Testo italiano della conferenza di Giorgio Agamben letta durante il seminario "Défaire l’Occident" organizzato dal collettivo di Tarnac (Francia), nell’estate 2013.
di Giorgio Agamben

1.

Il tema delle riflessioni che vorrei oggi condividere con voi è la potenza destituente. Ma, per questo, occorrerà prima che io provi a situare questo concetto nel più ampio contesto di cui esso è parte e nel quale s’iscrive in qualche modo come una possibile, provvisoria conclusione.

Che cosa ho inteso fare da quando ho intrapreso quell’archeologia della politica che ha preso forma nel progetto Homo sacer? Non si trattava di criticare o correggere questo o quel concetto, questa o quella istituzione della politica occidentale. Si trattava, piuttosto, innanzitutto di spostare il luogo stesso della politica, che non era essenzialmente mutato da Aristotele a Hobbes.

L’identificazione della nuda vita come referente primo e posta in gioco della politica è stato perciò il primo atto della ricerca. Il luogo originario della politica occidentale consiste in una ex-ceptio, in un’esclusione inclusiva della vita umana nella forma della nuda vita. Riflettete alla particolarità di questa operazione: la vita non è in sé stessa politica, essa è ciò che deve essere escluso e, insieme, incluso attraverso la sua stessa esclusione. La vita è, cioè, l’Impolitico, che deve essere politicizzato attraverso un’operazione complessa, che ha la struttura dell’eccezione. L’autonomia del politico si fonda, in questo senso, su una divisione, un’articolazione e un’eccezione della vita. La politica occidentale è fin dall’inizio biopolitica.

2.

La struttura dell’exceptio è stata definita in Homo sacer I a partire da Aristotele. L’eccezione è un’esclusione inclusiva. Mentre l’esempio è una inclusione esclusiva (l’esempio è escluso dall’insieme cui si riferisce, in quanto appartiene ad esso), l’eccezione è inclusa nel caso normale attraverso la sua esclusione.

È questa esclusione inclusiva che definisce la struttura originaria dell’arché. Non si può comprendere la dialettica del fondamento che definisce l’ontologia occidentale da Aristotele in poi se non si comprende che essa funziona come un’eccezione nel senso che si è visto. La strategia è sempre la stessa: qualcosa viene diviso, escluso e respinto al fondo e, proprio attraverso questa inclusione, viene incluso come fondamento. Ciò vale per la vita, che si dice in molti modi – vita vegetativa, vita sensitiva, vita intellettiva, la prima delle quali viene esclusa per fungere da fondamento alle altre –, ma anche per l’essere, che si dice ugualmente in molti modi, uno dei quali fungerà da fondamento.

Nell’eccezione sovrana che sta a fondamento dell’ordinamento giuridico-politico dell’occidente, ciò che viene incluso attraverso la sua esclusione è la nuda vita. È importante non confondere la nuda vita con la vita naturale. Attraverso la sua divisione e la sua cattura nel dispositivo dell’eccezione, la vita assume la forma della nuda vita, di una vita che è stata, cioè, scissa e separata dalla sua forma. In questo senso si deve intendere, alla fine di Homo sacer I, la tesi secondo cui «la prestazione fondamentale del potere sovrano è la produzione della nuda vita come elemento politico originario»[2]. Ed è questa nuda vita (o vita “sacra”, se sacer designa innanzitutto una vita che può essere uccisa senza commettere omicidio) che, nella macchina giuridico-politica dell’occidente, funge da soglia di articolazione fra zoè e bios, vita naturale e vita politicamente qualificata. E non sarà possibile pensare un’altra dimensione della vita se prima non saremo riusciti a disattivare il dispositivo dell’eccezione della nuda vita.

Se riportiamo il dispositivo dell’eccezione all’antropogenesi, è possibile che esso si chiarisca attraverso la struttura originaria dell’evento di linguaggio. Il linguaggio, avvenendo, insieme separa da sé e include in sé la vita e il mondo. Esso è, nelle parole di Mallarmé, un principio che si fonda sulla negazione di ogni principio, sulla propria situazione nell’arché. L’ex-ceptio, l’esclusione inclusiva del reale dal logos e nel logos è, cioè, la struttura originaria dell’evento di linguaggio.

3.

Una ricerca ulteriore sulla funzione della guerra civile nella Grecia classica ha permesso di precisare il meccanismo attraverso cui la vita viene “politicizzata”. Christian Meier ha mostrato come nella Grecia del V secolo avvenga una trasformazione della concettualità costituzionale, che si realizza attraverso quella che egli chiama una «politicizzazione» (Politisierung) della cittadinanza. Dove prima l’appartenenza sociale era definita innanzitutto da condizioni e status di varia specie (nobili e membri di comunità cultuali, contadini e mercanti, padri di famiglia e parenti, abitanti della città e delle campagne, signori e clienti) e solo in un secondo momento dalla cittadinanza, con i diritti e i doveri che essa implicava, ora la cittadinanza diventa come tale il criterio politico dell’identità sociale. «Nacque così» egli scrive «un’identità politica specificamente greca della cittadinanza». L’aspettativa che i cittadini si comportassero “come cittadini (bürgerlich)”, cioè, in senso greco, “politicamente”, trovò una forma istituzionale. Questa identità non aveva concorrenti degni di nota, ad esempio nell’appartenenza a gruppi costituiti a partire da comunità economiche, professionali, di lavoro o di religione o di altra specie. Nella misura in cui nelle democrazie i cittadini si dedicavano alla vita politica, essi comprendevano primariamente se stessi come partecipi della polis; e la polis si costituiva a partire da ciò in cui essi erano essenzialmente solidali, cioè dagli interessi originariamente condivisibili all’ordine e alla giustizia. Polis e politeia in questo senso si definivano a vicenda. La politica divenne così per un gruppo relativamente molto ampio di cittadini un contenuto vitale (Lebensinhalt) e un interesse proprio. La polis divenne un ambito tra i cittadini chiaramente distinto dalla casa e la politica una sfera distinta dal “regno della necessità”»[3].

Secondo Meier, questo processo di politicizzazione della cittadinanza è specificatamente greco e dalla Grecia si è trasmesso, con alterazioni e tradimenti di vario genere, alla politica occidentale. Nella prospettiva che qui ci interessa, occorre precisare che la politicizzazione di cui parla Meier va situata nel campo di tensioni fra oikos e polis, definito da processi polarmente opposti di politicizzazione e depoliticizzazione.

4.

A partire dalle ricerche di Nicole Loraux sulla Guerre dans la famille e La citè divisée è possibile comprendere in questa prospettiva la funzione della guerra civile in Grecia. La politica si presenta qui come un campo di tensioni che vanno dall’oikos alla polis, dalla casa impolitica come dimora della zoè, alla città come luogo unico dell’azione politica. L’idea di Loraux è che la stasis abbia il suo luogo originario nella famiglia, sia una guerra tra membri della stessa famiglia, dello stesso oikos. Io sono invece arrivato alla conclusione che il luogo della stasis sia nella soglia fra oikos e polis, famiglia e città. La stasis, la guerra civile, costituisce una soglia, transitando attraverso la quale l’appartenenza domestica si politicizza in cittadinanza e, inversamente, la cittadinanza si depoliticizza in solidarietà familiare.

Solo in questa prospettiva diventa comprensibile quel documento singolare che è la legge di Solone che puniva con l’atimia (cioè con la perdita dei diritti civili) il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti – come Aristotele dice con crudezza: «colui che, quando la città si trova in una guerra civile (stasiazouses tes poleos), non prende le armi (thetai ta opla, lett. mette lo scudo) per alcuna delle due parti sia punito con l’infamia (atimos einai) e sia escluso dalla politica (tes poleos me metechein)». Non è un caso che Cicerone, nell’Epistulae ad Atticum (X, 1, 2), traducendo capite sanxit, evochi opportunamente la capitis diminutio, che corrisponde all’atimia greca. Questa legge sembra confermare al di là di ogni dubbio la situazione della guerra civile come soglia di politicizzazione/depoliticizzazione nella città greca. Benché questo documento sia menzionato non solo da Plutarco, Aulo Gellio e Cicerone, ma anche con particolare precisione da Aristotele (Ath. Const., VIII, 5), la valutazione della stasis che esso implica è apparsa così sconcertante agli storici moderni della politica che esso è stato spesso lasciato da parte (anche Loraux, che pure lo cita nel libro, non lo menziona nell’articolo).

Non prendere parte alla guerra civile equivale a essere espulso dalla polis e confinato nell’oikos, a uscire dalla cittadinanza per essere ridotto alla condizione impolitica del privato. Ciò non significa, ovviamente, che i greci considerassero la guerra civile come un bene: ma la stasis funziona come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere.

Poiché le tensioni (politico/impolitico, polis/oikos) sono, come abbiamo visto, contemporanee, decisiva diventa la soglia in cui esse si trasformano e si invertono, si congiungono o disgiungono.

5.

Nel corso delle mie ricerche mi è apparso che i concetti fondamentali della politica non sono più la produzione e la prassi, ma l’inoperosità e l’uso.

Una riflessione filosofica sul concetto di “uso” manca. “Uso” e “usare” sono dei termini che la modernità ha investito di un forte significato “utilitaristico”, trasformando il loro senso originario. Un esame del significato del verbo greco che noi traduciamo con “usare” – chresthai – mostra che esso non sembra avere un significato proprio, ma ricava il suo significato dal termine che lo segue, che si trova al dativo o al genitivo, e mai, come ci aspetteremmo, all’accusativo. Tre esempi significativi: chresthai theoi, letteralmente “usare del dio”, vuol dire: “consultare un oracolo”; chresthai nostou, lett. “usare il ritorno” è uguale a provare nostalgia; chresthai te polei, lett. “usare della città” vuol dire partecipare alla vita politica.

Il verbo chresthai è un verbo che i grammatici classificano come “medio”, cioè né attivo né passivo, ma le due cose insieme. Le ricerche di Benveniste sul medio mostrano che, mentre, nell’attivo, i verbi denotano un processo che si realizza a partire dal soggetto e al di fuori di esso, «nel medio […] il verbo indica un processo che ha luogo nel soggetto: il soggetto è interno al processo»[4]. L’esemplificazione dei verbi che hanno una diatesi media (media tantum) illustra bene questa peculiare situazione del soggetto all’interno del processo di cui è agente: gignomai, lat. nascor, nascere; morior, morire; penomai, lat. patior, soffrire; keimai, giacere; phato, lat. loquor, parlare; fungor, fruor, godere ecc.: in tutti questi casi, «il soggetto è luogo di un processo, anche se questo processo, come nel caso del lat. fruor o del scr. manyate, richiede un oggetto; il soggetto è centro e nello stesso tempo attore di un processo: egli compie qualcosa che si compie in lui» (ibid.).

L’opposizione con l’attivo è evidente in quei medi che ammettono anche una diatesi attiva: koimatai, “egli dorme”, in cui il soggetto è interno al processo, diventa allora koima, “egli fa dormire, addormenta”, in cui il processo, non avendo più il suo luogo nel soggetto, viene traferito transitivamente in un altro termine che ne diventa l’oggetto. Qui il soggetto «posto fuori dal processo, lo sovrasta ormai come attore» e l’azione deve prendere conseguentemente come fine un oggetto esterno. Poche righe dopo, Benveniste precisa ulteriormente rispetto all’attivo la particolare relazione che il medio presuppone fra il soggetto e il processo di cui è insieme l’agente e il luogo: «si tratta ogni volta di situare il soggetto rispetto al processo, a seconda che egli sia esterno o interno e di qualificarlo in quanto agente, a seconda che effettui un’azione, nell’attivo, o che, effettuandola, ne riceva per questo un’affezione (il effectue en s’affectant), nel medio»[5].

Si rifletta alla singolare formula attraverso cui Benveniste cerca di esprimere il significato della diatesi media: il effectue en s’affectant. Da una parte, il soggetto che compie l’azione, per il fatto stesso di compierla, non agisce transitivamente su un oggetto, ma implica e affeziona innanzitutto sé stesso nel processo; dall’altra, proprio per questo, il processo suppone una topologia singolare, in cui il soggetto non sovrasta l’azione, ma è egli stesso il luogo del suo accadere. Come implicito nella denominazione mesotes, il medio si situa, cioè, in una zona di indeterminazione fra soggetto e oggetto (l’agente è in qualche modo anche oggetto e luogo dell’azione) e fra attivo e passivo (l’agente riceve un’affezione dal suo proprio agire).

Si chiarisce anche, in questa prospettiva “mediale”, perché l’oggetto del verbo chresthai non possa essere all’accusativo, ma sia sempre al dativo o al genitivo. Il processo non transita da un soggetto attivo verso l’oggetto separato della sua azione, ma coinvolge in sé il soggetto, nella misura stessa in cui questo si implica nell’oggetto e “si dà” ad esso. Possiamo allora provare a definire il significato di chresthai: esso esprime la relazione che si ha con sé, l’affezione che si riceve in quanto si è in relazione con un determinato ente. Colui che synphorai chretai, fa esperienza di sé in quanto infelice, costituisce e mostra sé come infelice; colui che utitur honore, si prova e si definisce in quanto ricopre una carica; colui che nosthoi chretai, fa esperienza di sé in quanto è affetto dal desiderio del ritorno.

Ne risulta una trasformazione radicale tanto dell’ontologia (un’ontologia al medio) che del concetto di “soggetto”. Non un soggetto che utilizza un oggetto, ma un soggetto che si costituisce soltanto attraverso l’usare, l’essere in relazione con altro. Etico e politico è il soggetto che si costituisce in questo uso, il soggetto che testimonia dell’affezione che riceve in quanto è in relazione con altro da sé, con un altro corpo. L’uso, è in questo senso, l’affezione che un corpo riceve in quanto è in relazione con un altro corpo (o col proprio corpo come altro).

6.

Quanto al secondo concetto, l’inoperosità, occorre innanzitutto precisare che esso non significa inerzia, ma nomina un’operazione che disattiva e rende inoperose le opere (dell’economia, della religione, del linguaggio, ecc.). si tratta, cioè, di riprendere il problema che Aristotele aveva posto fugacemente nell’Etica nicomachea (1097 b, 22 sqq.), quando, nel contesto della definizione dell’oggetto della episteme politiké, della scienza politica, si era chiesto se, come per l’auleta, lo scultore, il falegname e ogni artigiano esiste un’opera (ergon) propria, vi sia anche per l’uomo come tale qualcosa come un ergon o se egli non sia invece argos, senz’opera, inoperoso.

Ergon dell’uomo significa in questo contesto non semplicemente “opera”, bensì ciò che definisce l’energeia, l’attività, l’essere-in-atto proprio dell’uomo. La domanda sull’opera o sull’assenza di opera dell’uomo ha dunque una portata strategica decisiva, poiché da essa dipende non solo la possibilità di assegnargli una natura e un’essenza propria, ma anche, come abbiamo visto, quella di definire la sua felicità e la sua politica. Il problema ha, cioè, un significato più ampio, e investe la stessa possibilità di identificare l’energeia, l’essere-in-opera dell’uomo in quanto uomo, indipendentemente e al di là delle figure sociali concrete che egli può assumere.

Aristotele lascia subito cadere l’idea di un’argia, di un’inoperosità essenziale dell’uomo. Io ho cercato al contrario, riprendendo un’antica tradizione che compare in Averroè e in Dante, di pensare l’uomo come il vivente senz’opera, cioè privo di una natura e di una vocazione specifica: come un essere di pura potenza, che nessuna identità e nessuna opera potrebbero esaurire. Questa inoperosità essenziale dell’uomo non deve essere intesa come la cessazione di ogni attività, ma come un’attività che consiste nel rendere inoperose le opere e le produzioni umane, per aprirle a un nuovo possibile uso. Bisogna mettere in discussione il primato che la tradizione della sinistra ha attribuito alla produzione e al lavoro e chiedersi se un tentativo di definire l’attività veramente umana non implichi innanzitutto una critica di queste nozioni.

L’età moderna, a partire dal cristianesimo – il cui Dio creatore si è definito fin dall’origine in opposizione al deus otiosus dei pagani – è costitutivamente incapace di pensare l’inoperosità se non nella forma negativa della sospensione del lavoro. Così uno dei modi in cui l’inoperosità è stata pensata è la festa, che, sul modello dello shabbat ebraico, è stata concepita essenzialmente come una sospensione provvisoria dell’attività produttiva, della melacha.

Ma la festa non è definita soltanto da ciò che in essa non si fa, ma innanzitutto e piuttosto dal fatto che ciò che si fa – che in sé non è diverso da ciò che si compie ogni giorno – viene dis-fatto, reso inoperoso, liberato e sospeso dalla sua “economia”, dalle ragioni e dagli scopi che lo definiscono nei giorni feriali (il non fare è, in questo senso, solo un caso estremo di questa sospensione). Se si mangia, non lo si fa per assumere cibo, se ci si veste, non lo si fa per coprirsi o ripararsi dal freddo, se si veglia, non lo si fa per lavorare, se si cammina, non è per andare da qualche parte, se si parla, non è per comunicarsi delle informazioni, se ci si scambiano oggetti, non è per vendere o per comprare.

Non vi è festa che non comporti, in qualche misura, questo elemento destitutivo, che non cominci, cioè, innanzitutto col rendere inoperose le opere degli uomini. Nelle feste siciliane dei morti descritte da Pitré (ma qualcosa di simile avviene in tutte le feste che comportano doni, come Halloween, in cui i morti sono impersonati dai bambini) i morti – o una vecchia detta Strina, da strena, nome latino dei regali che si scambiavano nelle festività dell’inizio dell’anno – rubano ai sarti, ai mercanti e ai pasticcieri le loro merce per farne dono ai bambini. Strenne, regali e giocattoli sono oggetti d’uso e di scambio resi inoperosi, strappati alla loro economia. In tutte le feste di tipo carnevalesco, come i Saturnali romani, le relazioni sociali esistenti sono sospese e invertite: non solo gli schiavi comandano ai loro padroni, ma la sovranità è posta nelle mani di un re-buffone (saturnalicius princeps), che si sostituisce al re legittimo, in modo che la festa si manifesta innanzitutto come una disattivazione dei valori e dei poteri vigenti. «Non vi è antica festa senza danza» scrive Luciano; ma che cos’è la danza se non la liberazione del corpo dai suoi movimenti utilitari, esibizione dei gesti nella loro pura inoperosità? E che cosa sono le maschere, che intervengono in vario modo nelle feste di molti popoli, se non prima di tutto una neutralizzazione del volto?

Solo se pensata in questa prospettiva la festa può fornire un paradigma per pensare l’inoperosità come modello della politica. Un esempio permetterà di chiarire come si deve intendere questa “operazione inoperosa”. Che cos’è, infatti, una poesia, se non un’operazione che ha luogo nella lingua e che consiste nel renderla inoperosa, nel disattivare le sue funzioni comunicative e informative per aprirla a un nuovo possibile uso? Ciò che la poesia compie per la potenza di dire, la politica e la filosofia devono compiere per la potenza di agire. Rendendo inoperose le operazioni biologiche, economiche e sociali, esse mostrano che cosa può il corpo umano, lo aprono a un nuovo possibile uso.

7.

Se il problema ontologico fondamentale è oggi non l’opera, ma l’inoperosità e se questa può, tuttavia, attestarsi solo attraverso un’opera, allora il concetto politico corrispondente non può più essere quello di un “potere costituente”, bensì qualcosa che si potrebbe chiamare “potenza destituente”. E se al potere costituente corrispondono rivoluzioni e sommosse, cioè una violenza che pone e costituisce il nuovo diritto, per la potenza destituente occorre pensare tutt’altre strategie, la cui definizione è il compito della politica che viene. Un potere che è stato soltanto abbattuto con la violenza, risorgerà in altra forma, nell’incessante, inesitabile, desolata dialettica fra potere costituente e potere costituito, violenza che pone il diritto e violenza che lo conserva.

Si tratta di un concetto che comincia appena ad apparire nella riflessione politica contemporanea. Tronti accenna così in un’intervista all’idea di un “potere destituente” senza riuscire in alcun modo a definirlo. Egli, che era partito da una tradizione in cui l’identificazione di una soggettività era l’elemento politico essenziale, sembra legarlo al tramonto delle soggettività politiche. Per noi, che partiamo dal tramonto e dalla messa in questione del concetto stesso di soggettività, il problema si pone in termini diversi.

È a una “destituzione” di questo tipo che Benjamin pensava nel saggio Sulla critica della violenza, cercando di definire una forma di violenza che sfuggisse a questa dialettica: «sull’interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forme mitiche del diritto, sulla destituzione (Entsetzung) del diritto insieme ai poteri cui esso si appoggia (come questi ad esso), cioè in definitiva sulla destituzione della violenza statuale, si fonda una nuova epoca storica»[6]. Che significa qui «destituire il diritto»? E che cos’è una violenza destitutiva e non soltanto costitutiva?

Solo un potere che è stato reso inoperoso e deposto è integralmente neutralizzato. Benjamin identificava questo “potere destituente” nello sciopero generale proletario, che Sorel opponeva a quello semplicemente politico. Mentre la sospensione del lavoro nello sciopero politico è violenza, «perché provoca (veranlasst, “occasiona”, “induce”) solo una modificazione estrinseca delle condizioni di lavoro, l’altra, come mezzo puro, è priva di violenza» (ivi, p.194). Essa non implica, infatti, la ripresa del lavoro “dopo concessioni esteriori e qualche modificazione nelle condizioni lavorative”, ma la decisione di riprendere un lavoro solo integralmente trasformato e non imposto dallo Stato, cioè un «sovvertimento che questa specie di sciopero non tanto provoca (veranlasst), quanto piuttosto compie (vollzieht[7]. Nella differenza fra veranlassen, «indurre, provocare» e vollziehn, «compiere», si esprime l’opposizione fra il potere costituente, che distrugge e ricrea sempre nuove forme del diritto, senza mai definitivamente destituirlo e la potenza destituente, che, in quanto depone una volta per tutte il diritto, inaugura immediatamente una nuova realtà. «Ne consegue che la prima di queste operazioni pone in essere diritto, la seconda è invece anarchica»[8].

Un esempio di una strategia destituente e non distruttiva né costituente è quella di Paolo di fronte alla legge. Paolo esprime il rapporto tra il messia e la legge col verbo katargein, che significa rendere inoperante (argos), disattivare (il Thesaurus di Estienne lo rende con reddo aergon et inefficaem, facio cessare ab opere suo, tollo, aboleo). Così Paolo può scrivere che il messia «renderà inoperante (katargese) ogni potere, ogni autorità e ogni potenza» (1 Cor 15, 24) e, insieme, che «il messia è il telos (cioè fine e compimento) della legge» (Rm 10, 4): inoperatività e compimento qui coincidono perfettamente. In un altro passo, egli dice dei credenti che essi «sono stati resi inoperosi (katargethemen) rispetto alla legge” (Rm 7, 5-6). Le traduzioni correnti di questo verbo con “distruggere, annullare” non sono corrette (la vulgata lo rende più cautamente con evacuari), tanto più che Paolo in un passo famoso afferma di voler «tener ferma la legge» (nomon istanomen, Rm 3, 31). Lutero, con un’intuizione la cui portata non doveva sfuggire a Hegel, traduce katargein con aufheben, cioè con un verbo che significa tanto “abolire” che “conservare”.

In ogni caso, è certo che per Paolo si tratta non di distruggere la legge, che è «santa e giusta», ma di disattivare la sua azione rispetto al peccato, perché è attraverso la legge che gli uomini conoscono il peccato e il desiderio: «non avrei conosciuto il desiderio, se la legge non avesse detto: “non desiderare”. Prendendo impulso dal comandamento, il peccato ha reso operante (kateirgasato, ha attivato) in me ogni desiderio» (Rm 7, 8).

È questa operatività della legge che la fede messianica neutralizza e rende inoperante, senza per questo abolire la legge. La legge che viene “tenuta ferma” è una legge destituita dal suo potere di comando, è, cioè una legge non più dei comandi e delle opere (nomos ton entolon, Eph 2, 15; ton ergon, Rm 3, 27), ma della fede (nomos pisteos, ibid.). E la fede è essenzialmente non un’opera, ma un’esperienza della parola (“la fede dall’ascolto e l’ascolto attraverso la parola” Rm 10, 17).

D’altra parte Paolo, in un passo decisivo di 1 Cor 7, definisce la forma di vita del cristiano attraverso la formula hos me (come non):

Il “come non” è una deposizione senza rifiuto. Vivere nella forma del “come non” significa destituire ogni proprietà giuridica e sociale, senza che questa deposizione fondi una nuova identità. Una forma-di-vita è, in questo senso, quella che incessantemente depone le condizioni sociali in cui si trova a vivere, senza negarle, ma semplicemente usandole. Se, scrive Paolo, al momento della chiamata ti trovavi nella condizione di schiavo, non preoccupartene: ma se anche puoi diventare libero, fa’ uso (chresai) piuttosto della tua condizione di schiavo (1 Cor 7, 21). «Far uso» nomina qui la potenza deponente della forma di vita del cristiano, che destituisce «la figura di questo mondo (to schema tou kosmou toutou)».

È questa potenza destituente che tanto la tradizione anarchica che il pensiero del Novecento hanno cercato di definire senza mai veramente riuscirvi. La distruzione della tradizione in Heidegger, la decostruzione dell’arché e la frattura delle egemonie in Schürmann, ciò che, sulle tracce di Foucault, ho chiamato “archeologia filosofica”, sono tutti tentativi pertinenti, ma insufficienti, di risalire a un a priori storico per destituirlo. Ma anche buona parte della pratica delle avanguardie artistiche e dei movimenti politici del nostro tempo può essere vista come il tentativo – così spesso miserabilmente fallito – di attuare una destituzione dell’opera, che ha finito invece col ricreare in ogni luogo poteri tanto più opprimenti in quanto ormai privi di ogni legittimità.

La destituzione del potere e delle sue opere è un compito arduo, perché è innanzitutto e soltanto in una forma-di-vita che essa può essere attuata. Solo una forma-di-vita è costitutivamente destituente. I grammatici latini chiamavano deponenti (depositiva o, anche, absolutiva o supina) quei verbi che (simili in questo ai verbi medi che Benveniste ha definito come luoghi in cui l’agente e il paziente entrano in una zona di indifferenza, perché l’azione descritta dal verbo è interna al soggetto) non si possono dire propriamente né attivi né passivi: sedeo, sudo, dormio, iaceo,algeo, sitio, esurio, gaudeo. che cosa “depongono” i verbi medi o deponenti? Essi non esprimono un’operazione, ma la depongono, la neutralizzano e rendono inoperosa e, in questo modo, la espongono. Il soggetto non è semplicemente, nelle parole di Benveniste, interno al processo, ma, avendo deposto la sua azione, si è esposto e messo in questione insieme ad essa.

In questo senso, questi verbi possono offrire il paradigma per pensare in modo nuovo non soltanto l’azione e la prassi, ma anche la teoria del soggetto.

8.

Benjamin ha scritto una volta che non vi è nulla di più anarchico dell’ordine borghese. Nello stesso senso, Pasolini fa dire a uno dei gerarchi di Salò che la vera anarchia è quella del potere. Se questo è vero, si comprende allora perché il pensiero che cerca di pensare l’anarchia resti imprigionato in aporie e contraddizioni senza fine. Poiché il potere (l’arché) si costituisce attraverso l’esclusione inclusiva (l’ex-ceptio) dell’anarchia, la sola possibilità di pensare una vera anarchia coincide con l’esposizione dell’anarchia interna al potere. L’anarchia è ciò che diventa possibile solo nel punto in cui afferriamo e destituiamo l’anarchia del potere. Lo stesso vale per ogni tentativo di pensare l’anomia: essa diventa accessibile solo attraverso l’esposizione e la deposizione dell’anomia che il diritto ha catturato dentro di sé nello stato di eccezione. Ciò è vero anche per il pensiero che cerca di pensare l’a-demia, l’assenza di demos o popolo che definisce la democrazia. Solo l’esposizione dell’ademia interna alla democrazia permette di deporre la finzione di un popolo che essa pretende di rappresentare.

In tutti questi casi, la costituzione coincide senza residui con la destituzione, la posizione non ha altra consistenza che nella deposizione.

Dalla definizione del dispositivo dell’eccezione come struttura dell’arché, deriva un’importante conseguenza. Poiché il potere funziona attraverso l’esclusione inclusiva dell’anarchia, dell’anomia, dell’inoperosità ecc., non è possibile accedere direttamente a queste dimensioni: occorre prima esibire la forma in cui esse sono state catturate nel potere. Qualcosa viene “eccepito” nello stato e, in questo modo, “politicizzato”: ma, per far questo, occorre che esso sia ridotto allo stato di “nudità” (nuda vita, anarchia come guerra di tutti contro tutti, anomia come vigenza senza applicazione, ademia come moltitudine informe). Noi della vita non sappiamo più che la nuda vita (in che misura la medicalizzazione della vita sia parte integrante del dispositivo politico), dell’anomia non vediamo più che il caos e lo stato di eccezione, dell’anarchia non sappiamo più che la nuda guerra di tutti contro tutti ecc. Di qui l’importanza delle ricerche come quelle di Illich, di Clastres e di Sigrist che mostrano che vi sono figure della comunità anomica vernacolare che hanno tutt’altro carattere. Quando si vuole recuperare la vita, l’anarchia, l’anomia e l’ademia nella loro verità, occorre pertanto prima liberarsi della forma che esse hanno ricevuto nell’exceptio. Questo non è però soltanto un compito teorico: può avvenire solo attraverso una forma-di-vita. Col termine forma-di-vita, intendiamo una vita che non può mai essere separata dalla sua forma, una vita in cui non è mai possibile isolare qualcosa come una nuda vita. Una vita, che non può essere separata dalla sua forma, è una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere. Si tratta, cioè, di una vita in cui i singoli modi, atti e processi del vivere non sono mai semplicemente fatti, ma sempre e innanzitutto possibilità di vita, sempre e innanzitutto potenza. Tiqqun aveva svolto questa definizione in tre tesi, affermando che 1) «L’unité humaine n’est pas le corps ou l’individu, mais la forme-de-vie», che 2) «chaque corps est affecté par sa forme-de-vie comme par un clinamen, une attraction, un goût» e che 3) «Ma forme-de-vie ne se rapporte pas à ce que je suis, mais à comment je suis ce que je suis»[9].

Qui è necessario sostituire all’ontologia della sostanza un’ontologia del come, del modo o delle modalità. Il problema decisivo non è più «che cosa» io sono, ma «come» io sono ciò che sono. Occorre, in questo senso, radicalizzare la tesi spinoziana secondo cui non vi sono che l’essere (la sostanza) e i suoi modi o modificazioni. La sostanza non è qualcosa che precede i modi e esiste indipendentemente da essi. L’essere non è altro che i suoi modi, la sostanza non è che le sue modificazioni, il suo “come” (il suo quo-modo).

L’ontologia modale permette di andare al di là della differenza ontologica che ha dominato la concezione occidentale dell’essere. Fra essere e modi il rapporto non è né di identità né di differenza, perché il modo è insieme identico e diverso – o, piuttosto, implica la coincidenza – cioè il cadere insieme – dei due termini. In questo senso, il problema del rischio panteista è mal posto: il sintagma spinoziano Deus sive (ovvero) natura non significa «Dio = natura»: il sive (tanto che derivi dal si condizionale e concessivo che dal sic anaforico) esprime la modalizzazione, cioè il neutralizzarsi e il venir meno tanto dell’identità che della differenza. Divino non è l’essere in sé, ma il suo sive, il suo già sempre modificarsi e “naturarsi” – nascere – nei modi.

L’ontologia modale implica che si ripensi da capo il problema del rapporto fra potenza e atto. Il naturarsi e modificarsi dell’essere non è un’operazione in cui qualcosa passa dalla potenza all’atto, si realizza e esaurisce in questo. Ciò che, in una forma-di-vita, disattiva l’operatività è un’esperienza della potenza, ovvero di quell’abito, di quell’uso abituale di una potenza che si manifesta come potenza di non (Aristotele la chiama adynamia, impotenza, formulando l’assioma secondo cui «ogni potenza è, secondo lo stesso e rispetto allo stesso, potenza di non», Met. 1046 a, 30-31). La destituzione dell’essere-in-opera dell’opera (della sua energeia) non può essere attuata da un’altra opera, ma solo da una potenza che resti tale e si mostri come tale. Aristotele (De an. 429 b 9-10) aveva scritto che il pensiero, quando pensa in atto ciascuno degli intelligibili, resta in qualche modo in potenza e può allora pensare se stesso. È solo questo irriducibile resto di potenza che permette la destituzione dell’opera. Destituire l’opera significa in questo senso restituirla alla potenza da cui proviene, esibire in essa l’impotenza che vi regna e permane.

Tutti gli esseri viventi sono in una forma di vita, ma non tutti sono (o non sempre sono) una forma-di-vita. Nel punto in cui la forma-di-vita si costituisce, essa destituisce e rende inoperose non solo tutte le singole forme di vita, ma innanzitutto il dispositivo che separa dalla vita la nuda vita. È soltanto vivendo una vita che una forma-di-vita può costituirsi come l’inoperosità immanente in ogni vita. La costituzione di una forma-di-vita coincide, cioè, integralmente con la destituzione delle condizioni sociali e biologiche in cui essa si trova gettata. La forma-di-vita è, in questo senso, la revocazione di tutte le vocazioni fattizie, che depone e mette in tensione dall’interno nel gesto stesso in cui si mantiene e dimora in esse. Non si tratta di pensare una forma di vita migliore o più autentica, un principio superiore o un altrove, che sopravviene alle forme di vita e alle vocazioni fattizie per revocarle e renderle inoperose. L’inoperosità non è un’altra opera che sopravviene alle opere per disattivarle e deporle: essa coincide integralmente e costitutivamente con la loro destituzione, col vivere una vita. E questa destituzione è la politica che viene.

Si comprende allora la funzione essenziale che la tradizione della filosofia occidentale ha assegnato alla vita contemplativa (alla theoria) e all’inoperosità: la prassi, la vita propriamente umana è quella che, rendendo inoperose le opere e funzioni specifiche del vivente, le fa, per così dire, girare a vuoto e, in questo modo, le apre in possibilità. Contemplazione e inoperosità sono, in questo senso, gli operatori metafisici dell’antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare “politica” e “arte”. Politica e arte non sono compiti né semplicemente “opere”: esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono rese inoperose e contemplate come tali.


[2] Homo sacer. Edizione integrale 1995-2015, Quodlibet, Macerata 2018, p. 162

[3] C. Meier, Der Wandel der politisch-sozialen Begriffswelt im V Jahrhundert v. Chr, in R. Koselleck (a cura di), Historische Semantik und Begriffsgeschichte, Klett-cotta, Stuttgart 1979, p. 204.

[4] Problèmes de linguistique générale, vol. 1, Gallimard, Paris 1966, p. 172.

[5] Ivi, p. 173

[6] Gesammelte Schriften, II, 1, Suhrkamp. Frankfurt a.M. 1977, p. 202

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] «L’unità dell’uomo non è il corpo, o l’individuo, ma la forma di vita», 2) «ogni corpo è affetto dalla sua forma di vita come da un clinamen, un’attrazione, un gusto», 3) «La mia forma-di-vita non si rapporta a ciò che sono, ma come sono ciò che sono».