La scultura di Price, precipitata in Piazza della Signoria a Firenze, smaschera involontariamente alcune contraddizioni tipiche del progressismo che vorrebbe invece catalizzare.

Trump, sull’arte, ha ragione: lo stato dovrebbe garantire, nelle proprie città e in certi musei, un’arte di sana propaganda nazionalista (possibilmente non tendenziosa) storica e educativa. Come si è espresso l’aranciato presidente sulla questione? Attraverso due ordini esecutivi: il primo del 20 Gennaio scorso, giorno del suo insediamento e relativo all’architettura ufficiale, che dovrà tornare ad adeguarsi allo stile palladiano tipico delle origini istituzionali degli Stati Uniti; il secondo, poco modestamente chiamato “Restoring truth and sanity to american history”, è del 27 Marzo, ed è mirato a restaurare quanto creduto smantellato nei quattro anni di amministrazione precedenti.1

Non illudiamoci che Trump o Vance abbiano alcuna idea concreta su come alimentare un nuovo classicismo statunitense. Questi ordini non contribuiranno a soddisfare alcuna esigenza nel merito, in quanto redatti come risposta demagogica all’ideologia woke la quale, assumendo un ruolo di notevole peso nei discorsi del mainstream statunitense – e di conseguenza anche europeo – è diventata piuttosto invisa agli occidentali che, fra entrambi i continenti, non hanno mancato di punire il progressismo attraverso vari risultati elettorali. La questione apparentemente superficiale dell’arte pubblica è in realtà nevralgica per definire certi perché di questa sinistra debacle: in essa si consolidano potenti moti di identificazione sociale, mentre la sua rimozione, pratica catartica, è controproducente per la promulgazione di messaggi rivendicativi.

Intuitivamente, è facile capire come il senso di appartenenza a un’idea di cultura si giochi innanzitutto sull’immaginario simbolico che, storicamente condiviso, trova nelle sue incarnazioni monumentali un importante veicolo discorsivo. La cittadinanza vi si affeziona, e la conservazione di opere che strutturano questo lessico di appartenenza corrisponde alla preservazione non solo dell’urbe, ma della stessa identità di cui sono simulacro; ogni deliberata offesa ai loro danni susciterà invece indignazione e disprezzo per le cause mandanti di simili gesti. L’attivismo, eleggendo a proprio cavallo di battaglia dialettico la critica sistematica alla storia delle nazioni (origini dell’attuale ingiustizia), alle classi etniche da esse premiate (l’uomo bianco), financo al binarismo sessuale, trova nell’iconoclastia dei simboli di succitati concetti (l’arte detta ‘classica’) una forma di espressione prediletta, non curandosi che le non poche persone che dovessero identificarsi in quelle forme non sosterrebbero mai una compagine politica che defraudasse il loro sentire. Dagli impeti neo-identitari di BLM al più recente ecologismo thunbergiano, il dileggio dell’arte è divenuto costume di una sinistra percepita come un cancro di inciviltà da estirpare, più che come modello da seguire. L’intenzione di Trump è in aperta opposizione a simili istanze, nonché coerente col tatticismo tipico delle destre occidentali che, per quanto possa non piacere, hanno saputo mantenere ferrea coerenza su dei temi chiave per fidelizzare uno zoccolo trasversale di elettorato, e la difesa (più declamata che realmente perseguita) per tradizioni storiche come il monumentalismo è sicuramente tra questi.

Nel frattempo, la sinistra continua stolidamente ad affidarsi a ideologie che giustificano concettualmente il sensazionalismo dell’iconoclastia, per cui la distruzione dell’opera (giustificata dalla sua svalutazione teorica) coincide al momento di passaggio verso un mondo più giusto, sgravato innanzitutto dai simboli di un vecchio potere oppressivo. L’ultima manifestazione di questa teleologia è precipitata sul suolo italiano, in piazza della Signoria a Firenze. Un luogo che, pur non avendo bisogno di altri monumenti, viene abitualmente convertito a scenografia per operazioni culturalmente dubbie, l’ultima delle quali è Time Unfolding, di Thomas J. Price, classe 1981: una scultura dorata di una donna alta 3 m, rappresentata mentre scrolla incurante lo smartphone dando le spalle a Palazzo Vecchio.

Time Unfolding

L’opera si pone in aperta contrapposizione alla statuaria antica che la circonda. L’assenza del piedistallo fisico, che fa poggiare la statua direttamente al suolo, non basta per annullare l’imponenza di quello morale sul quale si issano i curatori dell’operazione per spiegarci di aver effettuato l’ennesimo “[…] significativo confronto con i canoni e i modelli estetici che per secoli hanno contraddistinto la storia dell’arte occidentale e che fino ad oggi sono stati ritenuti intramontabili e non negoziabili con le altre culture”.2 La pretesa di risultare nuovi e significativi è un’ovvia forzatura, dato che l’intera storia dell’arte del Novecento nacque dal deliberato intento di emanciparsi dalle responsabilità dell’arte antica, sfidando ciò che, specialmente nell’alveo della cultura angloamericana, era ritenuto vetusto cascame di antichi regimi autocratici, dai quali distanziarsi anche eticamente: l’anti-monumentalismo da cui proviene l’estetica di Price afferisce a questo pensare, già alimentato dalle tendenze iconoclaste tipiche del puritanesimo che ha colonizzato l’Atlantico. Simili pose intellettuali vengono, all’atto pratico, performate nelle degenerazioni più popolari dell’attivismo, che sfoga una frustrazione allucinata contro le rimanenze di “[…] quel mondo immaginario, dominato da figure mitologiche e personaggi appartenenti alla narrazione biblica, dispositivi simbolici e persuasivi che dovevano rappresentare e celebrare il potere […]”.3

La scultura di Price è però interessante, in quanto smaschera involontariamente l’entità di alcune contraddizioni tipiche del progressismo che vorrebbe invece catalizzare.

Iconograficamente, quella che viene spacciata come simbolo di affermazione femminile, etnica eccetera “[…] non è una figura sintonizzata nel passato o con mondi soprannaturali, piuttosto è connessa con il presente”: è in effetti una giovane di colore completamente assorbita dal cellulare, incurante dell’ambiente che la circonda. Questa gestualità rende Time Unfolding una manifestazione dell’incapacità di uscire dalle retoriche virtuali da social che caratterizzano i movimenti per il clima e per l’emancipazione di donne e minoranze. Addestrati a generare sensazionalismo da ricondivisione, questi movimenti, pur di diffondere idee all’origine giuste, le distorcono ideologicamente per massimizzarne il profitto mediatico, prendendo parte ad un mercimonio dell’attenzione che poco (o forse molto?) ha a che vedere con la supposta giustizia di cui si fanno portatori.4 Si parla di statue antiche come di dispositivi celebrativi, ma è il device lo strumento contemporaneo più potente nelle mani del capitalismo: trappola che ostruisce la visione del mondo circostante, intacca la natura stessa della nostra percezione concentrandola in uno schermo adimensionale, entro cui si dipana uno scorrimento che non lascia alcuna opinione unchecked.

L’ammontare di dati donati nell’ansia di esprimersi e “partecipare” sono il prezzo del moralismo. La ragazza è rappresentata al cellulare probabilmente perché immersa in una parasocialità foriera di antagonismo neo-tribale: uno stile di vita costantemente engaged, ormai noto per favorire l’insorgenza di patologie narcisiste descritte, oltre che da filosofi, da seri specialisti.5 Eppure, i critici compiacenti elogiano questo suo essere contemporanea. È al cellulare, dicono: com’è attuale. Nel tentativo di effigiare l’agognata autonomia, Price è finito per rappresentare plasticamente la forma più contemporanea della schiavitù che assoggetta gli occidentali, quale che sia il colore della loro pelle. Ogni tentativo di riflessione è neutralizzato sul nascere se sostituito dell’esigenza di commentare, di apparire virtualmente, il dovere di mostrarsi giusti, di far vedere cosa (non) si pensa di argomenti che non ci competono. Queste inneggiate lotte per l’emancipazione sono tutte essenzialmente anticapitaliste, fino a che non si combattono sull’irrinunciabile smartphone: però è questo che significa essere connessi oggi, essere presenti.

La ragazza, pur essendo una statua, è tutt’altro che presente. Ciò che le interessa è l’ansia di volersi mostrare dalla parte giusta della storia, quindi contro di essa. Poco importa se il suo sforzo sarà ricordato solo come l’ennesima, superflua onta ad un luogo, Firenze, costantemente stuprato in primis da coloro che dovrebbero custodirlo.6 Non ci vuole un genio per capire che non sarà una statua, peraltro temporanea, a cambiare alcun problema endemico come il razzismo. L’arte contemporanea, se si interessasse realmente al pubblico, dovrebbe rinunciare a palesare l’adesione a cause che, sapendo di non poter risolvere, utilizza come mero orpello estetico: attivismo rettificato nel commercio, terzomondismo come specchietto per le allodole con cui si mascherano transazioni le quali, più che del contrasto dialettico con la storia del potere bianco, si curano di ingrossare i propri profitti esponendosi in location prestigiose – la critica alle opere del passato, utile solo a svilirne il valore, è comunque illuminata dalla loro luce riflessa. Il popolo, non essendo stupido come piace credere, è stanco di farsi indottrinare, e capisce quando viene preso per i fondelli, comportandosi di conseguenza: ignorando, o perculando a sua volta.7

La politica è lingua, e ci si capisce se si parla la stessa. Le dottrine anti-monumentaliste risultano fallimentari e obsolete in quanto viste per ciò che sono: stupide e ipocrite. Di converso, gli ordini esecutivi di Trump serbano, paradossalmente, una peculiare costruttività. Sebbene siano un’indicazione di restaurazione retrograda, la riesumazione di uno stile formale coerente con criteri pre-avanguardisti potrebbe aprire uno spiraglio di rinascita per le capacità comunicative su larga scala dell’arte: un ritorno al monumentalismo di Stato sarebbe l’unica strada percorribile per garantire quella rappresentazione pubblica a coloro che se la sono vista negare dalla storia. L’unico modo per pareggiare i conti sul piano dell’immaginario collettivo è costruendo nuove opere fisse, stilisticamente equivalenti e in sinergia a quelle di un passato che, volenti o nolenti, ci definisce. L’enclave del contemporaneismo è immobilizzata in una sorta di sindrome di Stoccolma: per loro, l’arte e le tradizioni antiche sono finite, e bisogna rapportarcisi in modo necessariamente oppositivo.

Leggere articoli come quello di critica all’artista Jago, a firma di Helga Marsala, pubblicato su Artribune,8 è rivelatorio. In esso, l’autrice non mancando di apprezzare l’operation Price, non si spiega il motivo del successo dello scultore partenopeo: anzi, se ne duole lamentando la stereotipia dei gusti del pubblico. Ma è ovvio come la narrazione dell’artigianalità di un moderno Pigmalione, combinata con un continuo riferimento a una tradizione quantomeno rispettata, producano una forma di arte capace di interessare un vasto pubblico, che si riconosce in quella banalità. Se una forma di comunicazione si diffonde significa che funziona, e questo è un pregio che, da quasi un secolo oramai, all’arte ‘di sistema’ (per una precisa scelta di campo) non interessa più. Che l’equazione sia veramente troppo difficile? Forse sì. Per Marsala non è il sistema dell’arte ufficiale ad essere avulso, moralmente ipocrita e irrimediabilmente colluso a dinamiche che del pubblico se ne fregano: è Jago l’imbonitore, è lui che risulta fuori tempo rispetto alle “[…] radicali trasformazioni del gusto, dei significati, dei modi e dei linguaggi dell’arte […]”, così radicali da risultare ignorate, e pertanto completamente irrilevanti ai fini del discorso condiviso. Certi stupori, ormai, lasciano il tempo che trovano.9

Jago, in un certo senso, è un esempio embrionale di ciò che si potrebbe ottenere se si creasse un movimento che pretenda e realizzi della nuova arte monumentale secondo i modi del vituperato classicismo, rispondente al bisogno di riconoscimento che l’abitudine storica (e dunque collettiva) impone. Il valore dei monumenti si cela nella piena vista della loro tridimensionalità, nel chiaroscuro che garantisce una complessità di approccio mai univoco, ma sempre in evoluzione al mutare dei tempi che corrono: paradossalmente, il fianco che i monumenti offrono ai detrattori che li criticano e vandalizzano è comprova della loro rilevanza. Ma affinché questa polivocità si realizzi occorre che il monumento esista, e delegittimarne il valore, relegandolo al passato da cui proviene, concorre alla sua rimozione in favore di estetiche mobili, transeunti, svendibili. Ciò che vediamo è infatti un triste virtue signaling istituzionale, utile per mettersi la coscienza nominalmente a posto, salvo poi lasciare che tutto vada come al solito. Time Unfolding, arte come un meme: temporanea, eterodiretta, inutile; lo stadio più elementare, becero e volatile della costruzione dei significati collettivi, di cui il monumento è la forma più avanzata, matura e democratica che ci sia.

Nuove siffatte opere costringerebbero la società a guardare in faccia alla propria storia con cognizione, senza la retorica di facili slogan o insabbiamenti. A Milano, in piazzale Loreto (snodo che sarà, tra l’altro, presto riqualificato) un complesso monumentale dedicato a quell’atto così sterilmente evocato in battutine crudeli, lo scenografico linciaggio del Duce, contribuirebbe per esempio a esorcizzare l’Italia da un fascismo spettrale mai del tutto estirpato. Di tanto in tanto qualcuno installa lì un fantoccio, sentendosi sovversivo: sintomo di un vuoto colmato dalla creazione voodoo di un nemico inesistente, anche perché immateriale. Qui cascherebbe anche l’argomento pro-monumenti che le destre impugnano per opporsi ai sinistri: alla fine, a nessuno, al di là della retorica, importa dell’arte pubblica. Quante altre statue di eventi e personaggi storici (specialmente femminili) mancano, che non vengono chieste a gran voce? Abbiamo bisogno di ricordare visivamente e tattilmente ciò che siamo stati, liberandoci dell’inutile dialettica di contrapposizione tra bene – il futuro – e male – la storia, che può essere rappresentata con decenza anche nelle sue espressioni più gravi e problematiche. Per questo ogni ritorno all’ordine, per quanto paventato da politici discutibili, potrebbe favorire la probabilità che vengano eretti buoni monumenti, possibilmente patteggiando un nuovo compromesso per l’espressione pubblica: in città la storia, e l’obiettività di una figurazione senza dietrologie; nel privato di gallerie, fondazioni e musei, la sperimentazione speculativa, e i laboratori creativi.

Gli artisti ci sono. Giuseppe Bergomi, un grande scultore, realizza per Milano il ritratto di Caterina Trivulzio di Belgioioso, sito nell’omonima piazza: un buon esempio di dignità nel desolante panorama del monumentalismo contemporaneo. Guardando quest’opera, così come la produzione di numerosi artisti10 affini al sempre attuale antico, viene da chiedersi perché si continuino a imporre nel pubblico (e al pubblico) le ipocrisie promosse da curatori narcisi, per mano di artisti privi di coscienza: non certo per educare persone il cui linguaggio, unica via per entrarci in comunicazione, viene sistematicamente rigettato, quando non addirittura apertamente sfottuto.

p.s.

È opportuno notare come l’opera di un artista appaia diversamente in base al contesto entro cui viene calata: in effetti, il luogo di destinazione dovrebbe concorrere a determinare l’opera prima che avvenga il contrario, specialmente se parliamo di monumenti, che sono sempre stati site specific ben prima dell’esordio della locuzione anglofona. Tornando a noi, il 6 Maggio un’altra scultura di Price è stata installata in Times Square, a NY. Dalle foto si evince come, contrariamente all’esperimento fiorentino, il lavoro lì non risulti così tanto sgradevole o retorico. È tuttalpiù anonimo, essendo la gigantografia di una persona come se ne potrebbero vedere passare a centinaia per detta piazza ogni giorno: in qualche maniera, è più coerente con l’illusione del sogno americano, oggi indirizzato alla promozione della mediocrità affogata nella soverchiante luminescenza dei billboard pubblicitari, reale prototipo del monumentalismo made in US.


  1. L’ordine del 27 Marzo – https://www.whitehouse.gov/presidential-actions/2025/03/restoring-truth-and-sanity-to-american-history/ – riguarda la restituzione dei monumenti (statue di generali sudisti, di Cristoforo Colombo e altre opere danneggiate e/o censurate) colpiti dalle ingerenze del movimento Black Lives Matter, e promulgherebbe un più stretto controllo sulle operazioni della Smithsonian Institution: il governo Biden, mai distanziatosi da certe posizioni, ha reso disponibili le sue sedi museali istituzionali per promuovere un multiculturalismo in teoria condivisibile, ma essenzialmente basato sui problematici criteri di cui si parlerà nell’articolo. Già si inneggia al revisionismo: https://www.ilgiornaledellarte.com/Articolo/La-lotta-di-Trump-allideologia-impropria-inizia-alla-Smithsonian-
    Il patriottismo ‘non-divisivo’ di Trump potrebbe sicuramente corrispondere ad un’apologia di valori fortunatamente decaduti, ad un revisionismo volto a minimizzare l’importanza delle lotte per l’uguaglianza e così via, ma c’è da sottolineare una cosa: lo Smithsonian è noto per incorporare i pochissimi musei integralmente pubblici su tutto il suolo statunitense. Il resto degli altri, notoriamente privati non-profit, continueranno a fare quel che vogliono. Come al solito, si piangono le sorti della democrazia solo quando sono democraticamente eletti i capi nei quali non ci si rispecchia.
    ↩︎
  2. https://www.museonovecento.it/thomas-j-price-in-florence-piazza-della-signoria/ ↩︎
  3. Il già citato caos ideologico sui monumenti sollevato dal movimento BLM è replicato periodicamente: nell’ingenuità delle schizzate di vernice che gli attivisti di Ultima Generazione gettano sulle opere d’arte, e poco tempo fa, coi cortei LGBTQ+ che a Roma imbrattano la statua di Minerva (la più celebre tra le divinità femminili, un archetipo di indipendenza a cui l’odierno femminismo dovrebbe casomai ispirarsi) di Arturo Martini davanti alla Sapienza. ↩︎
  4. Prive di attinenza ai dati reali, deformati per giustificare una retorica comunque catastrofista, le dinamiche imbastite da questi gruppi si limitano a sollecitare meccanismi di indignazione interni ai social, che aizzano continui attriti tra schieramenti che si contrappongono in un’arena virtuale fatta di commenti e reaction al vetriolo. Il tempo necessario per moltiplicare visualizzazioni e i soldi di chi orchestra il circo, e gli scontri si esauriscono nell’incapacità di prodursi in azioni realmente pragmatiche, se escludiamo la progettazione della successiva, inefficiente istanza del detto ‘purché se ne parli’. ↩︎
  5. A questo proposito: la nutrita (ma accessibile) produzione del filosofo Byung-Chul Han, tra cui Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche di potere (2014) e La Scomparsa dei Riti (2019). L’era della Dopamina (2022) di A. Lembke è un libro seminale per capire le dipendenze contemporanee, compresa quella da social. ↩︎
  6. D’altronde non si spendono mai parole al miele per le precedenti infiltrazioni di arte contemporanea in città – alcuni in ordine sparso: Fisher, Koons, Vezzoli – la cui unica costante è sempre stata la messa in ridicolo dell’antico prestigio del quale, però, ci si serve strumentalmente. ↩︎
  7. Delle banane sono state appese alla statua, gesto puntualmente condannato qui dal Risaliti: https://www.ilgiornaledellarte.com/Articolo/Banane-in-Piazza-della-Signoria-qualcosa-di-osceno-e-violento-che-si-chiama-razzismo: “È la punta di un iceberg che schizza fuori da una putrida melma culturale e sociale. È purtroppo un gesto che significa quello che è drammaticamente: qualcosa di osceno e violento che si chiama razzismo, frutto dell’ignoranza bestiale. Non si pensi che non sapessero quale limite stessero superando, sapevano bene che significato assumevano quelle banane sul corpo di una ragazza nera. Appendere banane alla scultura di Thomas J Price ci dice quanto ci sia ancora bisogno di combattere il razzismo e la discriminazione in tutte le sue forme.” Cosa che, immagino, contribuirà a fare questa mostra. ↩︎
  8. https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2025/04/fenomenologia-jago/ ↩︎
  9. Lungi da me dal difendere l’arte di Jago, che non reputo raffinata, anzi: in un certo senso, è intrisa dello stesso moralismo di quella di Price. Il punto è che la critica si permette di lanciare le proprie invettive solo contro chi è fuori dal sistema di conoscenze incrociate su cui si basa l’élite artistica: a Jago viene rimproverato il fatto di essere un abile pubblicitario, come se la galleria dietro Price (Hauser & Wirth) non abbia un’analoga potenza di fuoco mediale tale da imporsi nel contesto di riferimento. Probabilmente, dell’arte di Price per ora interessa a pochi, se non a coloro che lo sostengono. Sull’argomento hanno scritto ottimamente Federico Giannini (https://www.finestresullarte.info/opinioni/firenze-perche-giannelli-non-va-bene-e-price-invece-si) e Marco Tonelli (https://www.finestresullarte.info/opinioni/firenze-opera-thomas-j-price-banale-rimasticamento) le cui opinioni hanno anticipato alcune parti del presente articolo. ↩︎
  10. Non posso non menzionare Nicola Verlato, pittore e scultore da anni impegnato in una produzione incentrata sulla possibilità di un nuovo monumentalismo. ↩︎