Lungi dall’essere una novità, la realtà virtuale esiste almeno dai tempi di Platone. Forse il modello lanciato da Zuckerberg non si avvererà mai, ma resterà l’umana voglia di fuggire altrove. Tra Hegel e Nietzsche

Siamo veramente nel futuro? Ogni giorno l’amministratore delegato di una qualche startup ci comunica che nei prossimi sei mesi il suo algoritmo porrà fine alla fame nel mondo o al surriscaldamento globale e troverà un rimedio alla morte, all’invecchiamento delle cellule o alla sovrappopolazione. Per noi che dalla provincia più remota dell’impero, invece, ci troviamo alle prese con un problema preistorico come quello del gas e del caro bollette, simili dichiarazioni suonano assurde ma sono un buon pretesto per evadere momentaneamente dalle nostre tragedie domestiche.

Nella Silicon Valley, però, non stonano affatto, al contrario: quello che un tempo era il metodo Steve Jobs – sparala grossa e poi spera di abbindolare abbastanza investitori per riuscire a farlo davvero – è diventato la prassi. Lo stesso utilizzato dalla società Theranos, la cui fondatrice, Elizabeth Holmes, millantando di aver inventato un dispositivo rivoluzionario per analizzare il sangue, ha costruito sul nulla un’azienda dal valore di 9 miliardi di dollari. Il futuro, per ora, lo si costruisce a colpi di tweet, dichiarazioni, comunicati stampa e talk sul tappeto rosso e circolare di Ted X, indipendentemente dalle carte che si hanno in mano.

Il futuro è la narrazione del futuro. Forse, è sempre stato così. Negli ambienti accelerazionisti[1], per definire questo fenomeno, si usa il termine “iperstizione”. Tra i suoi principali teorici il controverso filosofo inglese Nick Land, che ne dà una definizione apparentemente astrusa: «un elemento di cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo»[2].

Per semplificare, prendiamo in prestito le parole del romanziere J. G. Ballard, che lo spiega così: «ciò che gli scrittori della moderna fantascienza inventano oggi, io e te lo faremo domani»[3] .

Iperstizioni sono tutte quelle ipotesi di futuro che diventano abbastanza accattivanti da operare trasformando il presente, quindi influenzando l’esito della storia, nel tentativo di avverarsi.

Land fornisce come esempi l’ideologia del progresso o la concezione religiosa dell’apocalisse, ma anche la narrativa fantascientifica (pensiamo ai romanzi di Azimov, di Philip K. Dick, a Blade Runner) è vista come una macchina testuale potentissima, che interviene nella realtà presente, intensificando le anticipazioni del futuro.

Così possiamo pensare che molti dei progressi tecnologici che oggi si realizzano avvengono perché qualcuno prima li ha immaginati e l’immaginazione influenza il loro avverarsi nella prassi tecno-scientifica. Si tratta di narrazioni dotate di un potere performativo, «una specie di finzione che ambisce a trasformarsi in realtà»[4], dicono i filosofi Srnicek e William.

Il metaverso è un esempio perfettamente calzante di iperstizione. L’idea (fittizia) di uno spazio cibernetico ha contribuito all’afflusso di investimenti che lo hanno rapidamente convertito in una realtà tecnosociale. Tanto più che il nome è stato trafugato dal glossario fantascientifico del romanzo Snow Crash di Neal Stephenson, pubblicato nel 1992. La storia è ambientata in un’America distopica, in una situazione di sostanziale anarco-capitalismo, dove lo Stato federale ha ceduto la maggior parte del suo potere a una manciata di multinazionali che organizzano la vita degli individui, una vita divisa tra una realtà al limite dell’invivibile, e il metaverso, un mondo virtuale in più dimensioni a cui tutti possono avere accesso (anche attraverso delle cabine pubbliche) e dove si viene rappresentati tramite un avatar a cui è consentito fare più o meno le stesse cose promesse da Zuckerberg nel video di presentazione del metaverso.

«La prossima piattaforma sarà ancora più immersiva, e rappresenterà un internet nel quale non vi limitate a guardare ma vivete in prima persona l’esperienza e noi chiamiamo questo il metaverso. Voi sarete in grado di fare quasi tutto ciò che potete immaginare, incontrare gli amici e i familiari, lavorare, apprendere, giocare, acquistare»[5]. Malgrado la crisi che sta affrontando in questo momento l’azienda Meta, a causa della concorrenza con le altre piattaforme (TikTok in primis), una serie di errori che gli azionisti imputano al protagonismo di Zuckerberg, a una pessima campagna pubblicitaria e a una vigilanza dell’antitrust sempre più incalzante sul colosso digitale, il metaverso ha ormai raggiunto lo status di iperstizione, di profezia che si autoavvera, lo stesso parlarne e dibatterne intensifica il suo avverarsi.

L’azienda Meta non è l’unica ad aver investito miliardi sulla realtà virtuale. Microsoft, con il Project HoloLens, dal 2010 sta sviluppando un dispositivo per la creazione di ologrammi ad alta definizione. Google ha investito 542 milioni di dollari nel visore innovativo della start up Magic Leap, per proiettare delle immagini 3d sugli oggetti del mondo reale. Alla corsa al VR partecipano attivamente anche Sony e Samsung.[6]

Indipendentemente dall’azienda che riuscirà a fornirne una versione migliore, la sua estensione a livello planetario, anche se in una forma ibrida, sembra ormai scritta nel prossimo futuro. Ad ogni modo l’equazione è abbastanza semplice: più la terra diventa un luogo inabitabile, più il metaverso avrà buone possibilità di incrementare adepti e guadagni. Non a caso il progetto viene lanciato ufficialmente in seguito a una pandemia, quando ormai gli utenti, confinati in casa, si erano visti costretti a prendere confidenza con le piattaforme virtuali più disparate, affidando tutto il tempo del lavoro, della socialità e dello svago a uno schermo. Meta dovrebbe sperare in un’apocalisse nucleare o in una crisi climatica che ci costringa di nuovo tutti a casa per aumentare le sue quotazioni in borsa. Visto che l’ipotesi non è così irreale, e il mondo non gode di buona salute, è possibile che la scommessa di Zucherberg & Co. non sia poi così azzardata.

Ma ci troviamo sul serio di fronte a una novità? Stiamo entrando in una nuova epoca? Dopo l’operazione di rebranding voluta da Zuckerberg, che nell’ottobre del 2021 ha deciso di cambiare il nome della azienda Facebook in Meta e lanciare così il progetto del Metaverso, un’ondata di scetticismo ha colto di sorpresa il settore, malgrado l’entusiasmo con cui il capo, doppiamente onnipresente nei panni del suo avatar, ha tentato di vendere il mondo nuovo a reti unificate. Sia dall’interno dell’azienda, gli stessi programmatori di Horizon World, il “social” del Metaverso, non ne fanno alcun uso[7], che dall’esterno, dove non si lesinano critiche all’escapismo virtuale dagli ambienti più conservatori e dagli ultimi luddisti, mentre alcuni ricercatori universitari sollevano questioni etiche e le femministe si occupano di bonificare la realtà virtuale da eventuali molestie sessuali, in seguito a un caso di palpeggiamento tra avatar[8]. Critiche più che lecite, se pensiamo che Snow Crash era una distopia e la maggior parte dei personaggi sviluppa malsane dipendenze dal mondo virtuale, al punto da non riuscire più a disconnettersi. In molti si preoccupano del fatto che una tecnologia così immersiva, munita di visori, ologrammi, controller e cuffie sempre più sofisticati, capace perciò di indurre stimolazioni iperrealistiche, più reali del reale direbbe Baudrillard, comporta un rischio di assuefazione altissimo, specie per quelle generazioni che, in futuro, avranno modo di crescere e fare le loro prime esperienze sociali direttamente nell’ambiente virtuale, quando nelle scuole la tecnologia indossabile sarà parte integrante del materiale formativo.

Eppure, se guardiamo alla questione da un punto di vista prettamente filosofico, l’entusiasmo dei tecno-ottimisti ci sembra ingenuo, e l’allarmismo dei catastrofisti esasperato. Da che mondo è mondo, all’uomo il mondo non è mai bastato. L’intera storia della filosofia occidentale è la dimostrazione che l’umanità non è in grado di abitare la realtà per quello che è, e ogni suo tentativo di spiegarla comporta anche un’invenzione. Come sopportare l’irrevocabilità della morte, il dolore, l’eventualità di una catastrofe, di una malattia, di una disgrazia, l’insensatezza della vita? È dall’alba dei tempi che inventiamo miti e religioni, filosofie e sistemi morali, politici, scientifici, per spiegare il mondo ma soprattutto per fornirci un alibi per restare vivi, un espediente per sopportare la realtà. Ebbene cosa sono tutte queste invenzioni, tutti questi mondi fuori dal mondo, se non dei metaversi? Non si tratta già di simulazioni? Le idee non sono, di per sé, virtuali? Le stesse parole, nello scarto che separa il significato dal significante, non sono forse dei link tra ciò che è detto e ciò che è pensato, non rimandano a una virtualità?

Parmenide, l’oscuro e venerabile maestro, fu tra i primi a indagare il problema della conoscenza, chiedendosi cosa fosse reale o meno. Stabilendo la differenza tra essere e non essere e diffidando dell’esperienza e dei sensi come strumenti epistemologici, il filosofo metteva a sistema il mondo delle cose solo intelligibile.

Un bagaglio filosofico ereditato da Platone, che nel suo mito della caverna fornisce un’allegoria molto riuscita del funzionamento del metaverso, con tanto di avatar (le ombre degli oggetti proiettati sul muro). E così per Platone che sia nella realtà o che sia un domani nella realtà virtuale, noi viviamo incastrati nelle ombre mentre è possibile cogliere la verità solo guardando al mondo delle idee, per mezzo della ragione, uscendo dalla caverna. Per Platone il mondo virtuale delle idee, è più reale del reale. Il reale ha tutte le sembianze di un sogno in cui siamo imprigionati e da cui dobbiamo svegliarci, un compito che è appunto delegato al filosofo, che purtroppo (o per fortuna) una volta rientrato nella caverna, dopo aver visto la luce del sole/verità, viene preso dagli altri prigionieri per un pazzo.

Si inaugura così la filosofia idealista, un dispositivo filosofico che non ha mai abbandonato l’Occidente, ma che nelle sue più varie declinazioni, è stato la griglia, il filtro, meglio ancora, per rimanere in tema, il visore attraverso cui guardare alla realtà, fornendoci le categorie per interpretare ciò che ci circonda. Sminuendo la realtà dei fatti, l’idealismo ci suggerisce che l’essere è nel pensiero, e ogni possibilità di conoscenza, prima che dai sensi, è data dalla coscienza del soggetto.

Il soggetto pensa il mondo, quindi sostanzialmente – nel salto che separa l’oggetto dal soggetto – lo inventa. Lo traduce, perciò lo tradisce. Il mondo è una nostra invenzione, l’invenzione che ce ne facciamo di epoca in epoca, una rappresentazione di esso direbbe Schopenhauer. La realtà è indistinguibile dal sogno. Lo stesso Cartesio ha difficoltà a smentire questa ipotesi: «Quando rifletto con più attenzione su queste cose, vedo tanto chiaramente che non si danno mai indizi certi per poter distinguere la veglia dal sonno, che rimango attonito e questo stesso stupore quasi mi rafforza nell’opinione che sto dormendo»[9]. La verità perciò è altrove, non nel mondo, la cui conoscenza per il tramite dei sensi è sempre ingannevole, ma nella dimensione psichica, la cosiddetta res cogitans, laddove solo la sostanza pensante può affermare, nel momento stesso in cui ammette di pensare, di esistere. Cogito ergo sum. La ragione come mezzo per accedere alla realtà. E così pure l’idealismo hegeliano, stabilendo la coincidenza tra ragione e realtà, decretando un’analogia tra la logica dialettica del pensiero e il dispiegarsi dialettico del mondo, arriva ad affermare che tutto ciò che è reale è razionale e viceversa. La realtà è realtà della ragione.

A noi contemporanei questi ragionamenti sembrano sconclusionati, pallidi, sbiaditi. Eppure, su queste visioni del mondo, si sono fondati imperi, istituzioni, chiese, sono state dichiarate guerre.

Ad oggi il Metaverso si presenta come un nuovo strumento per risolvere lo stesso, annoso problema del reale, eleggendo a mezzo di interpretazione di ciò che ci circonda non più il divino o la ragione intesa in senso idealistico, ma la complessità computazionale di un algoritmo. Non è, questo, un nuovo deus ex machina, un’entità trascendente che, alla pari del demiurgo di Platone, della teologia cristiana, del dio matematico di Galileo o dello spirito hegeliano, mette ordine alle nostre vite? Non è questo il collegamento attraverso cui conosciamo o interagiamo con la realtà? Non è questo a suggerirci aspirazioni, bisogni, preferenze, stili di vita? Dove c’era Dio, o la Ragione – quanto è banale dirlo – ora c’è la Tecnica. Le implicazioni, ovviamente, sono migliaia, anche perché gli algoritmi sono di proprietà di aziende con una sede e un azionariato ben preciso. Ma del resto anche dio non era monopolio simbolico di una setta, con tanto di chiese e chierici e canoni; la morale e la giustizia non vengono esercitate arbitrariamente da uno Stato e dai suoi funzionari?

Le idee finiscono sempre per essere proprietà di qualcuno, benché necessitano, per agire nella realtà, che una o più persone le reputino legittime. Ma se oggi il metaverso ci dirà che stiamo davvero cenando con il nostro migliore amico in un ristorante di lusso nella torre più alta di Hong Kong, nonostante siamo seduti sui nostri rispettivi divani in uno scantinato di nove metri quadri muniti di Oculus – ebbene per noi quella sarà la verità, e saremo disposti a credervi se lo reputeremo conveniente, proprio come in passato avevamo buoni motivi per credere che la terra fosse piatta o il sole ruotasse intorno ad essa. Non si viveva, anche lì, in una realtà virtuale? Il metaverso è l’ennesimo tentativo di mettere il mondo dentro un sistema – stavolta operativo – invece che religioso, filosofico, etico, politico, scientifico, pur di sopportarlo, visto che questi vecchi sistemi operativi si sono dimostrati obsoleti.

«Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è divenuta la mia unità di misura sempre più»[10]. Scriveva Friedrich Nietzsche, il filosofo anti-idealista per eccellenza, in Ecce Homo, lamentandosi appunto di un’umanità incapace di sopportare la propria condizione di incertezza, al punto da provare in tutti i modi a moralizzarla, idealizzarla, deformarla. Abbiamo eretto templi a dèi, idoli e miti, costruito istituzioni in nome di idee e imperi sulla base di speranze, pur di non rassegnarci all’insensatezza di un’esistenza altrimenti priva di punti di riferimento. Per il filosofo tedesco è questo il più grande peccato di un Occidente che ha imboccato la strada della decadenza una volta contratto il morbo dell’idealismo e ha destituito la realtà «del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui sé è dovuto fingere un mondo ideale»[11].

La menzogna metafisica o etica, consolando dal disordine e dalla crudeltà del mondo, ha contaminato il pensiero e quindi la vita. Con il suo più celebre slogan “Dio è morto”, là dove per Dio si intende la personificazione di qualsiasi istanza metafisica, di speranza ultraterrena e di credenza religiosa, espressioni della paura di fronte all’insensatezza della vita, Nietzsche sperava nell’avvento del superuomo, in grado di accettare il senso vertiginoso dell’incertezza cosmica senza più orpelli filosofici, sollievi religiosi, espedienti morali, senza più bisogno di deformare il mondo per poterlo accettare nella sua realtà intrinseca, nuda e feroce, tragica e transitoria, nella sua assenza di finalità che atterra e sconforta, ma che invece è per il superuomo motivo di gioia, opportunità di estasi, la strada del caos, dove danzano le stelle.

Se Dio è morto, nessuno superuomo, però, ha preso il suo posto.

Non sono bastati secoli di empirismo, di filosofia analitica, di positivismo, di scientismo, di sfrondamenti metafisici e disboscamenti religiosi, per annichilire, nell’uomo, il suo bisogno di evasione, la sua naturale inclinazione alla virtualità – dal latino virtualis, “in potenza” – che ne sancisce l’incompiutezza, l’insoddisfazione.

Abbiamo studiato gli atomi, indagato le più piccole particelle di realtà per capire di che materia siamo composti, qual è la sostanza primigenia all’origine di tutto. Eppure, non è sufficiente, non ci risolve e la possibilità di un esodo dell’umanità nel metaverso rimane una probabilità, sempre che la sua tecnologia ci spalanchi le porte di un mondo un po’ migliore del migliore dei mondi possibili in cui speravamo fino a ieri. Da questo possiamo dedurre che l’uomo è fondamentalmente un animale che crede. In un Dio, in un’idea, in una visione, oggi nell’algoritmo e nella verità che ci mette di fronte e in cui saremo disposti a credere. Che differenza c’è con il passato? Siamo poi tanto diversi dagli uomini delle epoche trascorse e che giudichiamo, dall’alto dei nostri pregiudizi progressisti, come individui irrazionali nelle loro credenze, nei loro usi e costumi, se noi siamo pronti a prestare fede all’autenticità di un avatar o al match definitivo tra il nostro profilo e quello di un’altra persona su un’app di incontri, se crediamo veramente che un’equazione possa lenire, in un modo qualsiasi, il nostro bisogno di consolazione. Il sonno della ragione genera mostri, titolava un quadro di Goya. Forse si sbagliava. Voleva dire il sogno della ragione.


[1] Filosofia politica di cui la figura centrale è l’intellettuale inglese Nick Land, professore all’Università di Warwick negli anni Novanta. Attingendo dal pensiero di Lyotard, Deleuze e Guattari, Land propone di accelerare il processo capitalistico invece di frenarlo attraverso istituzioni e riforme politiche o morali. Il capitalismo deve essere lasciato a briglia sciolta, sfruttando al massimo le nuove tecnologie, senza più ostacoli etici alla sua espansione totale.

[2] Nick Land, Catacomic, 1995.

[3] J. G. Ballard, Visioni, Shake Edizioni, Milano 2007, p. 35.

[4] N. Srnicek, A. William, Inventare il futuro, Nero Edition, Roma 2015.

[5] Meta, The Metaverse and How We’ll Build It Together, Youtube, 28 ottobre 2021.

[6] M. Kim, The Good and the Bad of Escaping to Virtual Reality, The Atlantic, 18 febbraio 2015.

[7] A. Heath, Meta’s flagship metaverse app is too buggy and employees are barely using it, says exec in charge,The Verge, 7 ottobre 2022.

[8] T. Basu, The metaverse has a groping problem already, 16 dicembre 2021.

[9] R. Descartes, Meditazioni sulla filosofia prima, «Prima meditazione», in Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, Torino, Utet, 1994, vol. I, pp. 667.

[10] F. Nietzsche, Ecce Homo, Adelphi, Milano 2003, p. 266.

[11] Idem, p. 19