Christian Raimo è il peggior nemico del femminismo. Checché ne pensi il prof. con tutta la sua buona volontà, quella faccia seriosa ma paffutamente accogliente, le lezioni ispirate al liceo, la sua ubiquità ai cortei di NUDM, Raimo rimane uno dei tanti bolscevichi del femminismo, dei professionisti della rivoluzione. Il suo caso specifico, suo malgrado, sconta il limite ontologico di avere un pene. La sua retorica, di conseguenza, si arresta sulla soglia del ridicolo, e con malcelata invidia è costretto a farsi da parte. Nei soviet femministi la sua parola – per quanto posata, colta e sagace – varrà sempre meno di quella di una donna, anche la più irruente e sgrammaticata, ed è bene che sia così. Non vale lo stesso per le varie Cortellesi, Murgia, Schlein, Gruber e soprattutto per le tantissime influencer che, con malizia e calcolo, ma anche con una sacrosanta dose di ingenuità, gettano in pasto allo spettacolo il femminismo, introducendolo nel dibattito e consegnandolo alla storia.
Forse non se ne rendono conto, abbagliate dagli schermi e dai riflettori, ma la donna è oggi l’equivalente di quello che era il proletario fino a 50 anni fa. La donna per il femminismo è ciò che il proletario era per la classe intellettuale, politica e sindacale di un tempo. Certo il proletario poteva essere definito e individuato, aveva una classe di appartenenza, era l’oppresso lavoratore che aliena la sua forza lavoro perché escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione. Ma non è questa la sua caratteristica saliente, il proletario aveva anche delle caratteristiche mistico-escatologiche. Poiché oppresso dal capitale e dai padroni era legittimato alla rivolta, anche violenta, al fine di prendere in mano il potere e la proprietà e distribuire entrambi universalmente, estirpando alla radice la possibilità stessa dell’oppressione e dell’alienazione.
L’élite culturale, politica e sindacale del tempo, per timore dell’ingovernabilità di questa rivolta, se ne è messa a capo, dirigendola, facendosene portavoce, conducendola al compromesso con il capitale. Il proletariato del passato è stato superato non dalla rivoluzione (con annessa messa a morte dei padroni), ma con la proletarizzazione universale. Da che il proletario era il referente vuoto e puro, l’uomo futuro del mondo libero e del paradiso in terra, la propaganda sindacale, la lotta politica e la critica intellettuale della sua condizione lo hanno schiacciato sulle sue caratteristiche pietistiche. Il proletario è diventato l’umano inerme, bisognoso di guida, consiglio e assistenza sociale, incapace di darsi una prospettiva rivoluzionaria e men che meno di badare alla propria autosufficienza. Così, con estremo cinismo, si è dato al proletario con una mano quel che con l’altra gli sottraeva. La condizione deplorevole di indigenza in cui era costretto a vivere è stata elevata a una dignità posticcia, tale per cui le umili origini sono oggi diventate motivo di vanto, mentre la ricchezza, lungi dal fornire qualche sorta di privilegio, abbrutisce nell’opulenza. Al tempo stesso veniva meno qualsiasi qualità pura che si poteva associare al proletariato, che ridotto ad ennesimo strumento retorico di legittimazione perdeva ogni sincera velleità rivoluzionaria.
La donna per il femminismo è oggi a un bivio simile. Identificabile per genere, e non per classe, gode di una compattezza invidiabile. Sodalizzate nel rifiuto di una violenza e di un’oppressione che chiama in causa il mondo intero (il patriarcato che dominerebbe universalmente le relazioni del mondo occidentale), le donne oggi conservano nel segreto della loro carne un principio di violenza rivoluzionaria, per sua natura pericoloso e ingestibile. E qui entrano in gioco le femministe di professione, le sindacaliste delle donne. Il ruolo che le femministe-attiviste, le politiche le giornaliste hanno deciso di ritagliarsi all’interno di questa lotta le esclude dal loro stesso genere. Non sono più donne, infatti, le donne che professano in rete o nei libri o nei film cosa sia il femminismo, che lo riducono alla loro visione preconcetta e opportunistica del reale; o almeno lo sono tanto quanto un intellettuale di sinistra o un sindacalista, fino a qualche decennio fa, potevano essere definiti dei proletari. Sicuramente non diventano per questo degli uomini, che in questa metafora approssimativa rappresenterebbero il nemico, i padroni rispetto ai proletari. Ma pare evidente che hanno rinunciato, salendo sul palco e prendendo in mano i microfoni, a prendere parte alla lotta delle donne, mettendosene a capo.
Una sorte simile a quella del proletario, perciò, attende oggi la donna. E come la donna, così ogni coacervo di esistenze insofferenti, qualora giunga chi pretende di dare forma e contenuto a questa insofferenza, di dirigerla verso uno scopo, sia anche il più lodevole. Lo si è visto in questi giorni. Lo slogan più puro espresso dai cortei, scioccati dalla morte di Giulia Cecchettin, è stato estrapolato dalle parole della sorella: Bruciate tutto. Rivendicazione inopinabile, formula che vomita sul mondo, su tutto il mondo, il peso dei secoli di un’oppressione che si è giustificata, fino ad ora, solo sulla base della prevaricazione fisica, e che ancora oggi, sottointesa in molte delle relazioni tra uomo e donna, si riversa con ferocia sul corpo delle donne. È una rivendicazione, quella a bruciare tutto, indeterminata ma concreta, come ogni gesto puro, come ogni atto, tanto più quello rivoluzionario, che trascina con sé conseguenze imprevedibili e mette da parte i se e i ma su cui si arresta ogni volontà. Ma basta spaccare la vetrina di un pro-vita a via Labicana per vedere dove crolla la retorica delle femministe di mestiere, costrette a prendere le distanze da ogni violenza concreta (che non saprebbero come governare o influenzare). Nei giorni a seguire, non volendo rinunciare alla forza compattante di quello slogan, di quel Bruciate tutto, sono proliferate interpretazioni di compromesso, meno radicali, in chiave privata, individuale, tutto sommato concilianti. È stato il primo giorno della fine del movimento femminista.
Se le donne continueranno a prestare ascolto a chi donna non è, ma capopartito o intellettuale di regime, finirà come per il proletariato. Essere femminista diverrà un semplice requisito di base per darsi credibilità e il divenire-donna, con tutto il suo carico rivoluzionario e generativo, sarà semplicemente appiattito, ancora una volta, sulle sue caratteristiche pietistiche. Essere donna vorrà dire essere oppressa e riuscire a dimostrare di aver subito un abuso avrà lo stesso valore che ha oggi rivendicare le proprie umili origini. A godere dei benefici del femminismo sarà solo la nuova élite femminista – indifferentemente composta da uomini e donne, ed è significativo – nata dai salotti e dalle pagine di cronaca, non coinvolta nella lotta, impegnata in una costante campagna di sensibilizzazione acritica – dagli effetti controproducenti -; poiché il giorno che verranno meno l’emergenza e la crisi verrà meno, con ciò, la legittimità del suo privilegio.