Cosa ci spinge a varcare la soglia di un luogo abbandonato? A scavalcare un muro, forzare una porta, aggirare una recinsione? Questi luoghi conservano un'esperienza pura, non catalogabile, non cartografata: lo stupore del mondo prima dello Spettacolo, del suo svuotamento; il mondo abbandonato.
Articolo trafugato dal numero 19 del Bestiario

Pare che il 50% dei luoghi al chiuso, in Italia, oggi, siano abbandonati. In ogni angolo di questo paese di fatti (basta alzare lo sguardo) si affacciano imposte chiuse, spesso marce, offerte al capriccio della temperie. Probabilmente custodiscono immobili vuoti, a volte ancora ammobiliati. Se nelle grandi città i tetti in più non scarseggiano, nei piccoli paesi, parte lesa dell’esodo interno, sono ormai più rare le case abitate. In campagna, poi, o fuori porta capita di frequente di imbattersi nei relitti della frenesia industriale del dopoguerra, quella che ha dato benessere ai nostri nonni e a noi miseria, dissesti e un ecomostro in qualche lido di mare, da dividere in tre famiglie; sono le basiliche di cemento armato, grige carcasse brutaliste, relitti di un’industria morente. Mentre il sole ne scolora le insegne, e la natura e le erbacce ne reclamano le mura, questi edifici rimangono immobili, appena coinvolti dalla corruzione che divora tutto ciò che le circonda. La loro venatura in ferro e scorza in calce li condanna a una inutile longevità. Di certo questa stima improvvisata del 50% terrà conto anche dei luoghi commerciali, delle attività fallite, dei progetti incompiuti, piscine abbandonate, spacci rionali vampirizzati dai supermercati, strip-club e bische sigillate, teatri vuoti e fatiscenti, asili e ginnasi, ospedali psichiatrici; tutti quei tetri edifici sopravvissuti alla propria funzione, con cui gli adolescenti scongiurano la noia estiva in spedizione avventurose o in fantasie dell’orrore. A volte poi a essere abbandonati sono paesi interi, intere città. Terremotate, franate, o, nella migliore delle ipotesi, semplicemente dimenticate da Dio. Disertate progressivamente, o tutto d’un colpo, le poche ancora risparmiate dalla sanificazione del turismo di massa o dalla monumentalizzazione artistica offrono asilo ormai solo a spettri e randagi.

Tutti questi luoghi sono abbandonati. Per fallimento, per sfratto, per rischio idrogeologico, per disastro ambientale, per bisticci tra gli eredi, perché smaltire l’amianto sarebbe costato di più. Spesso per negligenza e dimenticanza: alcuni semplicemente non si sa più a chi appartengano, non mancano a nessuno, nessuno li reclama, neppure lo Stato (almeno finché rimangono civilmente disabitati). E aspettano pazienti, accumulando polvere e ruggine, che un rumore di passi ne inondi i locali vuoti, che uno sprovveduto, curioso o indigente che sia, vi s’intrufoli attratto dal mistero, resistendo ai disincentivi del filo spinato, dei sigilli, dei cartelli. Ma cos’è che spinge a valicare una soglia da cui altri sono fuggiti?

In bilico tra ciò che sono stati e ciò che potrebbero essere, i luoghi abbandonati non sono propriamente alcunché. Vivono in uno spazio di pura potenzialità, una zona di indeterminazione, di tempo sospeso. La loro natura temporale è ambigua: sono relitti del passato, esclusi dal presente, indifferenti al futuro. Per ciò stesso resistono a ogni interpretazione, offrendone al contempo di innumerevoli. Chiunque li attraversi subisce il fascino di questa contraddizione, s’impegna ad assegnare a questi spazi vuoti la loro storia, a congetturare sulle cause del loro abbandono, a immaginarne le possibilità future. Alcuni, i più sadici, vogliono toccare tutto, raggiungere ogni stanza, aprire ogni cassetto, spaccare ogni frammento di vetro superstite; è un esercizio di dominio, volto a profanare un cumulo di macerie lasciate a marcire e a decomporsi per disporre di esso come di un corpo putrescente e sporco. Altri, più cauti e meno antisociali, vogliono solo dirsi di esserci stati, di esserne stati capaci, sedotti dalla catalogazione enciclopedica a cui la civiltà informatica ha abituato le nostre esperienze; prendono qualche foto, si mettono in tasca un chiodo arrugginito o un pacchetto vuoto di fiammiferi. Nondimeno, chiunque si sia intrufolato all’interno di un luogo abbandonato, qualunque ne siano state le ragioni, avrà provato quel medesimo stupore, così raro nei musei o per le vie dei centri storici profumati e ben illuminati.  Lo stupore non è dovuto al gusto dell’orrido, all’estetica dell’impermanenza, o alla libidine abissale per la rovina, il soppresso, il decadente, il proibito. È qualcosa di meno profondo. Si tratta della nostalgia di ciò che un tempo doveva essere stato il mondo, prima che lo Spettacolo ce lo consegnasse vuoto, perché pieno di cose ciascuna a suo modo indifferente.

Scavalcando un muro, forzando una porta, aggirando una recinsione non si accede a ciò che questi sbarramenti nascondono, ma a un luogo qualsiasi, indeterminato, uno dei pochi luoghi dove oggi è rimasta possibile qualcosa come un’esperienza vera. Nulla è previsto o prevedibile in questi posti insalubri e non sorvegliati, non c’è alcuna garanzia, alcun percorso prestabilito. Ogni interazione è concessa, nessuna privilegiata. All’interno solo architetture disadorne e oggetti sopravvissuti al proprio senso e scopo, e perciò privi di entrambi. Per quanto questa esperienza oggi appaia esotica non è in realtà niente di meno e niente di più del mondo così come è sempre stato, prima di essere cartografato; del mondo reale. Nella Storia universale dell’infamia Borges racconta di un imperatore che desiderava una mappa così dettagliata del suo impero che per dispiegarla fu necessario ricoprire di carta ogni dove, soffocando la terra e portando la carestia. A perire oggi, invece, sotto l’impulso di una cartografia che ci preferirebbe immobili, è la nostra esperienza del mondo. Ogni emozione è catalogata, ogni aspirazione è reindirizzata entro i confini della sua prevedibilità. Ogni foto, ogni serie tv che ci insegna a desiderare, ogni striscia pedonale, ogni luminaria sulla strada, ogni opera di riqualificazione, strappano il mondo alla sua realtà, gli assegnano un posto sulla mappa e una funzione, e lo consegnano a un consumo illusorio e infinitamente ripetibile. Nel racconto di Borges i contadini, abusati e stanchi, raccolsero tutta la carta in un unico cumulo sotto il castello dell’imperatore, poi diedero il tutto alle fiamme. Chi o cosa dovremmo bruciare oggi affinché il mondo torni a essere abbandonato?