Compendio dei motivi filosofico-esistenziali per cui andrebbe selvaggiamente distrutta qualsiasi interfaccia o dispositivo tecnologico innestato nelle nostre città col pretesto propagandistico di renderle più "smart".
Dalla postfazione del libro di Adam Greenfield Città Cyborg (GOG)

Qualcuno diceva che la tecnologia, arrivata a un sufficiente grado di sviluppo, è indistinguibile dalla magia. Circondati da televisori intelligenti, cellulari intelligenti, frigoriferi intelligenti, lavastoviglie intelligenti, macchine intelligenti, abitiamo un mondo che assomiglia sempre di più a un grande gioco di prestigio. A breve anche le città diventeranno integralmente smart. È questo il sogno di tutti quei tecno-ottimisti che pensano di poter risolvere i problemi di grandi e piccoli centri urbani con un’app e di quelle amministrazioni locali che sperano di riscuotere qualche milione di euro dalla Commissione Europea. Nello spazio Schengen, infatti, le giunte comunali fanno a gara per presentare progetti volti a «migliorare la vita urbana attraverso soluzioni integrate più sostenibili». L’Ue si è dimostrata molto generosa sul tema smart city e ha messo a disposizione diversi miliardi in bilancio per quanti si impegnano a ottimizzare le reti e i servizi tramite l’uso di tecnologie digitali. Per smart city si intende una città in cui l’economia, l’ambiente, la mobilità, la cittadinanza e la governance si compenetrano con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Città efficienti, dunque, tecnologicamente avanzate, verdi e socialmente inclusive oltre che business oriented, capaci di attrarre investimenti e giganti dell’High Tech. È il caso, ad esempio, della partnership avviata tra il colosso IBM, tra i primi sviluppatori di sistemi di raccolta dati e gestione della pubblica amministrazione, e le città di New York, Chicago, Madrid e Genova sui temi della sicurezza urbana, della sanità e dell’energia.

Ad oggi l’utopia delle smart city, almeno qui in Italia, ci ha messo a disposizione monopattini, biciclette e macchine elettriche in sharing, senza per questo elaborare un piano rigoroso sulla viabilità cittadina. Ha dotato le scuole di migliaia di dispositivi elettronici (tablet, computer) per migliorare la didattica, ma le aule e gli istituti rimangono ancora fatiscenti, così pure la didattica non gode di buona salute. Ha progettato i cestini «intelligenti» con microchip che segnalano il livello di immondizia in città che non hanno sistemi efficienti per lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti. Ci ha messo a disposizione app culturali per poter monitorare le offerte di cinema, teatri e musei, ma il contenuto dell’offerta è sempre più scadente. Ci fornisce sistemi di identificazione digitale (come SPID) per accedere a tutti i servizi online della Pubblica Amministrazione ma non sfoltisce le procedure burocratiche, invita a scaricare app (come Shelly) per permettere ai residenti di segnalare eventuali problemi di utilità pubblica, scaricando sul cittadino un compito che prima era di competenza istitu189
zionale, sostituendo alla manutenzione costante l’intervento a posteriori. La consegna di cibo a domicilio, prima piacevole eccezione domenicale, attraverso l’immediatezza delle piattaforme di delivery oggi è diventata la regola, stravolgendo un intero settore e creando una nuova categoria di lavoratori sfruttati, i rider. Le app di incontri, come Tinder e Grindr, sopperiscono al problema dell’anoressia sociale che affligge le grandi metropoli, alimentandolo.
A questi mutamenti che avvengono nella città, se ne aggiungono di più profondi e meno evidenti, come l’installazione di sistemi di sorveglianza reticolari e di riconoscimento biometrico facciale, la georeferenziazione dei consumi e la geolocalizzazione degli utenti: la smart city è un dispositivo di potere che si basa sulla pianificazione integrale della vita cittadina, in cui le infrastrutture dello Stato si incorporano con quelle dei nuovi player (sic!) digitali, opacizzando il confine tra sicurezza e controllo, tra pubblico e privato, tra benefici e svantaggi. L’amministrazione potrà raccogliere e monitorare costantemente i dati degli utenti, sondare gli umori della popolazione, mentre tecnici, consulenti e aziende private potranno offrire tutta una serie di servizi di cui non avevamo mai sentito davvero il bisogno, cambiando consuetudini radicate nel tempo, usi, riti e costumi, standardizzando tutte le città a cui questo modello si applica. Insomma, la smart city non è un’alternativa di sviluppo neutra e necessaria, ma un progetto biopolitico, attuato in partnership con i privati, che si presenta come un destino ineluttabile per quelle città che vogliono concorrere sul mercato attirando investitori.

Con la scusa di modernizzare lo spazio urbano e di migliorare la qualità di vita dei residenti, le amministrazioni che si avvalgono degli strumenti messi a disposizione dai colossi del digitale, e viceversa, avviano un processo di pianificazione della città da cui il cittadino è escluso. Non convince infatti l’idea di una smart city che coinvolge i suoi abitanti attraverso consultazioni online, focus group, co-progettazione delle modifiche ai servizi e partecipazione ai processi decisionali attraverso meeting online (tutte cose che già accadevano senza la necessità del medium tecnologico): invero la smart city modifica radicalmente le geometrie del potere, e quindi anche le tecniche del conflitto sociale e della partecipazione politica. Niente più insurrezioni o resistenze contro gli assemblaggi politico-tecnologici, ci limiteremo individualmente ad inviare un feedback negativo a un servizio. Lo dice chiaramente la stessa IBM sul suo sito: l’obiettivo è quello di «andare oltre le decisioni basate sulla politica per rimodellare le città con approfondimenti ottenuti dai dati». Come se la città fosse un faldone di statistiche, grafici e numeri, e non il risultato irripetibile e incalcolabile della vita di una comunità di persone.

Da dove potrebbe nascere, poi, quella reciproca solidarietà tra gli uomini, necessaria per l’insurrezione (o per qualsiasi rivendicazione politica), se nella comunità in cui essi convivono ogni interazio191
ne è mediata da un’app o da un medium tecnologico? La mediazione di uno strumento tecnologico riduce l’interazione umana al semplice compiersi di una funzione. Nel modo più efficiente possibile. Una video-conferenza s’interrompe una volta che si è esaurito l’argomento del giorno. Un rider va per la sua strada non appena ha consegnato il pacco di cui non conosce nemmeno il contenuto. Un sistema efficiente di trasporti, poi, significa la possibilità di suddividere la propria vita in più luoghi all’interno della città, e dunque la minore probabilità di doverli condividere con le stesse persone, e che con quelle stesse persone nasca una qualche sorta di solidarietà. Nei quartieri operai non c’era modo di non incontrare i propri colleghi, di non condividerci qualcosa che andasse oltre il lavoro; oggi invece nelle metropoli sempre più smart, sempre più efficienti, è un miracolo se due colleghi si incrociano di sfuggita in metro. Tutto ciò non è privo di conseguenze, non rende semplicemente più fluida e scorrevole ed efficiente la vita in città. Basti pensare a chi mai sciopererebbe per tutelare un collega ingiustamente licenziato se lo ha conosciuto solo su Zoom? O a come difendere, uniti, un quartiere da un piano regolatore aggressivo (che lo voglia spazzar via al fine di una «grande opera», per esempio, o che ne voglia sfruttare cinicamente il potenziale turistico-economico) se con i propri vicini non si condivide altro che il codice postale? Le città vivono delle comunità che le abitano. Queste comunità non nascono da una convenienza di interessi o dalla solidarietà nel compimento di un’opera, ma sorgono negli interstizi dell’efficienza, nei momenti morti, nel prender fiato, nella pausa, nel gioco, nelle ricreazioni, quando non si è uniti da alcuna finalità, ma precisamente dall’assenza di qualsiasi scopo. Non è un caso che per le nuove megalopoli smart progettate per l’Arabia Saudita l’autocrazia al governo non abbia previsto la costruzione di alcuna piazza, ma solo di lunghi viali a scorrimento veloce. Temono, più d’ogni altra cosa, il potenziale sovversivo e sodalizzante di un semplice luogo d’incontro, e costruiscono di conseguenza città che lo rendano impossibile.

È chiaro quindi che la smart city impone per sua natura una deterritorializzazione del potere, che opera senza più un centro ma in una logica di network, dove pubblico e privato si compenetrano e si scambiano stock di informazioni, strumenti, analisi, previsioni, ma dove le varie possibilità di esistenza sono dettate direttamente da soggetti privati, dai giganti dell’Hi-Tech soprattutto, che proponendo soluzioni e prestazioni, finiscono per amministrare le nuove forme di socialità, le nuove abitudini di consumo, uniformando gli stili di vita attraverso tante piccole soft law, istituendo un canone identico in ogni latitudine, che oltre a estromettere tutti gli analfabeti tecnologici, quindi i poveri e gli anziani, non lascia alla città la libera espressione delle sue forze vive e del suo genio particolare. La cittadinanza assiste da spettatrice, a volte entusiasta, altre volte indifferente, sicuramente impotente al divenire cyborg della città.
A renderci sospetta questa pianificazione, tra l’altro, è il modello implicito che promuove, una morfologia esistenziale che ha molte più affinità con lo stile di vita nordico, scandinavo e anglosassone che non con quello mediterraneo, latino e orientale. Le città del Sud, votate a una certa informalità nel loro sviluppo, a uno spontaneismo nell’auto-organizzazione e a una scarsa articolazione della «società civile» (quindi l’esatto opposto della smart citizenship) sono considerate «deviate» e in ritardo nella graduatoria delle città più intelligenti, stabilita in Italia al PA Forum con il nome di ICity Rank, un elenco che invita le amministrazioni comunali a concorrere nel raggiungimento di tutti gli standard della smart city. Nella classifica italiana, ad esempio, tra le prime dieci città «più smart», neanche una si trova a Sud di Firenze. Stiamo parlando di un modello esogeno alla nostra varietà urbanistica, culturale e antropologica, che qualsiasi amministrazione dovrebbe rifiutare, un modello top-down, calato dall’alto, che offre soluzioni identiche su scala planetaria, con qualche piccola variazione, e che obbliga le città a rinunciare ai loro antichi retaggi, al vivaio di simboli che custodiscono, a tutte quelle pratiche condivise che, sebbene contrarie ai valori dell’efficienza, della produttività e dell’innovazione, sono proprie del popolo che le esprime.

Per un eccesso di provincialismo siamo indotti ad accogliere con gratitudine tutte le utopie (e le cianfrusaglie annesse) che ci vengono spacciate da oltre confine, specie da Oltreoceano, e celebriamo
un po’ per cieca fede, un po’ per pigrizia, l’adeguatezza della tecnologia prima di valutare nel concreto le conseguenze del suo operato, persuasi che per amministrare una città bastino una manciata di statistiche, indicatori, monopattini e telecamere: persuasi che bastino delle soluzioni. Ma amministrare una città non vuol dire pianificare, organizzare, costruire e connettere un agglomerato urbano di cemento e acciaio nel modo più efficiente possibile, non vuol dire risolvere la vita delle persone, la città non è un riformatorio, non è un centro di recupero, non è un istituto correzionale, una casa di riposo o un carcere. Amministrare significa auscultare il corpo sociale della città, il cui metabolismo è iscritto nel suo tessuto genetico, storico, culturale, e fare in modo che possa dispiegarsi secondo le sue inclinazioni. Di fronte a questo tessuto dalla trama diversa in ogni luogo, il modello smart city appare come un’irruzione, una scelta di sviluppo che minaccia la sua spontaneità, ossia le espressioni caratteristiche dei suoi abitanti, gli attori protagonisti del grande teatro cittadino che danno forma agli edifici a cui poi finiscono per assomigliare, che intrattengono un dialogo, e non solo delle transazioni, con lo spazio in cui dimorano. Nella città cyborg il cittadino è ridotto a utente-utilizzatore, perennemente disponibile alla sua profilazione all’interno del database di una metropoli cablata, una città che diventa un network di risoluzione di problemi spesso irrilevanti e che al contempo ne camuffa di più profondi e ne genera una coda lunga infinita sui temi della sorveglianza, del controllo, della privacy, della standardizzazione antropologica.
Noi non vogliamo vivere in queste giungle di monitor e di silicio, sapendo con precisione l’istante in cui arriveremo da un punto A a un punto B, non è l’arrivare puntuali in ufficio che stabilisce la felicità di un popolo, non è un’intelligenza solo razionale quella che può presiedere alla vita di una città, e regolarne il tempo, non è dal bilancio del suo rendimento economico che potremo valutarne la vivibilità. Alla visibilità dei centri storici da vetrina preferiamo il loro passato buio, pericoloso e inaccessibile. All’efficienza dell’ottimizzazione del percorso casa-lavoro svolta da un’app cinese, preferiamo l’entusiasmo immotivato di perdersi in un luogo ancora sconosciuto. Perché una città è qualcosa di più della somma dei suoi ospedali, tribunali, viadotti, scuole e parchi, assomiglia a uno stato d’animo, a una lingua. E nessuna lingua viene inventata da un vocabolario, ma è il vocabolario che la trova tra i parlanti e la trascrive. La lingua precede ed eccede il vocabolario, così come una città non si fa con un libretto di istruzioni, né si monta come un tavolo di Ikea: per quanto perfetta sarà la mappa disegnata dai cartografi dell’impero essa sarà sempre infedele. Perché la città ha «regole assurde, prospettive ingannevoli», come dice Calvino, e di essa non si godono «le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda». Qualsiasi smart city, alla stessa domanda, fornirà sempre la stessa risposta.