In una recente conversazione da bar con una tedesca progressista, dopo il superamento di una serie di soglie di reticenza, è uscita fuori la questione del sostegno dell’opinione pubblica tedesca al genocidio in corso in Palestina. Come si sa, la Germania offre appoggio indiscriminato a Israele e condanna fermamente qualsiasi azione che ne minacci la sicurezza e l’esistenza – o la volontà di espansione. E’ peculiare che la difesa e il sostegno allo Stato di Israele siano una prerogativa della sinistra tedesca, mentre solo alcune frange estremiste, soprattutto di destra, sono convintamente pro-palestinesi (seppure qualcosa sembra stia cambiando https://ilmanifesto.it/berlino-spazzata-via-la-tendopoli-per-la-palestina).
Questa inversione ideologica delle simpatie rispetto al resto d’Europa, e forse del mondo, per quanto comprensibile, se calata nel contesto storico della Germania, non ha mai smesso di stupirci. Il profondo senso di colpa nei confronti degli ebrei che possono provare i nipoti di coloro che hanno costruito una catena di sterminio per eliminarli dalla faccia della terra, sulla base di un pregiudizio razziale, giustifica certo in parte l’elasticità con cui l’opinione pubblica tedesca, soprattutto quella più moderata e tendenzialmente progressista, sorvola sugli aspetti più problematici del colonialismo sionista. Il tutto condito poi con un clima di repressione piuttosto asfissiante per chiunque voglia esprimere solidarietà al popolo palestinese in Germania, paese nel quale non è riconosciuta alcuna sfumatura di differenza tra l’antisionismo e l’antisemitismo.
Tutto ciò ci permette di capire quanto spesso le simpatie politiche, soprattutto in materia di politica estera, siano ideologiche ed eterodirette; a tal punto che la storia ci ha insegnato quante volte i nostri alleati di oggi finiscono poi per essere i nostri nemici di domani (come provavamo ad argomentare nell’articolo qui di seguito, ma ci promettiamo di riparlarne quando le milizie naziste ucraine non sapranno più che farsene di tutti quell’arsenale e lo punteranno verso Kiev).
Ciò che ci ha colpiti, nella conversazione con la suddetta tedesca di sinistra, è stata la frase con cui ha voluto rendere conto dell’inversione di posizioni: “Noi tedeschi” ha detto con tono grave e compunto “abbiamo imparato dai nostri errori del passato”. Ora se la questione del senso di colpa può risultare quantomeno comprensibile, non si può non rilevare una contraddizione in quest’affermazione.
Qualora l’errore del passato cui si riferiva la nostra compagna da bar fosse stato quello dell’antisemitismo, sarebbe sicuramente giustificato un maggiore riguardo rispetto al diritto all’esistenza degli ebrei in quanto ebrei. Non per questo però esso si dovrebbe necessariamente tradurre nel supporto indiscriminato allo Stato di Israele. Si tratta qui però di quell’ambigua sfumatura di senso che apparirebbe ovvia se desse la possibilità al popolo tedesco di discutere liberamente sulle differenza tra antisemitismo e antisionismo.
Il problema è un altro però, perché “l’errore del passato” in realtà, non riguarda tanto l’antisemitismo quanto il sostegno del nazismo tout court, di cui l’antisemitismo è una caratteristica storica determinante, ma che non ne esaurisce l’essenza. Imparare dal passato dovrebbe significare aver imparato a riconoscere ciò che negli anni ’30 ha preso forma sotto il nome di nazismo, indipendentemente dalle caratteristiche specifiche di quel periodo storico. Sembra invece che i tedeschi abbiano prevalentemente imparato la lezione di come tutelarsi dalle accuse di nazismo, che lo Stato di Israele aveva saputo sapientemente associare a ogni tipo di critica rivoltagli.
Ed è peculiare che i tedeschi abbiano così poco imparato la lezione, in realtà, che pur di mantenersi al riparo dalle tanto temute accuse, sono disposti a dare il proprio sostegno a un’entità politica che riproduce molto da vicino, nell’essenza e non nei particolari, alcune caratteristiche della dittatura del passato da cui vorrebbero prendere le distanze (Stato etnico e discriminatorio, Palestina come Lebensraum). Mentre l’opinione pubblica del resto del mondo (ma non le istituzioni) si è arresa difronte all’evidenza dell’ingiustizia e del cortocircuito ideologico (vedi l’articolo qui di seguito), la Germania, più fragile e suscettibile per evidenti motivi storici, è ancora una volta, non per volontà propria ma per deferenza e paranoia, costretta a schiararsi dalla parte del nazismo (o almeno di ciò che gli assomiglia di più).
Al di là degli interessi geopolitici dell’Occidente, che impediscono ai vari governi di ritirare il proprio supporto a Israele, anche in aperta contraddizione con i propri valori professati, è interessante analizzare il punto di vista dell’opinione pubblica. Com’è possibile che dopo tutti i discorsi, i libri, le lapidi, i memoriali, i film, le gite ad Auschwitz, i premi, e tutto ciò che costituisce la propaganda antinazista in cui siamo immersi, non solo il nazismo ancora esiste, il che comunque stupisce poco, ma l’opinione pubblica progressista del paese che dovrebbe avere più a cuore la questione si dimostra in realtà sprovvista degli strumenti che le permetterebbero di riconoscerlo e prenderne apertamente le distanze?
Può darsi che la radice del problema affondi proprio nel fatto che si è scelto di promuovere la sensibilizzazione antinazista attraverso uno strumento inventato dal nazismo stesso, la propaganda, volta non a educare le coscienze ma ad uniformarle intorno a una visione preconcetta e manicheista. Muovendosi essa nel regime dei simboli appariscenti e delle parole d’ordine, non ha “insegnato la lezione”, per l’appunto, ha invece piuttosto insegnato a riconoscere quei simboli e quelle parole d’ordine rappresentati dalla propaganda stessa, a provarne terrore, e a prenderne le distanze.
Per via di questa educazione superficiale si sono generati quei cortocircuiti che fanno sì che l’attenzione, anche nel nostro paese, non sia diretta verso le pratiche o le politiche che rivelano analogie con l’ideologia nazifascista, per criticarla e prenderne le distanze, ma sui simboli ormai vuoti dei regimi passati, nei confronti dei quali abbiamo sviluppato una sensibilità isterica. Interessa più che il governo di turno si dichiari “antifascista” il 25 aprile, o che al contrario si faccia cogliere in fallo con le braccia tese, rispetto all’ideologia che si potrebbe evincere alla base del suo operato. O basta che i vari gruppi che si dichiarano “antifa” adottino l’estetica e il vocabolario adeguato, affinché nessuno problematizzi le pratiche fasciste che sposano, come il cameratismo identitario, la gerarchia, l’esclusione ideologica, l’uso prevaricatorio della violenza.
È quindi sfruttando questa confusione tra l’apparenza e la sostanza che Israele è riuscito a tutelarsi a lungo dalle critiche, e ancora oggi gode di questo privilegio presso l’opinione pubblica tedesca, quella maggiormente vittima della propaganda antinazista. Così come un braccio teso pesa più delle politiche coloniali, per essere tacciati di fascismo, essere ebrei garantisce più appoggio e sostegno occidentale rispetto all’essere vittime, oggi, di un genocidio. Se si educa attraverso la propaganda, ovvero i simboli e le parole d’ordine, non si insegna a riconoscere che queste ultime. Il lavoro che andava fatto e che andrebbe fatto sarebbe non quello di associare al nazismo le fattezze dell’inferno e del male incarnato, ma insegnare a riconoscere gli istinti e i desideri che potrebbero convincere qualsiasi essere umano a difenderlo e prenderne parte, a tal punto che anche il popolo che per via di esso ha rischiato l’estinzione si ritrova oggi a riprodurne, in parte, l’essenza.