In questo racconto di Virginia Dal Porto c'è un piccolo lampo che illumina le assurde passioni degli esseri umani, spesso al contempo oscene e solenni.

Mi sveglia Elena, la mia coinquilina. Dado è morto, vestiti che andiamo su, mi fa. Esco subito dal letto. Andare su significa prendere la macchina e salire sui colli, dove c’è la casa dei genitori di Matilde. È l’altra coinquilina, ma sta su da un po’ perché i genitori non ci sono e Dado, il suo cane, stava male.    

  

Elena mette in moto. Oggi è il venticinque aprile, avremmo dovuto andare in via del Pratello a schiantarci di birre, ma Dado è morto. A nessuna di noi due importa del Pratello adesso e penso che sia questa l’amicizia. Imbocchiamo via Casaglia.
Da dentro la macchina non si capisce che stagione è, la nebbia si mangia gli alberi e la fine delle strade e si deve fare più attenzione del solito ai cinghiali e agli istrici.
Arriviamo che Matilde sta scavando la buca da sola. È alta un metro e sessanta scarso ma è forte e quando è distrutta ancora di più. Sono fiera di essere sua amica. I capelli nerissimi sono raccolti in una coda che le cade moscia sulla schiena.
Io e Elena raccogliamo le altre due pale che lei ha lasciato al lato della buca e iniziamo a scavare. Mi fermo un attimo per guardare il corpo di Dado avvolto in un lenzuolo bianco, qualche metro più in là. Ma poi sento Matilde bestemmiare contro un sasso che le impedisce di scavare e allora continuo anche io.

In questo periodo la vita non lascia in pace Matilde. La casa ipotecata per i debiti del padre, la madre non fa altro che bere, nessuno dei due tenta di aiutarla e partono per settimane per andare in giro con gli amici. Matilde non sa come pagarsi l’università – anche se non sta più dando esami – né sapeva come pagarsi le spese mediche per Dado. La vita non lascia in pace Matilde e lei continua a scavare la buca e sembra ci possa riuscire da sola, che io e Elena siamo lì per farle compagnia.

           
Ma la terra sui colli è argillosa, in tre ore non siamo neanche arrivate a metà. La buca deve essere almeno un metro, sennò ci arrivano gli animali e Dado non può essere disturbato.

Facciamo una pausa. È un po’ che siamo in silenzio.  

Matilde guarda fissa il corpo di Dado, Elena le carezza prima la schiena e poi la testa, io le prendo la mano.          

Non ce la faccio più, fa Matilde.         

Noi restiamo in silenzio. Sembra una frase da adulti e fa strano vederla uscire dalla sua bocca ventiduenne. Ma ha ragione e non sappiamo che dirle.     

Fai su Asia, mi fa Matilde guardandomi e io ubbidisco.

           
Prendo fumo, tabacco, cartine e filtri e uso la cover del telefono come cocchino. Mi siedo sull’erba e anche Matilde e Elena. Se ci penso fa un po’ ridere la situazione da fuori: noi tre, a farci una canna, accanto a una mezza fossa, con il cadavere del cane poco più in là. Però non rido, perché a Dado gli volevamo tutte bene.
Lecco la colla sulla cartina e chiudo la canna. La passo a Matilde e le dico Accendi tu e lei la prende e se la mette in bocca, con gli occhi a fissi di fronte a sé. Elena tira fuori l’accendino e gliela accende. Matilde fa un lungo tiro, chiudendo gli occhi. Mi pare che il bracere bruci tutta la canna, ma è solo un lungo tiro. Poi alza la testa e soffia il fumo verso l’alto e sembra che Matilde crei la nebbia, per un secondo spero che quella nebbia che crea sia la sua tristezza che se ne va, o almeno che parte, che va per i colli, che avverta tutti che Matilde ha bisogno di aiuto, oppure che non avverta – chissene frega – ma che si mangi il resto, spero che la nebbia si mangi Bologna, si mangi l’Emilia e poi il mondo intero, la nebbia deve aiutarci, deve mangiare gli altri, deve mangiare l’altro, deve mangiare tutto e lasciarci noi tre, con la nostra canna, con Dado e con la buca, la nebbia deve far sparire ogni cosa e lasciare noi in pace.

Dobbiamo chiamare Carlo, se continuiamo così non riusciamo a finire prima che faccia buio, dice Matilde. Ora piange.

Carlo è il suo vicino di casa, ma io e Elena non l’abbiamo mai visto. Ogni volta che c’è un uomo io mi entusiasmo, come se ci fosse la possibilità che succeda qualcosa.
Ci presentiamo, ha la voce acuta che stona un po’ con la sua figura perché è alto e grosso. Ha i capelli biondi scompigliati e una camicia a fiori larga. Prende la pala di Elena – che è la più debole tra di noi – e si mette a scavare, mentre lei prende dei fiori da mettere nella buca. Carlo scava veloce, non riesco a non guardargli i muscoli sulle braccia che si gonfiano e mi faccio schifo. Io tento di scavare più forte che posso per fare colpo su di lui e mi faccio ancora più schifo.

In un’ora riusciamo ad arrivare a un metro, lo dice Elena che misura la buca con il suo corpo, mettendocisi dentro in piedi. Serve la calce, la vado a cercare in garage e Carlo mi segue perché i sacchi pesano. Io sono ancora eccitata e mi faccio ancora più schifo, mentre lui cerca tra gli scaffali e io dentro un armadietto.

Forse l’ho trovata, dico.

Carlo si avvicina e guarda i sacchi che sto indicando e annuisce.
Mi giro verso di lui e ci guardiamo negli occhi. Non ci penso neanche troppo, ci avvinghiamo e ci baciamo, con brutalità, come non si dovrebbero baciare due ragazzi – ci mangiamo come la nebbia si mangia i colli. Mi prende il culo e me lo stringe quasi a farmi male, io gli tiro i capelli come se dovessi strapparli. Poi ci stacchiamo, lui si slaccia i pantaloni e mi spinge la testa verso il basso e m’inginocchio. Gli faccio il pompino che mi chiede, glielo prendo in bocca con foga, lui mi prende la testa e lo spinge più in fondo. Lo sento grugnire di piacere e io lo lascio fare anche se sto per strozzarmi, ma sono eccitata e mi faccio davvero più schifo di prima e inizio a toccarmi.
Asia, fa Elena. È arrivata nel garage, non l’abbiamo sentita. Carlo si stacca da me e si tira su i pantaloni, prende i sacchi di calce ed esce, senza dire una parola. Io sono ancora in ginocchio.        

Asia, stiamo mettendo Dado nella buca, continua lei. Ha la voce ferma, come quando si è arrabbiati ma non si ha la forza di arrabbiarsi.

Io sono ancora in ginocchio, non la vedo. Mi sento la bocca vuota.

Si sta avvicinando. Si mette davanti a me. Ci guardiamo e non c’è bisogno che dica altro. Mi tende la mano per aiutarmi a mettermi in piedi. Poi, senza lasciarla, mi accompagna fuori.

Dado è dimagrito, prima era un cane in forze, adesso è uno scheletro di peli neri. Io e Matilde lo mettiamo dentro la buca. Mentre lo adagiamo esce una zampa dal lenzuolo e io la infilo dentro sperando che lei non l’abbia vista.

Io e Matilde ci conosciamo da quando abbiamo cinque anni, è per lei che ho scelto Bologna.

Elena mette i fiori sopra Dado, ha fatto un mazzo con delle margherite. Matilde si allontana per prendere un papavero, che mette con cautela perché si sa che il papavero è fragile, che a perdere i petali ci mette niente.

Ci pensiamo noi a ricoprire la buca, fa Matilde a Carlo.

Allora vado, dice lui.

Grazie davvero.

Figurati, fa Carlo, poi dice Ciao, lo dice a tutte ma guarda me negli occhi e se ne va.
Buttiamo la calce dentro la buca coprendoci bocca e naso con le sciarpe. Matilde dice che è pericoloso respirarla, di fare attenzione se ci sporchiamo le mani.

Riempiamo la buca, ci mettiamo un’altra ora. Io sono distratta, guardo i sacchi di calce e a volte mi danno una scarica di entusiasmo, ma dopo una mezz’ora la buca è quasi piena e la mia bocca sempre vuota e devo vomitare.

Vomito nascosta dietro a una siepe, non voglio che le altre mi vedano. Lo so che Elena se n’è accorta, ma non mi chiede niente.

Quando abbiamo finito ci rimettiamo per terra a fumare un’altra canna. Io non sto più parlando, non so cosa dire. Poi Matilde fa Andate giù, mi faccio una doccia e vi raggiungo.

Non vuoi che ti aspettiamo?

No, no, andate.

Mentre io e Elena siamo in macchina non parliamo. La nebbia si è mangiata i colli. Arriviamo davanti a casa, in via Saragozza. Tira il freno a mano e si gira a guardarmi.
Non dici niente?

Non so cosa dire.