Come tutte le carriere che si sbriciolano, il mio fallimento nel mondo della danza è stato un progressivo inabissarsi, fino all’ipogeo attuale. Il transito dalle selezioni di Amici – scartato dalla Celentano perché chiamai “brisé” il plié, o forse perché avevo i frisé, – al videoclip di Tropicana di Annalisa e i Boomdabash – le scene di ballo sugli yatch, sono quello sott’acqua senza maschera che prova a disincagliare le ancore: momenti di apparente successo alternati a crolli, crolli, crolli. Anyway, come amava ripetere Luca Tommassini durante il webinar “Danzare sulle rovine del mondo o almeno sulle briciole del tuo budino di riso”, la dea della danza Heather Parisi dovrà pure credere in me, se stamani mi è squillato il telefono e una voce metallica mi ha detto: “incarico da coreografo, 150€ al mese, no buoni pasto, presentarsi oggi ore 15 davanti al Conad Sapori e Dintorni di Piazza Stazione”. “Borgo San Lorenzo?”. “Milano”. “Certo, Milano”. Sempre Milano, è un’ossessione.
Stiro i pantaloni di Dimensione Danza, ci salto dentro e monto sul primo Italo, forse non in quest’ordine, non me lo ricordo, troppa emozione. Arrivo a Milano, corro al Conad e trovo un furgoncino con vetri scuri parcheggiato davanti. Spettacolo, roba da celebrities, mi tremano i polpacci. Apro il portellone: Carlo Calenda, con in bocca un cotto e fontina direttamente dal sacchetto. Non è il mio mezzo, mi sa. Mi giro, e infatti vedo un signore accanto a un SH con in mano un casco integrale. “Maestro Berti?”, mi dice con voce metallica. “Va bene Ubaldo”. “Mettiti il casco, Ubaldo”. “No, intendevo va bene Maestro Ubaldo”. “Mettiti il casco”. “Subito”.
La visiera è annerita. Scarabocchiata a pennarello. Comunque funziona: non ci vedo niente. Ma sento che andiamo forte, sicché mi aggrappo al giubbotto di pelle dell’autista. Con le mani nelle sue tasche, riconosco un pacchetto di Tic Tac, un mazzo di chiavi, un Tamagotchi, due fazzoletti di stoffa, uno asciutto, l’altro meno. Tre, quattro rotonde, un paio di inchiodate, poi scendiamo una rampa e si alza un bandone. “Arrivati, scendi pure”. Faccio per togliere il casco. “Ancora no”, mi dice. E mi afferra per un braccio. Percorriamo un corridoio, porta che sbatte, torniamo indietro perché ha dimenticato lo yogurt nel sottosella, ancora il corridoio, la porta, ci siamo. “Vai, ora te lo puoi levare”.
Stanza con pareti soffitto pavimento neri. Nel mezzo uno sgabello, illuminato dall’alto. Sento dei passi. Mi giro. “Maestro Berti?”. Annuisco. “Piacere, Fabrizio”. Un bell’uomo, occhiali con montatura spessa, alto, abbronzato, posa e stretta di mano intimidatorie. Dietro di lui quattro assistenti, che lo guardano adoranti. Dev’essere famoso. Fabrizio Bentivoglio? Non mi pare. Fabrizio Del Noce? No, Del Noce è ancora più bello. Chi c’è di famoso che si chiama Fabrizio? Martufello, all’anagrafe. Me lo figuro vestito da Pippo Baudo. Dev’essere Martufello. Intanto si è seduto. “Dunque, tu sei il ballerino”. “In realtà”, gli dico, “da quando m’è venuta la borsite al calcagno faccio solo coreografie perché se ballo…”. “Esatto”. Mi punta l’indice nello sterno, poi alza lo sguardo con le mani in preghiera, il proiettore lo abbaglia, sbatte le palpebre, gli occhiali intanto gli si scuriscono. Lenti fotocromatiche: classe. “Esatto”, ripete.
Trascina lo sgabello e mi si avvicina. “David Letterman, Jay Leno, Simona Ventura, Jimmy Fallon. Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Luisella Costamagna, Tiziano Terzani. Conduttori, giornalisti, star. Mettili insieme, frullali, e cosa ottieni?”. Lo guardo. “Ottieni Giovanni Floris. Oppure il sottoscritto”. Lo seguo. “Ora: sono tre mesi che guardo tutte le repliche di Ballarò. Nottate davanti alla televisione a domandarmi: cosa mi distingue, da Giovanni Floris? Che cosa so fare che a lui non riesce? In che modo tracciare un solco tra me e il principe dell’infotainment? Entrambi nella notizia, entrambi mesmerizziamo l’audience, entrambi traspiriamo machismo. Ieri, finalmente, l’ho capito. Floris non sa ballare”. Dà una pedata allo sgabello, si mette le cuffie, raggiunge il centro della stanza e comincia ad agitarsi. Io e i suoi assistenti lo guardiamo. Si direbbe che stia ballando, nel silenzio totale, e la canzone dev’essere One Step Beyond dei Madness, o l’Estate sta finendo, perché ogni tanto mugugna un riff a sassofono, intervallato dai fischi delle New Balance che slittano sul gres. Va avanti per tre minuti. Cade due volte, perde una cuffia, gli occhiali da scuri tornano chiari e poi di nuovo scuri.
Quando ha finito e gli applausi si sono spenti si riavvicina. “Allora, lo spacchiamo in due o no, Giovannino Floris?”. Ride. Rido. Ansima. Ansimo. “Ascolta: ho pronto questo nuovo format, a metà tra il videopodcast e il one man show, non saprei ancora come definirlo, già registrate le prime puntate, mancano solo il titolo e la sigla. E la sigla, dammi retta: se la facciamo ballata svoltiamo sicuro”. Altro applauso. Tutti entusiasti. Gente si versa la Coca Cola, aprono pacchetti di patatine. Io invece vedo un problema: Floris, in realtà, balla meglio. Lo so bene, perché anche lui aveva avuto un’idea per una sigla coreografata, poi abortita perché non gli davano i diritti di We Will Rock You. Balla meglio, molto. Qui però nessuno sembra accorgersene, anzi, grossi elogi e apprezzamenti mentre gli asciugano il sudore e gli piazzano un Compeed sull’alluce. Nel dubbio, cerco di divagare, e domando se possono farmi vedere qualcosa di registrato, per farmi un’idea, per prendere spunto.
Fabrizio si allontana: è a telefono con Massimo Giletti. Intanto uno degli assistenti mi allunga un iPad, su cui trascorro i successivi 40 minuti a sbalordirmi. Vedo la perfezione: tono, montaggio, registro. Non ho idea di chi siano gli intervistati, non mi interessano le vicende trattate. Tuttavia, più guardo e più vengo inghiottito, avviluppato da un senso di estrema confidenzialità, mi sembra di assistere a un disvelamento messianico, sullo sfondo scuro dell’inquadratura si delineano i paradigmi di una nuova epistemologia. Il mondo, da questa prospettiva, è un mondo nuovo. Un mondo che non conosco, no: ma un mondo abitato dalla verità.
“Fabrizio”, gli dico. Non mi sente, ha di nuovo le cuffie. Urlo. “Fabrizio”. “Dimmi”. “Fabrizio, io non penso tu ne abbia bisogno, di una sigla ballata intendo dire. Qui mi sembra che tu abbia trovato un nuovo modo di fare notizia, è qualcosa di rivoluzionario: la contro-informazione, il senso di uno contro tutti, la guerra alla menzogna. E il personaggio, perfetto: timbro da prete confessore, finti inciampi fono-articolatori, accenti sensazionalistici sulle sillabe sbagliate, proporzionalità indiretta tra rilevanza dell’assunto e bisbiglio. Anche l’aspetto, sprezzatura al punto giusto, la tasca dei pantaloni un po’ ribaltata, gestualità misuratissima, fogli A4 in mano per omaggiare l’ultimo Berlusconi, negli occhi la preoccupazione che la verità sia una faccenda davvero precaria. Risultato: intimità assoluta, quando il microfono frigge si entra in subbuglio. Ma poi la paratassi: in quaranta minuti avrò contato quattro subordinate e settanta interrogative retoriche, è il linguaggio di tutti. Devo essere sincero: il Bagaglino faceva pena, ma qui si entra in una nuova era, ti sei inventato una roba incredibile. Senti, io il ballo lo lascerei perdere, non mi sembra tu sia troppo portato. Ma per il resto, un gigante. Tra l’altro sei anche dell’Inter, non lo sapevo, sarà un personalismo ma…”.
Scoppia a piangere. Cerca il riflettore per annerire le lenti, vuole nascondere gli occhi, non ci riesce: lacrime a secchiate. Singhiozzi. “Fabrizio, perché piangi, non mi pare il caso”. Provo ad avvicinarmi, ma non faccio in tempo ad avanzare che l’autista mi acchiappa per l’elastico dei pantaloni, mi immobilizza e mi rinfila il casco integrale. Mi sa che ho sbagliato. Provo a divincolarmi, ritratto, dico che magari si potrebbe pensare qualcosa con lo sgabello, tipo Britney nel video di Stronger. Niente, mi trascinano fuori. Mentre struscio per il corridoio, Martufello continua a piangere. Mugola, sussulta. Gli assistenti provano a consolarlo. “Non sono portato?”, chiede. “È vero che non sono portato?”.
“Ma no, Fabrizio, non dargli retta a questo idiota, sei una farfalla”.
“Ma che c’entra il Bagaglino?”.
“Ma che ne so, è un povero pazzo”.
“Mi ha detto di lasciare perdere, dice non sono portato”.
“Non stare a sentire, Fabrizio, è falso”.
“Falso?”.
“Falsissimo”.
“Falsissimissimo?”.
“Falsissimissimo, sì”.