Estratti del corso di Michel Foucault al Collège de France del 1984, sul tema del coraggio della verità (tradotto e curato da Mario Galzigna per Feltrinelli).
di Michel Foucault

Ecco infatti il vero motivo per cui il discorso filosofico non è semplicemente un discorso scientifico – che si limiterebbe a definire e a mettere in gioco le condizioni del dire-il-vero –, non è semplicemente, dalla Grecia a oggi, un discorso politico o istituzionale – che si limiterebbe a definire il miglior sistema istituzionale possibile –, non è semplicemente un mero discorso morale, che prescrive princìpi e norme di condotta: il motivo è il fatto che a proposito di ognuna di queste tre questioni – quella scientifica, quella politica, quella morale – il discorso filosofico pone al tempo stesso le altre due. Quello scientifico è un discorso le cui regole e i cui obiettivi sono definibili in funzione della seguente questione: che cos’è il dire-il-vero, quali sono le sue forme, le sue regole, le sue condizioni e le sue strutture? Un discorso politico è soltanto un discorso politico per il fatto che si accontenta di porre la questione della politeia, delle forme e delle strutture del governo. Un discorso morale è soltanto un discorso morale per il fatto che si limita a prescrivere i princìpi e le norme della condotta.

Un discorso filosofico è altra cosa rispetto a ciascuno di questi tre discorsi poiché non pone mai la questione della verità senza interrogarsi, al tempo stesso, sulle condizioni di questo dire-il-vero: o sul versante della differenziazione etica, che apre all’individuo l’accesso a questa verità, oppure sul versante delle strutture politiche all’interno delle quali questo dire-il-vero avrà il diritto, la libertà e il dovere di pronunciarsi. Un discorso filosofico è tale – e non è semplicemente un discorso politico – nel momento in cui, quando pone la questione della politeia (dell’istituzione politica, della ripartizione e dell’organizzazione delle relazioni di potere), pone al tempo stesso la questione della verità e del discorso vero, a partire dal quale potranno essere definite queste relazioni di potere e la loro organizzazione; pone anche la questione dell’ēthos, cioè della differenziazione etica alla quale queste strutture politiche possono e devono dare spazio. Infine, se il discorso filosofico non è solo un discorso morale, è perché non si limita a voler formare un ēthos, a essere la pedagogia di una morale o il veicolo di un codice. Esso non pone mai la questione dell’ēthos senza interrogarsi al tempo stesso sulla verità, sulla forma di accesso alla verità che potrà formare questo ēthos e sulle strutture politiche all’interno delle quali questo ēthos potrà affermare la propria singolarità e la propria differenza. Dai greci a oggi, l’esistenza del discorso filosofico dipende precisamente dalla possibilità o piuttosto dalla necessità di questo gioco: non bisogna mai porre la questione dell’alētheia senza rilanciare nel contempo, a proposito di questa verità, la questione della politeia e dell’ēthos. La stessa cosa vale per la politeia. La stessa cosa vale per l’ēthos.

E se ora volete proprio che ricordiamo le quattro modalità del dire-il-vero evocate la volta scorsa – quando avevo cercato di schematizzare le grandi forme del dire-il-vero che troviamo nella cultura greca (il dire-il-vero profetico, il dire-il-vero della saggezza, il dire-il-vero della tekhnē e il dire-il-vero della parrēsia) –, ebbene, si possono perfettamente definire, a partire da queste quattro

modalità del dire-il-vero, quattro attitudini filosofiche fondamentali; le potremmo ritrovare riunite assieme oppure divise da un rapporto di esclusione o di polemica reciproca. Si possono ritrovare quattro modalità di legare tra loro la questione dell’alētheia, la questione della politeia e la questione dell’ēthos.

O ancora: definendo la filosofia come il discorso che non pone mai la questione della verità senza interrogarsi nel contempo sulla questione della politeia e sulla questione dell’ēthos – che non pone mai la questione della politeia senza interrogarsi sulla verità e sulla differenziazione etica, che non

pone mai la questione dell’ēthos senza interrogarsi sulla verità e sulla politica –, possiamo dire che vi sono quattro maniere di legare assieme queste tre questioni, rinviando le une alle altre o raggruppando le une con le altre.

Potremmo chiamare attitudine profetica quella che in filosofia promette e predice, oltre i limiti del presente, il momento e la forma in cui la produzione della verità (alētheia), l’esercizio del potere (politeia) e la formazione morale (ēthos) arriveranno infine, esattamente e definitivamente, a coincidere. In filosofia, l’attitudine profetica tiene il discorso della promessa riconciliazione tra alētheia, politeia ed ēthos.

In filosofia c’è poi l’atteggiamento della saggezza: quello che pretende di dire, con un discorso fondamentale e unico, con uno stesso tipo di discorso, ciò che ne è, al tempo stesso, della verità, della politeia e dell’ēthos. In filosofia, l’atteggiamento della saggezza è il discorso che cerca di pensare e di dire l’unità fondatrice della verità, della politeia e dell’ēthos.

In filosofia, l’atteggiamento del tecnico o di chi insegna è al contrario quello che tenta di non fare promesse rispetto a un avvenire, e non di ricercare in una unità fondamentale il punto di coincidenza tra alētheia, politeia ed ēthos. È al contrario quello che tenta di definire, nella loro specificità irriducibile, nella loro separazione e nella loro incommensurabilità, le condizioni formali del dire-il-vero (la logica), le forme migliori dell’esercizio del potere (l’analisi politica) e i princìpi della condotta morale (molto semplicemente, la morale). Diciamo che in filosofia questo atteggiamento è il discorso dell’eterogeneità e della separazione tra alētheia, politeia ed ēthos.

Credo che in filosofia vi sia un quarto atteggiamento. È l’atteggiamento parresiastico: quello che tenta giustamente, ostinatamente e ricominciando sempre da capo, di riportare l’attenzione, a proposito della verità, al problema delle sue condizioni politiche e della differenziazione etica che ne dischiude l’accesso. L’atteggiamento parresiastico riconduce sempre e perennemente la questione del potere alla questione del suo rapporto con la verità e con il sapere, da un lato, e con la differenziazione etica dall’altro; l’atteggiamento parresiastico riporta infine la questione del potere al problema del discorso vero in cui questo soggetto morale si costituisce e al problema delle relazioni di potere in cui questo stesso soggetto si forma. È questo l’atteggiamento parresiastico in filosofia: è il discorso dell’irriducibilità della verità, del potere e dell’ēthos ed è al tempo stesso il discorso della loro relazione necessaria, cioè dell’impossibilità di pensare la verità (alētheia), il potere (la politeia) e l’etica (ēthos) fuori da una mutua relazione, essenziale e fondamentale, tra questi tre livelli.

[…]

Scusatemi se mi sono dilungato in questa presentazione generale del cinismo. Vorrei ora tornare al problema che mi preoccupa e mi interessa, dove il cinismo gioca un ruolo, se non esclusivo, certamente importante. Il problema è il seguente. Il cinismo, lo avevo detto la volta scorsa, si presenta essenzialmente come una determinata forma della parrēsia, del dire-il-vero, che trova tuttavia il suo strumento il suo luogo, il suo punto di emergenza nella vita stessa di colui che deve manifestare o dire il vero, nella forma appunto di una manifestazione d’esistenza. Tutto ciò che vi ho detto in precedenza era un modo per ritrovare, nei caratteri generali del cinismo, gli elementi che permettono di comprendere come e perché il dire-il-vero del cinico assume, in modo privilegiato, la forma di vita come testimonianza della verità. Il cinismo appare chiaramente come questo modo di manifestare la verità, di praticare l’aleturgia (cioè la produzione di verità proprio nella forma di vita), da un capo all’altro della sua vicenda: cioè da Diogene, a cui Luciano fa dire di essere il profeta della verità (più esattamente, della parrēsia: prophētēs parrēsias), fino a Gregorio di Nazianzo, secondo il quale Massimo, a un tempo asceta cristiano e vero filosofo, è martyrōn alētheias (colui che porta testimonianza, che è testimone della verità).

Ho qui individuato, mi sembra, un tema che meriterebbe evidentemente ben altri sviluppi rispetto a quelli possibili in questa sede: un tema che è stato comunque molto importante nella filosofia antica e nella spiritualità cristiana, molto meno decisivo, forse, nella filosofia contemporanea, ma certamente presente in quella che potremmo chiamare l’etica politica a partire dal XIX secolo. Si tratta del tema della vera vita. Che cos’è la vera vita? Giacché i nostri schemi mentali e il nostro modo di pensare ci fanno concepire, non senza qualche problema, in che modo un enunciato possa essere vero o falso e in che modo possa ricevere un valore di verità, quale significato possiamo assegnare all’espressione “vera vita”? Quando si tratta della vita – si può dire lo stesso a proposito di un comportamento, di un sentimento, di un atteggiamento –, in che modo è possibile utilizzare la qualifica di vero? Cos’è un vero sentimento? Cos’è il vero amore? Cos’è la vera vita? Questo problema della vera vita è stato assolutamente essenziale nella storia del nostro pensiero filosofico, della nostra spiritualità. È questo tema della vera vita che vorrei illustrare in modo generale, ma scegliendo il cinismo come punto di applicazione.

In primo luogo – è ciò che vorrei ora spiegarvi –, cosa si intendeva per “vera vita” nella filosofia greca, ancor prima del cinismo o accanto al cinismo? Questa espressione la si trova alcune volte in Platone, e anche un numero di volte non irrilevante. Ecco ora un promemoria molto elementare sulla nozione stessa di verità, prima di porre la questione di cosa sia la vera vita (alēthēs bios, alēthinos bios). Alētheia: la verità. Alēthēs: il vero. Nel pensiero greco classico, cosa si intende, in genere, con il termine alētheia? Chi è alēthēs (vero)? Credo sia possibile – ancora una volta in modo molto schematico, perdonatemi – distinguere quattro significati o cogliere quattro forme nelle quali, secondo le quali e a causa delle quali qualcosa può essere definito vero.

In primo luogo, scusatemi se ve lo ricordo, vero è certamente ciò che non è nascosto, ciò che non è dissimulato. Struttura negativa del termine – a-lētheia, a-lēthēs che si ritrova tanto spesso in greco. La parola a-trekēs, ad esempio, che vuol dire diritto, etimologicamente significa “non curvo”. Nē-mertēs, che vuol dire sincero, etimologicamente significa “che non inganna, che non

raggira”. L’a-lēthēs è ciò che, essendo non nascosto, non dissimulato, è dato allo sguardo nella sua interezza; è completamente visibile, senza che nessuna delle sue parti sia nascosta o segreta. Primo significato del termine alēthēs. Ma si dirà inoltre – secondo significato – che alēthēs (vero) è non soltanto ciò che non è dissimulato, ma anche ciò che non riceve nessuna aggiunta, nessun supplemento, che non subisce alcuna commistione con altro da sé: non soltanto il suo essere non è celato o dissimulato, ma non è nemmeno modificato da un elemento estraneo, che finirebbe per alterare e per dissimulare ciò che è in realtà.

Terzo significato: è alēthēs ciò che è diritto (euthys: diretto). Questa rettitudine si oppone alle deviazioni e ai ripiegamenti, che dissimulano, per l’appunto, tale rettitudine. Rispetto a ciò che è vero, il fatto di essere euthys si oppone altresì alle alterazioni prodotte dalla molteplicità e dal mescolamento. Da questo punto di vista, che alēthēs sia diritto, che l’alētheia (la verità) sia anche una rettitudine, deriva direttamente dal fatto che la verità non è dissimulata: che è priva di molteplicità e di commistioni. Si dirà pertanto con grande naturalezza che una condotta, un modo di fare sono alētheis nella misura in cui sono diritti, conformi alla rettitudine, conformi a ciò che deve essere. Vi è infine il quarto senso, il quarto valore del termine alēthēs: è alēthēs ciò che esiste e si mantiene al di là di ogni cambiamento, ciò che si mantiene nell’identità, nell’immutabilità, nell’incorruttibilità. Questa verità non dissimulata, non mescolata, diritta, si mantiene inalterata, nella sua identità immutabile e incorruttibile, proprio per il fatto che è senza deviazioni, senza dissimulazioni, senza commistioni, senza curvature né perturbazioni (è una verità davvero diritta).

Ecco, molto schematicamente, quattro valori essenziali che si possono ritrovare nei termini alēthēs e alētheia. Vi sarà chiaro allora che questa nozione di verità (con il suo campo di significati e con i suoi differenti valori ripartiti su questi quattro assi) è applicabile a ben altro che a delle proposizioni o a degli enunciati. Questa nozione di verità intesa come il non dissimulato, il non

mescolato, il diritto, l’immobile e l’incorruttibile, è applicabile nei suoi quattro significati oppure, in ognuno di loro, a dei modi d’essere, di fare, di comportarsi o a delle forme d’azione. Questa nozione di verità con i suoi quattro significati viene inoltre applicata al logos stesso: al logos inteso non come proposizione, come enunciato, ma come una maniera di parlare. Il logos alēthēs non è soltanto un insieme di proposizioni che risultano esatte e che possono ricevere valore di verità. Il logos alēthēs è anche un modo di parlare in cui, in primo luogo, niente è dissimulato; in cui, in secondo luogo, né il falso, né l’opinione, né l’apparenza vengono a mescolarsi con il vero; in terzo luogo, è un discorso diritto, un discorso che è conforme alle regole e alla legge; l’alēthēs logos è infine un discorso che rimane il medesimo, che non cambia, non si corrompe né si altera, e non può in nessun caso essere vinto, né rovesciato, né rifiutato.

Ma voi capite anche come e perché queste stesse parole, alēthēs e alētheia, possono essere applicate a qualcosa di diverso dal logos. C’è almeno un dominio in cui l’applicazione di questa qualificazione di alēthēs ha avuto una grande importanza. Conviene forse, almeno a titolo di invito, soffermarsi un attimo per riflettervi, perché questa qualificazione della verità avrà senz’altro un’importanza considerevole nella cultura occidentale. Si tratta della nozione di alēthēs erōs (l’amore vero). L’amore vero – nozione strana, singolare, certamente capitale nella filosofia platonica, ma in generale nell’etica greca – che cos’è in effetti? Ebbene, nell’amore vero si ritrovano precisamente i valori di cui vi ho appena parlato. Il vero amore è, in primo luogo, quello che non dissimula, e non dissimula in due sensi. Innanzitutto perché non c’è niente da dissimulare. Non ha niente di vergognoso che debba essere nascosto. Non cerca l’ombra. Accetta di manifestarsi, ed è tale da poter accettare di farlo, sempre davanti a testimoni. È anche un amore che non dissimula i propri fini. Il vero amore dovrebbe essere, di per se stesso, l’autentico obiettivo, senza che si cerchi mai di ottenere dal destinatario di questo sentimento qualcosa che gli sia stato nascosto. È senza astuzia, senza raggiri verso il partner. Non si nasconde agli occhi dei testimoni, e nemmeno agli occhi del proprio partner. L’amore vero è un amore senza dissimulazione. In secondo luogo, l’amore vero è un amore senza commistioni, ovvero senza commistioni tra piacere e dispiacere. Inoltre è un amore in cui non si mescolano piacere sensuale e amicizia delle anime. È quindi, in tal misura, un amore puro in quanto privo di mescolanze. In terzo luogo, l’amore vero (alēthēs erōs) è un amore conforme a ciò che è retto, a ciò che è giusto. È un amore diretto (euthys). Non ha niente che vada contro le regole e i costumi. Il vero amore è infine un amore che non è mai sottomesso al cambiamento o al divenire. È un amore incorruttibile che rimane sempre identico.

[…]

Oggi vi parlerò della vita cinica, del bios kynikos in quanto vera vita. Come avevo cercato di mostrarvi l’ultima volta, quello che in fondo mi sembra difficile e al tempo stesso importante da capire, nel cinismo, è il seguente paradosso, che in se stesso appare abbastanza semplice. Da un lato il cinismo si presenta come un insieme di caratteri comuni a molte filosofie dell’epoca (vi è una certa banalità nelle tesi proposte, nei princìpi consigliati); dall’altro lato è segnato da uno scandalo che non ha mai cessato di accompagnarlo, da una riprovazione che lo circonda, da una miscela di canzonature, repulsioni e timori con cui si è reagito alla sua presenza e alle sue manifestazioni. Il cinismo è stato considerato come un fenomeno al tempo stesso molto familiare e comunque strano nel paesaggio della filosofia, del pensiero, della società greco-romana e lungo tutta la sua storia: dall’epoca ellenistica fino all’inizio del cristianesimo. È stato ordinario, banale e inaccettabile. Si potrebbe insomma dire che molti filosofi di rilievo si sono riconosciuti abbastanza facilmente nel cinismo e ne hanno dato un’immagine positiva. Lo confermano numerose testimonianze presenti in alcuni testi importanti. Ricordatevi di Seneca, che con il supporto di citazioni e di riferimenti presenta il ritratto di Demetrio il Cinico, da lui considerato uno dei più importanti filosofi dell’epoca.

Ricordatevi di Epitteto, che nella Diatriba 22 del libro III delle Diatribe presenta il famoso ritratto del cinico ideale, ritrovando anche nei suoi avversari dichiarati gli aspetti positivi di una certa forma di cinismo. Giuliano, nel momento stesso in cui critica il cinismo, lo rivendica come un atteggiamento universale di ogni filosofo: un atteggiamento presente fin dall’origine della filosofia. Lo stesso dicasi per Luciano: malgrado le sue critiche molto violente rivolte non solo a un cinico come Peregrino, ma praticamente a tutti i filosofi, egli ci presenta un ritratto positivo di Demonatte.

Nello stesso momento in cui i filosofi si riconoscono così facilmente nel cinismo, se ne smarcano molto violentemente attraverso una caricatura ripugnante. Lo presentano come una sorta di alterazione inaccettabile della filosofia. Per la filosofia antica, il cinismo giocherebbe, in qualche modo, il ruolo di uno specchio infranto. Specchio infranto dove ogni filosofo può e deve riconoscersi, nel quale può e deve riconoscere l’immagine stessa della filosofia: il riflesso di ciò che è e di ciò che dovrebbe essere, il riflesso di ciò che lui stesso è e di ciò che vorrebbe essere. Al tempo stesso, egli coglie in questo specchio come una smorfia, una deformazione violenta, brutta, sgraziata, nella quale non potrebbe in nessun modo riconoscersi né riconoscere la filosofia. Tutto questo per dire, molto semplicemente, che il cinismo è stato percepito, credo, come la banalità della filosofia: ma la sua banalità scandalosa. Il cinismo ha trasformato in uno scandalo questa filosofia, assunta, praticata, vestita con l’abito della sua banalità.

Per concludere, dirò che in fondo il cinismo mi sembra rappresentare, nell’antichità, una sorta di eclettismo a rovescio. Voglio sostenere che, se si definisce eclettismo la forma di pensiero, di discorso e di scelta filosofica che mette assieme i caratteri più comuni e più tradizionali delle diverse filosofie di un’epoca, è per poterli, in linea generale, rendere accettabili a tutti; è per farne i princìpi organizzativi di un consenso intellettuale e morale. In linea generale, è questa la definizione dell’eclettismo. Dirò dunque che il cinismo è un eclettismo a rovescio: eclettismo, perché riprende alcuni dei tratti fondamentali rintracciabili nei filosofi che gli sono contemporanei; a rovescio, perché fa di questa ripresa una pratica del rovesciamento, che ha instaurato nella pratica filosofica non certo un consenso, ma al contrario un’estraneità, un’esteriorità e persino un’ostilità e una guerra.

Gli elementi più comuni della filosofia il cinismo li ha trasformati – questo il suo paradosso – in altrettanti punti di rottura per la filosofia stessa. È ciò che dovremo cercare di capire: come il cinismo può dire in fondo quello che dicono tutti e rendere inammissibile il fatto stesso di dirlo? Questo paradosso del cinismo, se così possiamo caratterizzarlo, merita un po’ di attenzione per due ragioni. La prima è che permette di restituire il cinismo a questa storia, o a questa preistoria, che volevo tratteggiare durante l’anno: quella del coraggio della verità. Il cinismo, mi sembra, fa apparire sotto una nuova luce, dà una nuova forma a questo grande vecchio problema, insieme politico e filosofico, del coraggio della verità, così importante in tutta la filosofia antica. Si potrebbe delineare molto schematicamente il seguente abbozzo.

Abbiamo incontrato il problema del coraggio della verità, che avevo cercato di studiare l’anno scorso, in primo luogo nella forma di quella che potremmo chiamare l’audacia politica, ossia il coraggio del democratico o, meglio ancora, la prodezza del cortigiano; entrambi dicono, all’Assemblea nel caso del democratico o al Principe nel caso del cortigiano, cose diverse da quelle

pensate dall’Assemblea o dal Principe. Ed è contro l’opinione di questo Principe o di questa Assemblea e per affermare la verità che l’uomo politico, se è coraggioso, rischia la vita. Troviamo qui, molto schematicamente, la struttura di quella che potremmo chiamare l’audacia politica del dire-il-vero.

Abbiamo incontrato una seconda forma di coraggio della verità. L’avevo un po’ abbozzata l’anno scorso. L’ho ripresa quest’anno. Quest’altra forma non è più l’audacia politica, ma ciò che potremmo definire l’ironia socratica, che consiste nel far dire alle persone – nel far loro riconoscere progressivamente – che quanto dicono e credono di sapere in realtà non lo sanno. In questo caso, l’ironia socratica consiste nel rischiare la collera, l’irritazione, la vendetta, persino il processo, per condurre certe persone, contro la loro volontà, a preoccuparsi di loro stesse, della loro anima e della verità. Nel caso più semplice, quello dell’audacia politica, si trattava di opporre a un’opinione, a un errore, il coraggio del dire-il-vero. Nel caso dell’ironia socratica, si tratta di insinuare, all’interno di un sapere che queste persone non sanno di sapere, una certa forma di verità che le porterà a curarsi di loro stesse.

Con il cinismo abbiamo una terza forma di coraggio della verità, diversa dall’audacia politica e anche dall’ironia socratica. Il coraggio cinico della verità consiste in questo: riuscire a far sì che gli uomini condannino, respingano, disprezzino, insultino la manifestazione stessa di ciò che essi ammettono, o pretendono di ammettere, sul terreno dei princìpi. Si tratta di affrontare la loro collera dando loro l’immagine di ciò che ammettono e al tempo stesso valorizzano sul terreno del pensiero ma rigettano e disprezzano nell’ambito della loro stessa vita. È questo lo scandalo cinico. Dopo l’audacia politica, dopo l’ironia socratica, avremmo, se volete, lo scandalo cinico.

Nei primi due casi, il coraggio della verità consiste nel rischiare la propria vita dicendo la verità, per dire la verità, perché si dice la verità. Nel caso dello scandalo cinico – ed è ciò che mi sembra importante e merita di essere isolato e tenuto a mente – si rischia la propria vita non solo dicendo semplicemente la verità, non solo per dire la verità, ma anche per il modo in cui si vive. In tutti i significati del verbo francese, si “espone” la propria vita. Vale a dire che la si mostra e la si rischia. La si rischia mostrandola, ed è perché la si mostra che la si rischia. Si “espone” la propria vita non attraverso i propri discorsi, ma attraverso la propria vita. È questo il primo aspetto per cui è necessario tenere presente, nella sua stessa struttura, lo scandalo cinico, che risuona sempre nel quadro del grande tema: avere il coraggio della verità; si tratta però di un coraggio che ci spinge a giocare in maniera differente rispetto al coraggio politico e all’ironia socratica.

La seconda ragione per soffermarsi brevemente sul problema della vita cinica è la seguente: in questa pratica cinica, in questo scandalo cinico, la domanda che in fondo il cinismo non ha mai smesso di porre alla filosofia antica, a quella cristiana e a quella moderna – una domanda permanente, difficile e sempre imbarazzante – è quella relativa alla vita filosofica, al bios philosophikos. Se riprendiamo il problema e il tema del cinismo a partire da questa grande storia della parrēsia e del dire-il-vero, si può affermare che, mentre tutta la filosofia tende sempre più a porre la questione del dire-il-vero nei termini delle condizioni che permettono di riconoscere un enunciato come vero, il cinismo è invece un tipo di filosofia che non smette di porre la domanda: quale può essere la forma di vita adeguata alla pratica del dire-il-vero?

[…]

Potremmo forse chiarire il significato di questa formula ricordando la caratterizzazione che i cinici sembrano aver dato di loro stessi quando hanno commentato l’attributo che si erano assegnati: quello di “cane”. A proposito delle ragioni per le quali Diogene era stato chiamato “il cane” ci sono diverse interpretazioni. Alcune sono di ordine locale: sarebbe a causa del luogo scelto

da Diogene come domicilio. Secondo altre interpretazioni, è perché effettivamente avrebbe condotto una vita da cane. Tacciato come cane dagli altri, avrebbe rivendicato questo epiteto e si sarebbe proclamato cane. Anche qui, conta poco l’origine della formula. Il problema è sapere quale valore abbia ricevuto e come la si sia fatta funzionare in quella tradizione cinica che è attestata nel I secolo della nostra era.

Troviamo in un commentatore di Aristotele – ma altri autori vi fanno riferimento – la seguente interpretazione, che sembra essere stata canonica, riguardo a questo bios kynikos. Principalmente, la vita kynikos è una vita da cane, nel senso che è senza pudore, senza vergogna, senza rispetto umano. È la vita di chi fa in pubblico e davanti agli occhi di tutti ciò che solo i cani e gli animali osano fare, e che gli uomini normalmente nascondono. La vita da cinico è una vita da cane in quanto vita impudica. In secondo luogo, la vita cinica è una vita da cane perché, come quella dei cani, è indifferente. Indifferente a tutto ciò che può succedere, essa non è legata a nulla; si accontenta di quello che ha e non esprime altri bisogni all’infuori di quelli che può soddisfare immediatamente.

In terzo luogo, la vita dei cinici è una vita da cani e ha ricevuto questo epiteto kynikos perché in qualche modo è una vita che abbaia, una vita diacritica (diakritikos), ossia una vita capace di battersi, di abbaiare contro i nemici, di distinguere i buoni dai cattivi, i veri dai falsi, i maestri dai nemici. In questo senso è una vita diakritikos: vita di discernimento, che sa fare le prove, che sa testare e distinguere. In quarto luogo, infine, la vita cinica è phylaktikos. È una vita da cane da guardia, che sa sacrificarsi per salvare gli altri e per proteggere l’esistenza dei maestri. Vita di impudicizia, vita adiaphoros (indifferente), vita diakritikos (diacritica, che esprime differenza e discriminazione: vita in qualche modo abbaiante), e vita phylaktikos (vita di chi protegge, vita da cane da guardia).

In questi quattro caratteri – anch’essi canonici, nobili, distintivi: caratteri designati da termini che la tradizione attribuisce ai cinici – non è difficile riconoscere, come vedete, una stretta parentela con i termini che cercavo di individuare la volta scorsa per una definizione tradizionale della vera vita. In fondo, la vita cinica è insieme l’eco, la continuazione, il prolungamento ma anche il passaggio al limite e il rovesciamento della vera vita (una vita non dissimulata, indipendente, diritta: una vita di sovranità). Cosa è la vita impudica se non la continuazione, la prosecuzione, ma anche il rovesciamento e l’inversione scandalosa della vita di chi non dissimula? Questo bios alēthēs, questa vita nell’alētheia, ricordate, è una vita priva di dissimulazione, che non cela nulla: una vita nella quale non si ha vergogna di nulla. Ebbene questa vita, al limite, è la vita svergognata del cane cinico. La vita indifferente, adiaphoros, di chi non ha bisogno di nulla, di chi si accontenta di ciò che ha, di ciò che incontra, di ciò che gli si butta addosso: ebbene, questa vita non è nient’altro che la continuazione, il prolungamento, il passaggio al limite, l’inversione scandalosa della vita senza commistione, della vita indipendente, che era uno dei caratteri fondamentali della vera vita. La vita diacritica, questa vita abbaiante che permette di distinguere tra il bene e il male, tra gli amici e i nemici, tra i maestri e gli altri, è la continuazione ma anche il capovolgimento scandaloso, polemico e violento della vita diritta, della vita che obbedisce alla legge (al nomos). Infine, la vita del cane da guardia – una vita di combattimento e di servizio che caratterizza il cinismo – è a sua volta la continuazione e il capovolgimento della vita tranquilla, padrona di sé: della vita sovrana che caratterizza la vera esistenza.

Cercherò tra poco di sviluppare questi temi in modo più preciso. Ciò su cui vorrei insistere ora è che, come vedete, questa alterazione della moneta, questo cambio del suo valore, così costantemente associato al cinismo, vogliono forse dire qualcosa di simile: alle forme e alle abitudini che contraddistinguono ordinariamente l’esistenza e le danno forma si tratta di sostituire l’effigie dei princìpi tradizionalmente ammessi dalla filosofia. Per il fatto che applichiamo questi stessi princìpi alla vita, invece di mantenerli semplicemente nell’elemento del logos – per il fatto che questi stessi princìpi informano la vita come l’effigie di una moneta informa il metallo su cui è impressa –, facciamo apparire, conseguentemente, le altre vite, le vite degli altri, come se non fossero nulla di più di una falsa moneta, di una moneta senza valore. Riprendendo questi princìpi più tradizionali che accettiamo per convenzione, che sono poi i princìpi più generali della filosofia corrente, mettiamo in circolazione, attraverso la vita cinica, la vera moneta col suo vero valore: e questo per il semplice fatto che a tali princìpi forniamo, attraverso l’esistenza stessa del filosofo, un punto di applicazione, un luogo di manifestazione, una forma di veridizione. Il gioco cinico rende manifesto il fatto che la vita capace di mettere davvero in pratica i princìpi della vera vita è altra cosa rispetto all’esistenza degli uomini in generale, e dei filosofi in particolare. Credo che con quest’idea che la vera vita sia la vita altra si arrivi a un punto particolarmente importante nella storia del cinismo, nella storia della filosofia e certamente nella storia dell’etica occidentale.

In effetti, se ammettiamo che il cinismo sia proprio quel movimento attraverso il quale la vita – a partire dal momento in cui vi si imprime realmente, effettivamente e veramente l’effigie della filosofia – d’un tratto diventa altro da sé, ebbene, qui siamo nel cuore di un problema importante. In questa misura, il cinismo non è stato in realtà solo la forma di richiamo insolente, grossolano e rudimentale alla questione della vita filosofica. Ha sollevato una questione molto seria, o piuttosto, mi sembra, ha dato il suo taglio al tema della vita filosofica ponendo la seguente domanda: la vita, per essere veramente vita di verità, non deve forse essere una vita altra, una vita radicalmente e paradossalmente altra?

Radicalmente altra: cioè in rottura totale, da tutti i punti di vista, con le tradizionali forme di esistenza, con l’esistenza filosofica abitualmente accettata dai filosofi, con le loro abitudini, con le loro convenzioni. La vera vita non sarà una vita radicalmente e paradossalmente altra proprio per il fatto che metterà in pratica i princìpi più comunemente ammessi nella pratica filosofica comune? La vita di verità non è forse, non deve forse essere, una vita altra? È una domanda di grande valore filosofico e di ampia portata storica. Si potrebbe probabilmente dire – perdonate, anche qui, lo schematismo: sono ipotesi, schizzi, lineamenti, possibilità di lavoro – che la filosofia greca, a partire da Socrate, ha in fondo sollevato, con e per il platonismo, la questione dell’altro mondo. Ma ha posto anche, a partire da Socrate o dal modello socratico al quale si riferiva il cinismo, un’altra questione. La questione non dell’altro mondo ma della vita altra. Mi sembra in fondo che l’altro mondo e la vita altra siano stati i due grandi temi, le due grandi forme, i due grandi limiti entro cui la filosofia occidentale non ha mai cessato di svilupparsi.

Forse potremmo proporre il seguente schema. Ricordatevi di Eraclito che, rifiutando di condurre la vita solenne, maestosa, isolata e ritirata del saggio, andava tra gli artigiani, si sedeva e si riscaldava accanto al forno del panettiere dicendo, a coloro che si stupivano e si indignavano: kai enthauta theous (ma anche qui ci sono degli dèi). Eraclito concepì una filosofia, una pratica filosofica, un filosofare che trovano il loro compimento nel principio del kai enthauta theous (anche qui ci sono degli dèi, persino nel forno del panettiere). Il filosofare si realizza nel pensiero del mondo e nella forma della vita.

Soltanto con la cura socratica di sé, con questa epimeleia heautou di cui vi parlo da molto tempo, vediamo delinearsi due grandi linee evolutive lungo le quali si svilupperà la filosofia occidentale. Da un lato queste linee di sviluppo hanno il loro punto di partenza nel testo dell’Alcibiade, come avevano riconosciuto tutti i neoplatonici. La cura di sé solleverà la seguente questione: di quale tema, visto nella sua verità e nel suo essere specifico, dovremo occuparci? Che cos’è questo “io”, questo “sé” di cui bisogna prendersi cura? Sono le domande che si incontrano nell’Alcibiade: la risposta fornita da questo dialogo ci fa scoprire che bisogna prendersi cura dell’anima: è l’anima che bisogna contemplare. E di fronte allo specchio dell’anima che contempla se stessa, cosa si scopre? Il mondo puro della verità: questo mondo altro che è quello della verità, al quale bisogna aspirare. Proprio in questa misura – a partire dalla cura di sé, attraverso l’anima e la sua autonoma contemplazione di se stessa –, l’Alcibiade fonda il principio dell’altro mondo e segna le origini della metafisica occidentale.

Dall’altro lato – ancora e sempre a partire dalla cura di sé, ma assumendo questa volta come luogo d’origine non più l’Alcibiade bensì il Lachete – la cura di sé non apre il problema di sapere cos’è nella sua realtà e nella sua verità l’essere di cui devo occuparmi; apre invece il problema di sapere cosa deve essere tale cura e cosa deve essere una vita che pretende di preoccuparsi di se stessa. E da qui prende il via non il movimento verso l’altro mondo, ma l’interrogazione attorno a quella che in verità deve e può essere, in rapporto a tutte le altre forme di esistenza, la vita che si prende realmente cura di sé. Alla questione dell’arte del vivere e del modo di vivere, quest’altra linea di sviluppo assegna, se non l’origine, almeno il fondamento filosofico. Su tale linea non incontriamo il platonismo e la metafisica dell’altro mondo, ma il cinismo e il tema della vita altra. Queste due linee di sviluppo – di cui la prima tende all’altro mondo e la seconda alla vita altra, entrambe a partire dalla cura di sé – sono ovviamente divergenti, poiché l’una porta alla speculazione platonica, neoplatonica e alla metafisica occidentale, mentre l’altra non porta a niente di più, in un certo senso, che alla rozzezza cinica. Ma tale rozzezza rilancia, come questione insieme centrale e marginale rispetto alla pratica filosofica, la questione della vita filosofica e della vera vita come vita altra. La vita filosofica – la vera vita – non può, non deve essere necessariamente una vita radicalmente altra?

Non bisogna pensare che queste due grandi linee divergenti – fondatrici, credo, di tutta la pratica filosofica occidentale – siano state completamente e definitivamente estranee l’una all’altra. Dopotutto, anche il platonismo ha posto la questione della vera vita sviluppando il tema dell’esistenza altra. E abbiamo visto, per l’appunto, che il cinismo poteva perfettamente stabilire un dialogo, combinarsi e alimentarsi con speculazioni filosofiche abbastanza estranee alla sua tradizione rozza, rudimentale e grossolana. C’è stata dunque una continua interferenza tra due linee divergenti. E bisogna anche tenere conto del fatto – capitale nella storia della filosofia, della morale e della spiritualità occidentali – che il cristianesimo, ma anche tutti i filoni di pensiero gnostico che gli sono cresciuti attorno, sono stati movimenti che hanno appunto cercato di pensare in modo sistematico e coerente il rapporto tra l’altro mondo e la vita altra. Nei movimenti gnostici e nel cristianesimo si è cercato di pensare la vita altra la vita di rottura, la vita ascetica, la vita che non ha niente in comune con l’esistenza ordinaria come condizione per l’accesso all’altro mondo. Questo rapporto tra la vita altra e l’altro mondo – così profondamente caratterizzato, nel cuore stesso dell’ascetismo cristiano, dal principio secondo cui la vita altra condurrà all’altro mondo – verrà messo radicalmente in discussione dall’etica protestante e da Lutero, secondo cui l’accesso all’altro mondo sarà possibile grazie a una forma di vita assolutamente conforme ai caratteri del nostro mondo ordinario. Vivere la vita di sempre per arrivare all’altro mondo: è questa la formula del protestantesimo. Ed è a partire da qui che il cristianesimo è diventato moderno.