La legittimazione è ciò che trasforma le eversioni in norma, le rivolte in rivoluzioni, le rivendicazioni sindacali in piani quinquennali. L’accademia è l’industria culturale che sforna brevetti di legittimità. È la morte del pensiero. È compito di ogni vero pensatore resistere alle sue lusinghe e tenersene il più alla larga possibile.
Una pessima strategia, per questo, è stata quella adottata dal wokismo. Senza entrare nel merito della questione – perché qui non giudicheremo la consistenza delle pretese woke, la legittimità del linguaggio inclusivo, la concretezza delle sofferenze di chi vive la desinenza di un articolo come uno stigma infame e soffocante – l’errore del wokismo è stato tattico. La strada perseguita è stata fin da subito quella della legittimazione dall’alto. Dopo uno svogliato passaggio attraverso la tappa obbligata dei centri sociali, è arrivata troppo presto la valanga di appelli alle accademie ed ai governi, e troppo presto è stata accolta.
Grazie a questa scelta, la cultura woke vincerà. Anzi, ha già vinto. Sono state già convinte le persone giuste. E proprio per questo scivolerà silenziosamente tra le maglie della storia. A chi interesserà, infatti, nel futuro prossimo andare a ripescare tutti gli asterischi e le ‘ɘ’ prodotte a migliaia ed esposte nelle bacheche delle più prestigiose università? Agli occhi delle prossime generazioni avranno la stessa carica eversiva che ha per noi, oggi, un trattato di 40 anni fa di qualche capopartito della DC sulla corruzione dei costumi delle giovani generazioni.
A chi verrà mai in mente di romanticizzare la storiografia del wokismo e consegnarla all’eternità della storia controculturale, se da quando è nata ha trovato quasi subito rifugio nelle accademie e nelle università? Quale movimento storico e culturale ha mai avuto il plauso immediato dei centri di potere culturale? Metà dei movimenti artistici della storia prendono il loro stesso nome da un critico che ha cercato di stroncarli sul nascere, e acquistano vigore e slancio in proporzione all’ostilità delle istituzioni e delle scuole affermate. Tutto ciò che è realmente nuovo e rivoluzionario non può che nascere dalle ceneri di quel che lo precede.
Chi vorrà mai, nel futuro, mettersi i propri figli sulle ginocchia e raccontargli, romanticizzandoli, di questi anni di piombo del linguaggio? Alle assemblee inclusive o sui banchi dei corsi di gender studies non si respira affatto libertà, dialogo, apertura. Chiunque vi sia stato può testimoniarlo. Le orecchie dei presenti sono tutte accordate all’unisono e la delazione è raccontata come coraggio o sensibilità. Ogni deviazione è severamente criticata, fa perdere punti militanza o mette a rischio promozioni. A colpi di rivendicazioni vendicative e shitstorm, si è ottenuto solo che, dove impera il linguaggio inclusivo, l’aria, prevedibilmente, ha iniziato a puzzare di merda.
Certo, si potrebbe argomentare che viviamo oggi in un periodo di flessione, di inversione di tendenza. È la piccola controriforma delle destre oggi al potere, abbiamo una donna a capo del governo che si fregia di titoli maschili in piagniucolosa ostilità al wokismo e alle sue storture. Ma è una storia che abbiamo già visto: il progressismo, tarato sulla scorza fermamente individualista della nostra cultura, è inarrestabile. È solo questione di tempo. Tratteremo nel giro di una generazione il linguaggio identitario e il proibizionismo delle droghe, capisaldi di una destra naufragata nella modernità, come oggi trattiamo l’illegalità del divorzio o il suffragio maschile. E sarà in larga misura una conquista.
Ma non ci ricorderemo della “contro-”cultura woke. Perché non vorremo farlo. Tireremo al massimo un sospiro di sollievo per avere azzeccato abbastanza pronomi da non esserci compromessi la carriera. Finiremo invece per ricordarci di quei pochi luoghi in cui si poteva parlare liberamente, e che tanto meno sarà intollerante il totalitarismo woke tanto meno tenderanno ad assomigliare agli studi radiofonici de La Zanzara o ai deliri sgrammaticati di qualche funzionario frustrato.