla parte del male e del vizio, avete festeggiato il trionfo della cosa su tutto, avete condotto la mente e il corpo nelle estreme regioni del non vivente, là dove forse già da sempre esse erano dirette.

Forse questa è l’unica possibilità rimasta perché esse possano ancora essere delle esperienze. Da tale affermazione si possono però dedurre due ordini di considerazioni completamente differenti. In primo luogo si può dire che poiché l’esperienza tossicomane è diventata il modello di ogni sentire radicale ed estremo, anche la filosofia e la sessualità sono costrette ad adeguarsi alle sue modalità: il farsi corpo estraneo del morfinomane avrebbe acquistato nel nostro tempo una dimensione esemplare, tale che tutto ciò che aspira a una qualche rilevanza emozionale e sensitiva gli assomiglia, così come nel passato tutte le ebbrezze erano simili a quella provocata dal vino. Oppure si potrebbe dire che la sessualità neutra cui ci conduce la filosofia costituisce il punto di arrivo di un cammino che è già sempre appartenuto ad essa: sicché l’impressione di inesorabile e disperata dipendenza che in voi suscita il diventare una cosa che sente altro non è che esitazione, timore, resistenza nei confronti di un nuovo scenario il cui protagonista non è Dio, né l’animale, né tantomeno l’uomo, ma la cosa. Certo, è strano che il connubio tra la filosofia e la sessualità avvenga sotto il segno della droga e non sotto quello del vino, ma questa sembra una necessità imposta dal doversi appropriare di un ambito tanto filosoficamente quanto sessualmente ancora inesplorato.

La sobria ebrietas filosofica, non ci porta verso la cosa. Da Socrate a Nietzsche, sappiamo tutto sul rapporto tra vino e filosofia: in esso la sessualità ha giocato senza dubbio un ruolo importante, ma non essenziale, perché è sempre defluita via verso l’alto o verso il basso, assorbita dallo spirito o dalla vita. La sessualità neutra invece non scorre: tutte le metafore derivate dalla eiaculazione e dal colare del sangue mestruale devono essere abbandonate. Ciò non vuol dire che la cosa sia immobile: ma essa transita, non fluisce. Anche nel suo movimento, nel suo cambiare, essa conserva la sua opacità, il suo carattere non spirituale e non vitale, non mentale e non funzionante. Essa sembra un vizio proprio perché non scorre via, perché è sempre là, data, illimitatamente disponibile, aperta, senza redenzione e senza soddisfazione, senza catarsi. Essa sembra un vizio perché non è un mezzo per raggiungere qualche scopo esterno, nobile o ignobile che sia, perché spezza continuamente il corso del tempo e disarticola la macchina, ci introduce in un movimento acronico e privo di scopo che basta a se stesso e che non chiede altro che la sua prosecuzione.

[…]

Coloro che pretendono di ridurre la sessualità al bisogno o all’amicizia o a un rapporto ricreativo compiono lo stesso errore di quelli che ritengono che la filosofia sia un’attività di buon senso, una pratica di medie virtù, o un esercizio della ragionevolezza. In realtà c’è nella sessualità come nella filosofia un eccesso che è loro essenziale, che le costituisce in quanto tali, che è irrispettoso della propria e dell’altrui libertà, che li rende simili alla schiavitù e alla dipendenza dalla droga. Proprio a causa del loro eccesso, la sessualità corre verso il matrimonio e la filosofia corre verso l’università: se esse fossero ragionevoli e liberali, come hanno preteso le anime belle della liberazione sessuale e della contestazione universitaria, mai e poi mai si chiuderebbero nella prigione del matrimonio e della scuola filosofica. È ora di vedere il matrimonio e l’università dalla parte del male, come spacciatori di eccessi sessuali e filosofici cui non si può rinunciare, anziché dalla parte del bene come rimedi alla libidine sessuale e a quella conoscitiva.