Perché è stato ucciso Karl von Spreti[1]
Il Guatemala è una nazione che non canta, che non parla, chiusa in se stessa. Una nazione sempre all’erta, introversa, ignorante e ignorata. Non è il paese dell’eterna primavera, ma dell’eterna tirannide. Un popolo realmente asservito e costretto al silenzio. Un silenzio fatto di canzoni che non abbiamo potuto cantare.La nostra tristezza non è uno stereotipo. Una canzone allegra farebbe l’effetto di uno sparo.
LUIS CARDOZA Y ARAGON, Guatemala, las lineas de su mano
1.
Già nella prima scena c’è tutto il Guatemala.
Martedì, 31 marzo, pochi minuti dopo mezzogiorno. Lungo l’Avenida de las Américas avanza una Mercedes nera. Al volante, l’autista Eduardo Hernández. Sul sedile posteriore siede un anziano signore dai capelli bianchi e con gli occhiali: il conte Karl von Spreti, ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca. Avanzano lentamente: da una settimana la velocità massima in città è stata limitata ai trenta chilometri all’ora. Chiunque acceleri rischia di essere preso a fucilate. Per il conte, che è in Guatemala solo da due mesi, la legge è legge. A un certo punto, da una strada laterale sbucano due Volkswagen che bloccano la Mercedes. L’auto dell’ambasciatore si ferma. Dalle Volkswagen scendono sei giovani armati di mitra. Si avvicinano alla Mercedes, aprono la portiera e chiedono al conte di trasferirsi in una delle loro macchine. Von Spreti ubbidisce. Dopo un attimo i due Maggiolini ripartono. Hernández resta ad aspettare finché non spariscono, poi ingrana la marcia e, lungo lo stesso viale, ritorna all’ambasciata.
In che cosa consiste il senso di questa scena?
Nel fatto che l’Avenida de las Américas è una strada con molto traffico. Sempre piena di macchine e di passanti. Il sequestro dell’ambasciatore deve aver richiesto un certo tempo. In teoria, c’era da aspettarsi che qualcuno si fermasse, si mettesse a guardare, dicesse qualcosa, gridasse o chiamasse la polizia. C’era da aspettarsi che la gente facesse capannello, che qualcuno, più curioso degli altri, chiedesse: “Ehi, ma che sta succedendo?”.
E invece no, niente di tutto questo. Il traffico continua a scorrere, solo un po’ più in fretta. Gli autisti accelerano e sul marciapiede i passanti. In quel momento, per le persone che incrociano le due Volkswagen che bloccano la Mercedes, la cosa principale è non vedere. Sanno perfettamente di essere i testimoni di una qualche violazione, e in Guatemala la tattica autodifensiva dell’uomo della strada consiste nel non essere testimone di nulla. Se violazione c’è stata, qualche testa dovrà certo cadere. Ma raramente si tratta di quella del suo autore. Il vero autore agisce fuori della portata della polizia. E la polizia deve dimostrare la propria efficienza. In questo paese non esiste un solo caso in cui il colpevole non sia stato arrestato. È un dato di fatto sottolineato in tutti i discorsi del presidente. Ma come catturare un colpevole che è sparito senza lasciare tracce? Non importa, basta un po’ di buona volontà. In assenza di un colpevole, si cercano i testimoni. Il testimone viene fermato per chiarimenti. Chi viene fermato per chiarimenti aspetta in prigione. Ma una volta entrato in prigione, raramente ne esce vivo.
Se la polizia non trova il criminale, trasforma in criminale il testimone: vedere può equivalere a prendere parte. Una partecipazione, a dire il vero, puramente visiva, ma pur sempre partecipazione. Ha visto qualcosa ma è stato zitto: come mai ha taciuto? Perché era uno di loro. Oppure: ha visto e ha gridato: come mai ha gridato? Per sviare i sospetti. In un modo o nell’altro, viene provata la sua colpevolezza. In fin dei conti poco importa che a pagare sia proprio colui che ha ucciso. L’essenziale è che se qualcuno ha ucciso, qualcun altro debba morire. Delitto e castigo hanno in questo paese volti grigi, anonimi, impossibili da distinguere. Visto che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha paura.
2.
I sei giovani guerriglieri portano Karl von Spreti in un luogo ignoto e per qualche ora sulla città cala il silenzio.
Gli autori dei libri di storia dedicano troppa attenzione ai cosiddetti “momenti forti” e troppo poca ai momenti di silenzio. Si tratta di una mancanza di intuizione: di quell’infallibile intuizione comune a ogni madre appena si accorge che dalla camera del suo bambino non proviene alcun rumore. La madre sa che quel silenzio non significa niente di buono, che nasconde qualcosa. Corre a intervenire perché sente il male aleggiare nell’aria. Questa medesima funzione, il silenzio la svolge nella storia e nella politica. Il silenzio è un segnale di disgrazia e non di rado di un crimine. È uno strumento politico, esattamente come il fragore delle armi o i discorsi di un comizio. Uno strumento di cui hanno bisogno i tiranni e gli occupanti che vigilano affinché la loro opera sia accompagnata dal silenzio. Pensiamo a come i vari colonialismi tutelassero il silenzio. Con quanta discrezione lavorasse la Santa Inquisizione. Con quanta cura Leónidas Trujillo evitasse ogni pubblicità.
Quale silenzio emana dai paesi che traboccano di prigioni! Lo stato di Anastasio Somoza: silenzio. Lo stato di François Duvalier: silenzio. Che grande impegno mette ognuno di questi dittatori nel mantenere quell’ideale stato di silenzio che qualcuno cerca continuamente di turbare! Quante vittime per questo motivo, e quali costi! Il silenzio ha le sue leggi e le sue esigenze. Il silenzio esige che i campi di concentramento sorgano in luoghi appartati. Il silenzio necessita di un enorme apparato poliziesco e di un esercito di delatori. Il silenzio esige che i nemici del silenzio spariscano all’improvviso e senza lasciare traccia. Il silenzio vorrebbe che nessuna voce – di lamento, di protesta, di indignazione – disturbasse la sua pace. Ovunque risuoni una voce del genere, il silenzio colpisce con tutte le forze e ristabilisce lo stato precedente, ossia lo stato di silenzio.
Il silenzio possiede la facoltà di espandersi, ragion per cui adoperiamo espressioni quali: il silenzio “regnava all’intorno”, o “avvolgeva ogni cosa”. Il silenzio ha anche la capacità di aumentare di peso: non per niente si parla di un “silenzio pesante”, allo stesso modo in cui si parla del peso dei corpi solidi o liquidi.
La parola “silenzio” appare quasi sempre associata a termini quali “cimitero” (un silenzio di tomba), “campo di battaglia” (il silenzio dopo la battaglia), o “sotterranei” (i sotterranei immersi nel silenzio). Non si tratta di associazioni casuali.
Oggi si parla molto della lotta contro il rumore, mentre è molto più importante combattere il silenzio. Nella lotta al rumore è in gioco la pace dei nervi, nella lotta al silenzio la vita umana. Nessuno giustifica né difende chi fa molto rumore, mentre chi impone il silenzio nel proprio stato viene sempre protetto da un apparato repressivo. Per questo la lotta al silenzio è così difficile. Per infrangere il silenzio nel paese di Duvalier occorrerebbe una rivoluzione. Chi volesse spezzare il silenzio in cui la United Fruit Company compie le sue macchinazioni esporrebbe il proprio paese a un intervento dei marines degli Stati Uniti.
Sarebbe interessante analizzare in quale misura i sistemi di comunicazione di massa lavorino al servizio dell’informazione e in quale misura al servizio del silenzio. Sono più le cose che vengono dette o quelle che vengono taciute? È possibile fare il calcolo delle persone che lavorano nel campo della pubblicità: e se facessimo il calcolo di quelle che lavorano a mantenere il silenzio? Quale delle due cifre risulterebbe maggiore?
Quando, in Guatemala, mi sintonizzo su una radio locale che trasmette solo canzoni, pubblicità della birra e, per tutta notizia dal mondo, la nascita in India di due gemelli siamesi, so con certezza che quella radio lavora al servizio del silenzio. Al servizio del silenzio hanno lavorato i dittatori succedutisi in questo paese, i loro protettori di Miami e di Boston, l’esercito e la polizia locali. Per questo Eduardo Galeano inizia il suo libro sul Guatemala, Guatemala, un paese occupato[2] con la frase: “Il Guatemala, come l’intera America Latina, è vittima della congiura del silenzio e della menzogna”. In effetti, nella storia di questo paese si susseguono volta a volta lunghi periodi di silenzio.
La Repubblica del Guatemala nacque in un momento di grande sventura: un’epidemia di colera imperversante nell’America Centrale, che raggiunse il culmine nel 1837. Città e villaggi si spopolavano, nei fossi lungo le strade giacevano cadaveri di gente sorpresa dalla morte mentre fuggiva. Quella dei cadaveri abbandonati lungo le strade è un’immagine destinata ad accompagnare fino ai giorni nostri la storia di questo paese. Il governatore della provincia del Guatemala, a quel tempo facente parte della Repubblica Federale dell’America Centrale, era il liberale e riformista Mariano Gálvez. Gálvez creò le brigate dei becchini che andavano di villaggio in villaggio a seppellire i morti. A capo di una di quelle brigate fu nominato un giovane meticcio di nome Rafael Carrera. Carrera era un pastore, poi mercante di maiali. Tutt’intorno imperversava l’epidemia e Carrera vedeva la morte dappertutto. Andava in chiesa, dove i preti attribuivano la colpa del contagio ai liberali e ai democratici che avvelenavano l’acqua dei pozzi e dei fiumi per sterminare gli indios e i meticci. I preti odiavano i liberali perché il liberale Gálvez voleva fondare delle scuole laiche e si proponeva di ridurre i beni ecclesiastici. La chiesa guatemalteca era fanaticamente reazionaria e oscurantista.
Suggestionato da quella propaganda, Carrera decise di combattere una guerra santa. All’inizio il suo esercito si componeva di quattordici becchini, indios scalzi e seminudi, armati di vecchi moschetti. L’esercito si mise in marcia verso la capitale raccogliendo lungo la strada sempre nuove brigate di becchini. In testa al corteo avanzavano tre monaci con croci di legno. Intonando canti religiosi e razziando quello che trovava lungo il cammino, la colonna dei becchini raggiunse la meta e, dopo un breve combattimento, conquistò la città. Nel palazzo di Gálvez Carrera trovò la sua divisa da generale, che si affrettò a indossare. Per molto tempo non riuscì tuttavia a trovare un paio di scarpe. Con addosso l’uniforme, ma ancora scalzo, si proclamò presidente del Guatemala. Nel 1838 separò il Guatemala dalla Federazione e creò uno stato autonomo.
Divenuto presidente a ventitré anni, governò il Guatemala per ventisette, fino alla morte. Non imparò mai a leggere né a scrivere. Fanaticamente bigotto, era anche un alcolista. Ubriaco fradicio, si sdraiava sul pavimento della chiesa con le braccia aperte a croce e in quella posizione si addormentava. Sospettoso, cupo, sempre in preda al malessere del doposbornia, non permetteva a nessuno di sorridere in sua presenza.
Chi sorrideva, finiva sul patibolo.
“Il regime di Carrera,” scrive lo storico Fred Rippy, “causò un numero sterminato di vittime.” Sterminato. Ma quante, esattamente? Non si sa. Diecimila? Centomila? A quel tempo il Guatemala non contava neanche un milione di abitanti. Carrera ridusse la popolazione della metà, o solo di un quarto?
Non lo sappiamo, poiché nell’atto stesso di creare il Guatemala Carrera introdusse immediatamente l’abitudine di osservare il silenzio. Trasformò il paese in un “grande campo di concentramento al servizio dell’aristocrazia e della chiesa” (Cardoza Aragón). Morì ubriaco, in preda a spaventose convulsioni. Gli uni ne attribuiscono la morte alla dissenteria, gli altri allo spavento per aver visto il diavolo. La chiesa gli tributò un magnifico funerale. Alla destra del tiranno giaceva la spada incrostata di diamanti regalatagli dalla regina Vittoria: un premio per il gesto con cui Carrera, nel 1859, aveva ceduto alla Gran Bretagna un quinto del Guatemala, la provincia del Belize, poi trasformata nella colonia inglese dell’Honduras Britannico.
A Carrera succedette Vicente Cerna. Anche lui era un tiranno, ma poiché beveva di meno e aveva almeno tentato di imparare a leggere, gli storici gli assegnano un voto positivo. Dopo sei anni di governo Cerna, nel 1871, l’anno della Comune di Parigi, un generale trentaseienne, Rufino Barrios, fece un colpo di stato e tenne il potere per quattordici anni. Il nuovo presidente confiscò le terre e gli edifici dei vescovi per distribuirli ai suoi amici (all’epoca, metà degli immobili e dei possedimenti della capitale erano proprietà degli ordini religiosi).
Barrios riteneva che la maggiore disgrazia del Guatemala fossero gli indios, a quel tempo il novanta per cento della popolazione. Impose ai capivillaggio indios di civilizzarsi e li costrinse a portare il frac. I capivillaggio cercarono di boicottare la disposizione, ma chiunque si opponesse agli ordini di Barrios veniva decapitato. Alla fine il presidente smise di interessarsi agli indios. Giunto alla conclusione che si trattasse di gente di “infima e abietta condizione”, decise che solo un’immigrazione dall’Europa potesse fare del Guatemala uno stato moderno. Attirò italiani, svizzeri e francesi. Fece arrivare quattrocento tedeschi che, a poco a poco, monopolizzarono la principale ricchezza del Guatemala: il caffè. Fino ad allora il caffè era stata l’unica fonte di sussistenza per la maggior parte dei contadini locali. Adesso i tedeschi, appoggiati dall’esercito di Barrios – nelle cui file militavano peraltro come ufficiali numerosi compatrioti – cominciano a scacciare i contadini dalle loro terre, convertendole in grandi piantagioni di caffè. Ma il caffè richiede una manodopera numerosa per cui, nel 1880, Barrios promulga la Legge sul vagabondaggio (ley de vagancia) equivalente, in pratica, all’instaurazione della schiavitù: soldati e poliziotti hanno il diritto di arrestare un indio che stia camminando per strada (se sta camminando, dev’essere per forza un vagabondo) e di mandarlo al lavoro coatto e gratuito in una piantagione. Grazie a questa pratica disposizione, le piantagioni tedesche cominciano subito a prosperare. Secondo l’economista nordamericano Sanford Mosk, già nel 1913 quelle piantagioni producevano il quarantuno per cento di tutto il caffè guatemalteco. Il principale acquirente era la Germania che, in quello stesso 1913, acquistava il cinquantacinque per cento dell’esportazione guatemalteca. “Con lo sviluppo delle piantagioni,” scrive Mosk, “tornarono in vita la servitù della gleba e altri sistemi di lavoro forzato.” I proprietari delle piantagioni avevano nei loro possedimenti un esercito e un carcere privati.
Alcuni storici parlano di Barrios come del Grande Innovatore, ma riesce difficile condividere il loro entusiasmo. Il generale trasformò il paese in un campo di duri lavori forzati. Nella costruzione di strade e ferrovie persero la vita decine di migliaia di persone. Branchi di contadini lavoravano legati perché non scappassero. Ecco il messaggio indirizzato da un funzionario di Barrios al governatore di una provincia:
“Vi invio venticinque volontari per la costruzione della strada. Vogliate rimandarmi indietro le corde”.
Nel 1898, un avvocato di nome Estrada Cabrera assassinò il presidente Justo Rufino Barrios, prendendone il posto. Perfino uno storico moderato come Hubert Herring definisce l’avvocato “un assassino e un ladro”. Estrada si circondava di maghi e preparava personalmente le misture con le quali avvelenava gli avversari.
Probabilmente era un pervertito: comodamente seduto in poltrona, assisteva alle esecuzioni come oggi si assiste a una bella partita di calcio in televisione. A quegli spettacoli invitava anche gli amici, come riferisce Dana Munro nel libro The Five Republics of Central America.[3] Ecco come Munro descrive il regime di Estrada: “Una vasta rete della polizia segreta osserva tutto quello che accade nella repubblica. Gli individui sospettati di ostilità nei confronti dei dittatori vengono sorvegliati dai vicini di casa, dalla servitù e dai loro stessi parenti. Parlare di politica può risultare pericoloso perfino in una conversazione privata. Nessun personaggio pubblico può avere troppi amici, per non destare sospetti. Le persone sospette vengono messe in prigione e poi misteriosamente spariscono”.
“Ogni attentato contro il tiranno,” scrive Fred Rippy, “era seguito da spietate esecuzioni di un enorme numero di persone, molte delle quali quasi sicuramente innocenti.”
Nei ventidue anni della sua dittatura, Estrada sommerse di sangue il Guatemala. Era intoccabile. “Odiato in tutta l’America Centrale,” scrive Thomas L. Karnes in The Failure of Union,[4] “era sempre sicuro di sé poiché poteva contare sull’appoggio di Washington.” In cambio di quell’appoggio, Estrada cedette ai monopoli americani mezzo Guatemala. Non glielo vendette: glielo cedette. Cedette le ferrovie, i porti, le centrali elettriche, il telegrafo. E, soprattutto, nel 1901 lasciò entrare nel paese la United Fruit Company, assegnandole le terre migliori.
A partire da questo momento ha inizio la lotta tra il capitale americano e quello tedesco per impossessarsi di una colonia chiamata Guatemala. Se, da un lato, il potere nordamericano cresceva, dall’altro quello tedesco non era da meno. “Tra le colonie straniere,” scrive il sociologo guatemalteco Monteforte Toledo, “la più forte era quella tedesca […] I tedeschi, per la maggior parte giovani, avevano organizzato fiorenti zone produttrici di caffè nella regione più ricca del paese. In seguito questa minoranza, che consisteva di circa cinquemila persone, era arrivata a disporre di banche, di ditte d’esportazione del caffè, di trasporti, di scuole e di club di sua proprietà”, mentre il piantatore guatemalteco era costretto a “lottare per ottenere un credito o trovare un acquirente.”
“In Guatemala,” narra l’ottimo scrittore guatemalteco Cardoza y Aragón, “esistevano due distinte economie create dagli stranieri: quella nordamericana e quella tedesca. I tedeschi, che si erano appropriati delle terre, coltivavano caffè e canna da zucchero e allevavano bestiame, trattando i contadini guatemaltechi più come schiavi che come sudditi. Le proprietà tedesche, vaste migliaia di ettari e sulle quali sorgevano magnifiche abitazioni, furono create grazie al sudore indigeno e alla fertilità dei campi: se ne ricavavano guadagni superiori a quelli delle migliori colonie. Amburgo divenne il più importante centro commerciale del caffè guatemalteco e il Guatemala una mezza colonia tedesca. Numerosi settori del nostro mercato erano in mano agli Stahl, ai Nottebohm, ai Sapper, ai Dieseldorf, ai Gerlach, e chi più ne ha, più ne metta. I figli di matrimoni tedesco-meticci partivano per la Germania, dalla quale tornavano sposati con bionde opulente. Questi ragazzi, spesso meticci, che imparavano il tedesco da piccoli, marciavano con passo da parata verso la terra dei padri e dei nonni per studiare o per entrare nell’esercito. Avevano i loro club, le loro scuole e le loro organizzazioni. Deutschland über alles. Poi, dall’Europa, tornavano ai loro feudi di servi della gleba kekchi, i peggio pagati di tutto il paese. Il trattato Montúfar-von Bergen consentiva ai bambini tedeschi nati in Guatemala di conservare la doppia cittadinanza. A Mosca, nel 1946, mi è capitato di rintracciare alcuni di questi ‘compatrioti’ spariti combattendo nell’esercito di Hitler. In seguito, a Parigi, ho dovuto sbrigare le formalità di molti di questi ‘guatemaltechi’ che rientravano in ‘patria’ senza conoscere una parola di spagnolo. Avevano solo un appunto con il nome del villaggio più vicino alla piantagione dei familiari. Non conoscevano neanche la carta geografica del Guatemala.”
I nordamericani ricavarono grossi vantaggi dalle due guerre mondiali: i tedeschi si imbarcavano e andavano a versare il loro sangue in Europa. La prima volta per Guglielmo, la seconda per Hitler. Poi, però, ritornavano e tutto ricominciava come prima. Ricominciava la lotta per il dominio sul Guatemala. Una lotta che dura tutt’oggi e che avrebbe avuto un peso decisivo sul destino di Karl von Spreti.
Nel 1931, l’allora ambasciatore degli Stati Uniti Sheldon Whitehouse designò come presidente del Guatemala il generale Jorge Ubico. In prima istanza Whitehouse aveva puntato sul generale Jorge Reyes, ex ministro della Guerra, diventato famoso per aver ordinato la fucilazione dell’intero corpo diplomatico accreditato presso il governo del Guatemala. Reyes era analfabeta e un gruppo di suoi oppositori sfruttò questa circostanza per recarsi da Whitehouse e convincerlo che in un paese dove gli analfabeti non avevano diritto di voto, un uomo che non sapeva leggere e scrivere non poteva diventare presidente della Repubblica.
Ubico si vantava di somigliare a Napoleone Bonaparte. Aveva anche un suo repertorio di frasi memorabili. “Il popolo va affamato,” soleva dire. “Un popolo che ha fame lotta per il pane e non ha tempo di combattere il governo.” Ma gli operai gli facevano paura. Dopo averne fatto giustiziare il leader, Pablo Wainwright, promulgò una legge che proibiva l’uso della parola “obrero” (operaio). L’unico termine consentito era “empleado” (lavoratore).
Nel 1936 scadeva il termine, previsto dalla costituzione, del mandato presidenziale di Ubico. Il generale fu convocato presso la sede della United Fruit Company. “Signor Ubico,” gli disse il direttore, “se vuole restare presidente deve firmare una legge che annulli tutti i debiti contratti dalla United Fruit con il governo del Guatemala [da anni il monopolio non pagava le imposte] e proroghi le nostre concessioni fino al 1981.” Ubico fu ben lieto di firmare, assicurandosi la presidenza per altri otto anni. Il legale incaricato di redigere la legge altri non era che John Foster Dulles, allora avvocato della United Fruit e futuro segretario di stato degli Usa.
Il generale provava un tale gusto nel governare che una volta, alla radio, dichiarò: “Se sarò costretto ad abbandonare il potere, me ne andrò, ma immerso nel sangue fino alle ginocchia”. Bisognerebbe provare a calarsi nell’atmosfera di un paese il cui presidente pronuncia alla radio simili dichiarazioni.
Come capo di stato, Ubico emanò gli ordini più strani. Fece catturare gli indios che vivevano nei boschi di Petén, dopodiché, li fece esporre chiusi in gabbie di ferro, nello zoo La Aurora della capitale. Nel 1940 ordinò il censimento della popolazione. Quando glielo presentarono, depennò dalla lista gli abitanti delle città e dei villaggi dove ricordava di essere stato accolto con scarso entusiasmo. Sottrasse il numero degli oppositori dalla cifra globale della popolazione e presentò la differenza come il risultato ufficiale del censimento.
Durante i quattordici anni della sua dittatura Ubico costruì ventisette chilometri di strade. Quattordici anni per realizzare un tratto di strada pari a quello che unisce Varsavia a Michalin. Ma il generale non aveva tempo: era troppo occupato a praticare la terapia del silenzio. Per questo ci è impossibile calcolare il numero delle sue vittime. Sappiamo che soppresse migliaia e migliaia di persone, perché così sta scritto nei libri e così ricordano i sopravvissuti. “Altrettanto sanguinario e corrotto dei suoi predecessori,” scrive di Ubico John Gerassi, “riuscì tuttavia a rubare più di loro e, avendo scoperto più complotti di Estrada, a fucilare un maggior numero di persone.” Gerassi cita un frammento delle memorie dello scrittore guatemalteco García Granados: “Nel 1934 Ubico scoprì una delle tante congiure. Fece arrestare diciassette persone, organizzò una farsa di processo in cui nessuno poté disporre di un avvocato e infine le condannò a morte. Scrissi una lettera a Ubico pregandolo di graziarli. Per tutta risposta, il generale mi mandò un plotone di polizia che, prelevatomi da casa, mi condusse sul luogo dell’esecuzione dove dovetti assistere alla fucilazione dei diciassette condannati. Poi fui portato in prigione, dove rimasi per vari mesi…”.
3.
“Insegnare la storia del mio paese è davvero una triste incombenza” mi disse una volta un professore guatemalteco. Non mi fu possibile contraddirlo. Durante la conversazione mi passò per la testa un’idea assurda: chissà che non fosse un bene che in Guatemala solo un bambino su dieci frequentasse la scuola? Che razza di mentalità poteva formare un simile modo di studiare la storia?
Nelle scuole guatemalteche, il dieci per cento dei bambini studia le biografie dell’avvocato Estrada e del generale Ubico. I rimanenti non la frequentano. Il governo non manifesta il minimo interesse per la pubblica istruzione. Il concetto è stato chiarito nel più convincente dei modi al reporter colombiano Luis Murillo da uno dei ministri guatemaltechi: “Si rende conto di dove andremmo a finire, caro signore, se tutte quelle teste di rapa imparassero a pensare?”.
Pare comunque che neanche l’élite usi molto la testa. L’atto legislativo del Banco centroamericano, preliminarmente discusso dal consiglio dei Ministri degli stati dell’America Centrale e firmato il 17 luglio 1964 dai ministri delle Finanze di Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, ci illumina circa le nozioni geografiche di questi signori. Al paragrafo 5, punto 7 della legge tuttora in vigore leggiamo: “Le merci acquistate con i prestiti in dollari possono venire trasportate soltanto da navi di proprietà degli Stati Uniti, dei paesi dell’America Centrale e di ogni altro stato del mondo, a eccezione dei seguenti: Unione Sovietica, Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Ungheria, Romania, Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Vietnam del Nord, Cina continentale e altre zone controllate dai comunisti, Mongolia esterna e Cuba”.
4.
Il 20 ottobre 1944 in Guatemala scoppiò la rivoluzione. In testa alla folla che marciava sul palazzo presidenziale avanzava il trentenne capitano Jacobo Árbenz Guzmán, figlio di un farmacista svizzero, la cui capigliatura bionda spiccava in quel paese di indios e meticci. L’ambasciata degli Stati Uniti non ostacolò i ribelli. A quell’epoca gli americani avevano il loro daffare in Europa e nessuno pensava al Guatemala. Il generale Ubico fuggì e il potere passò in mano a un gruppo di ufficiali di medio rango. La notizia della rivoluzione raggiunse i villaggi limitrofi. Nel piccolo distretto di Patzicía i contadini si sollevarono e uccisero i proprietari terrieri. Il fatto è che, in Guatemala, contadino equivale a indio e proprietario terriero a bianco. I villaggi sono indios, le città sono bianche e meticce. Gli indios costituiscono il settanta per cento della popolazione, i meticci e i bianchi il trenta. Dato che questo trenta per cento sfrutta il rimanente settanta, in Guatemala la lotta di classe assume la forma di una guerra razziale. Quella volta, nel 1944, i contadini di Patzicía si erano scordati che la rivoluzione scoppiata nella capitale era un movimento interno, in seno a quel trenta per cento oligarchico. Il giorno dopo l’espulsione di Ubico, la nuova giunta inviò a Patzicía una spedizione punitiva. “La giunta,” scrive Monteforte Toledo, “soffocò la ribellione massacrando gli indios con carri armati e soldati.”
Si era trattato, quindi, di una rivoluzione di carattere limitato. I giovani ufficiali non avevano nessuna intenzione di rovesciare il sistema, ma solo di sanare la situazione. Una differenza, come si sa, essenziale. Ma, per le condizioni del Guatemala, quella era una rivoluzione bella e buona.
La giunta militare indisse le elezioni. Fu eletto presidente della Repubblica un professore universitario, profugo politico sotto il governo di Ubico: Arévalo Bermejo. Le riforme introdotte da Arévalo possono sembrare insignificanti, ma in quel paese ognuna di esse rappresentò una svolta cruciale. Pedagogo per professione e per passione, nonché autore di un libro intitolato La pedagogía de la personalidad,[5] Arévalo, per esempio, cominciò a costruire scuole. La fazione liberale dell’oligarchia considerò quella trovata come una delle tante fisime del professore, ma i liberali erano in minoranza. La maggioranza conservatrice gli dichiarò guerra. Agli occhi dell’élite guatemalteca, costruire scuole è tuttora un delitto. Ricordiamoci le parole del ministro: “Si rende conto di dove andremmo a finire, caro signore… ecc.”.
Nel 1947, su iniziativa di Arévalo, il parlamento approvò il Codice del Lavoro, che aumentava lo stipendio minimo da cinque a ottanta centesimi al giorno. In Guatemala il sessanta per cento dei lavoratori vive dello stipendio minimo. Il sessanta per cento delle persone, dopo un mese di duro lavoro, portava a casa un dollaro. D’ora in poi, ne avrebbe portati diciassette. Si trattava comunque di un salario da fame, visto che in Guatemala i prezzi sono alti come negli Stati Uniti. Ma i reazionari locali accolsero il codice di Arévalo come una specie di “manifesto comunista” e scatenarono un attacco in piena regola. Dopo sei anni di governo, nel passare le consegne al suo successore, il professor Arévalo dichiarò in un discorso di circostanza di aver dovuto sventare trentatré congiure della United Fruit e dell’oligarchia locale miranti a rovesciare a mano armata il governo. In seguito Arévalo pubblicò vari libri circa la politica di Washington nell’America Latina. Essendo stato presidente, sapeva molte cose e quei libri (tra cui Fábula del tiburón y las sardinas,[6] e Guatemala, la democracia y el imperio),[7] scritti in uno stile irruente e un po’ caotico, contengono centinaia di ripugnanti prove della brutalità e del cinismo del colonialismo statunitense. La più totale amoralità, la più totale abiezione.
Nel frattempo a Washington, visto che in Europa tutto era tranquillo e il piano Marshall funzionava efficacemente, qualcuno si accorse che in Guatemala vigeva un governo democratico. Una brutta notizia.
Purtroppo nessuna delle modeste riforme introdotte da Arévalo poteva venir fatta rientrare nel quadro di un’aggressione comunista. Fu grazie a ciò che Arévalo riuscì a salvarsi. Se avesse fatto un solo passo più in là, per esempio obbligando la United Fruit a pagare qualche dollaro di tasse, allora sì che si sarebbe potuto parlare di un’inequivocabile “aggressione comunista”. In casi come quelli le cose diventavano semplici: scattava il meccanismo dell’opposizione al nemico e un intervento armato metteva automaticamente fine alla palese aggressione.
Per il momento, tuttavia, si decise di tenere sott’occhio il Guatemala. Brutto segno. La storia insegna che quando Washington si mette a tener d’occhio qualcuno, il sospettato prima o poi cade in disgrazia. Sappiamo quello che accadde quando l’ambasciatore degli Stati Uniti in Brasile, Lincoln Gordon, cominciò a tenere d’occhio il presidente Goulart. Sappiamo quello che accadde quando il presidente Johnson cominciò a tenere d’occhio la Repubblica Dominicana.
Questa volta – siamo nel 1951 – Washington inizia a tenere d’occhio il colonnello Jacobo Árbenz Guzmán. Árbenz è presidente della Repubblica dal mese di marzo. Ha trentasei anni e molta buona volontà. Uomo dalla mente semplice, più pratica che teorica, è comunque un Albert Einstein in confronto a tutti coloro che hanno governato il Guatemala fino al 1944, nonché in confronto a tutti quelli che lo governeranno dopo di lui. Il colonnello Árbenz è una delle figure tragiche della politica latinoamericana. La sua tragicità consisteva nel suo modo di ragionare lineare e nel fatto di enunciare verità evidenti. Ossia, in un modo di pensare e di parlare che in America Latina era assolutamente inammissibile.
E, invece, Jacobo Árbenz Guzmán pensava. “Visto che la United Fruit,” si diceva, “ricava dal Guatemala un guadagno di sessantasei milioni di dollari all’anno (nel 1950), mentre il settantacinque per cento della nostra popolazione va in giro scalza, ci paghi un milione di dollari di tasse e nel giro di due anni forniremo scarpe a tutti i bambini delle campagne.” Altro esempio: “Visto che la United Fruit coltiva soltanto l’otto per cento dei suoi terreni lasciando il resto incolto, mentre un milione e mezzo di contadini guatemaltechi è privo di terra, ci restituisca una parte di quei terreni incolti e noi li distribuiremo a chi non li ha”.
Il presidente confidò a Tizio e a Caio le sue riflessioni e in men che non si dica sulla scrivania dell’ambasciatore degli Stati Uniti cominciarono a piovere le denunce. Poco tempo dopo, al dipartimento di Stato già si parlava della questione Árbenz e i prestiti al Guatemala venivano congelati.
I guatemaltechi ricordano i tre anni di governo Árbenz come l’unico periodo in cui hanno avuto la sensazione di vivere in modo normale. Si poteva parlare a voce alta. Si potevano rivendicare i propri diritti. I contadini potevano organizzarsi in sindacati. Si parlava di dare il via a un piano edilizio di case popolari. Di abolire il lavoro obbligatorio.
Verso la metà del 1952 il governo di Árbenz promulgò il Decreto sulla riforma agraria. Era un documento equilibrato, moderato. Diceva che la riforma si proponeva come obiettivo la creazione di una “economia agraria capitalista”. Il decreto conteneva tuttavia due misure che attirarono sul Guatemala l’intervento armato degli Usa. E cioè:
– aboliva l’imperante sistema feudale (“è abolita qualsiasi forma di servitù della gleba e di schiavitù e, quindi, sono proibite le prestazioni personali gratuite dei contadini”);
– introduceva il diritto di esproprio delle terre incolte: ma solo di quelle e, per giunta, “previo indennizzo”. Le piantagioni e le altre terre coltivate non erano soggette all’esproprio.
La riforma non si proponeva di eliminare i latifondi, ma solo di introdurre un minimo di razionalità e di buon senso: secondo i dati del censimento agrario del 1950, il settantuno e mezzo per cento dei latifondi non era mai stato coltivato e la United Fruit possedeva un novantadue per cento di terre in abbandono permanente. Nello stesso tempo (secondo i dati del medesimo anno), il cinquantasette per cento dei contadini non possedeva neanche un pugno di terra, e il rimanente ne possedeva giusto quel tanto sufficiente – come scrive Eduardo Galeano – “a scavarcisi la fossa”. La fame decimava le campagne guatemalteche: il sessantasette per cento della popolazione moriva prima dei vent’anni.
Se la riforma avesse colpito soltanto i magnati locali, Washington avrebbe magari lasciato correre. Ma nell’autunno del 1953 Árbenz confiscò quasi la metà dei terreni incolti della United Fruit: ottantatremila ettari. In cambio di quelle terre, ricevute gratuitamente dal presidente Estrada, la United Fruit era stata risarcita dal presidente Árbenz con un milione e duecentomila dollari. Ma che cos’erano mai, per la United Fruit, un milione e duecentomila dollari? Una somma ridicola.
Il problema, comunque, non era il denaro. Lo scandalo stava nel fatto che Árbenz aveva tentato di creare un precedente inammissibile: violare il territorio di un monopolio statunitense. Per la mentalità del dipartimento di Stato, un terreno appartenente a un’impresa privata nordamericana, fosse anche in capo al mondo, rappresenta un’estensione del territorio degli Stati Uniti d’America. Toccarlo equivale ad attentare alla sacralità delle frontiere americane. Chi ignora questa mentalità difficilmente potrà capire la massa dei problemi che si addensano sulla testa dell’audace azzardatosi – entro i confini del proprio paese! – a strappare al monopolio statunitense mezz’ettaro di sabbia sterile. Le urla arrivano al cielo!
Violando i confini della United Fruit (ossia, secondo l’opinione degli esperti di Washington, i confini degli Stati Uniti), il colonnello Árbenz aveva pronunciato la sua stessa condanna. Neanche a farlo apposta, nello stesso periodo in cui, per ordine del colonnello, gli aratri solcavano le terre incolte dell’impero bananiero, a capo del dipartimento di Stato fu nominato l’ex avvocato, e ora socio, della United Fruit, John Foster Dulles. Dulles si gettò a capofitto nel gorgo del conflitto guatemalteco. Insieme al fratello Allen Dulles, capo della Cia, si mise energicamente al lavoro. La questione non presentava particolari difficoltà, poiché un misfatto quale la confisca di terreni appartenenti al monopolio statunitense rientrava a buon diritto nel novero delle “aggressioni comuniste”. A quel punto bastava semplicemente mettere in moto il meccanismo dell’opposizione al nemico.
5.
L’invasione del Guatemala iniziò il 17 giugno 1954. La guidava il colonnello Castillo Armas, un traditore condannato a morte e fuggito di prigione quattro anni prima. Gli americani gli avevano dato sei milioni di dollari perché formasse un esercito. Gli fornirono aerei, piloti, armi e stazioni radio. Con i sei milioni di dollari Armas aveva comprato seicento uomini. Ci vuole poco a capire che li pagava bene. Aveva messo insieme la feccia del mondo intero: carcerati colombiani, narcotrafficanti portoricani, mercanti di schiavi brasiliani, il barman di un bordello di Tegucigalpa… La colonna di Castillo Armas mosse dal suolo honduregno, mentre a Washington i fratelli Allen e John Foster Dulles, attaccati al telefono, stavano in attesa dei rapporti.
Centosedici anni prima aveva marciato contro la capitale una colonna di becchini comandata da Rafael Carrera e armata di vecchi moschetti. In testa al corteo avanzavano tre monaci con croci di legno per proteggere i becchini dall’infuriante epidemia di colera. I becchini combattevano il colera intonando canti religiosi nonché razziando tutto quello che trovavano cammin facendo; andavano a scacciare il responsabile dell’epidemia, il liberale Mariano Gálvez.
Centosedici anni dopo, armata di moderne mitragliatrici, marciava contro la capitale la colonna dei mercenari di Castillo Armas. L’epidemia di colera non c’era più ma, come diceva il comunicato di Armas, nel paese “infuriava la peste comunista”. Per questo i mercenari portavano croci con sopra inchiodato un pugno. Il colonnello Armas reggeva l’immagine del Cristo di Esquipulas, patrono del Guatemala. Alla testa della colonna sventolavano i vessilli ecclesiastici. Quei discendenti dei becchini non combattevano più il colera, ma il comunismo, e marciavano sulla capitale per scacciarne il responsabile del contagio: Árbenz Guzmán.
Dalla capitale la colonna riceveva ordini via radio dall’ambasciatore degli Stati Uniti John Peurifoy. Il giorno dell’invasione Peurifoy aveva indossato l’uniforme color cachi e si era appeso una Colt alla cintola. L’ambasciata era in preda a un viavai febbrile.
Alcune strade più in là, Árbenz era rimasto solo nel palazzo presidenziale. La maggior parte dei comandanti dell’esercito si trovava già in attesa di ordini nell’ufficio di Peurifoy. Árbenz ritenne che non avesse senso opporre resistenza. Convocò il comandante in capo delle forze armate, il colonnello Enrique Díaz e gli passò i poteri. “Poche ore dopo l’entrata in carica del colonnello Díaz,” ricorda nel suo libro La batalla de Guatemala[8] il ministro degli Esteri del governo Árbenz, Guillermo Toriello, “Peurifoy si presentò nel suo ufficio. Nel frattempo erano stati arrestati numerosi capi del Pgt (Partido Guatemalteco del Trabajo, il partito comunista) e di alcuni sindacati. L’incontro, secondo quanto racconta Díaz, si svolse nel modo seguente: Peurifoy aveva portato un lungo elenco dei nomi dei capi in questione. Lo porse a Díaz chiedendo che quanti si trovavano sulla lista venissero fucilati nel giro di ventiquattr’ore. ‘Ma perché?,’ chiese Díaz. ‘Perché sono comunisti,’ rispose Peurifoy. Díaz rifiutò categoricamente di sporcarsi le mani e la coscienza con quel crimine ripugnante e respinse la pretesa di Peurifoy di venire a dargli ordini. ‘Dunque è no?’ chiese Peurifoy. ‘No,’ rispose Díaz. ‘Tanto peggio per lei,’ disse Peurifoy, e se ne andò.”
Toriello ricorda anche che quando, alcuni giorni dopo, uno degli ufficiali osò, alla presenza dell’ambasciatore degli Usa, accennare all’opportunità di ridurre Castillo Armas a più miti consigli, Peurifoy l’interruppe con violenza: “Piantiamola di dire fesserie. Ricordatevi una volta per tutte che questa non è la lotta di Castillo Armas, ma quella del dipartimento di Stato, per cui si farà quello che deciderà di fare il dipartimento di Stato”.
E Castillo Armas lo fece.
“Non appena instaurato il regime satellite,” scrive più avanti Toriello, “iniziò una vera e propria caccia all’uomo, e non solo contro gli ex funzionari e leader politici, ma contro tutti coloro che in un modo o nell’altro erano contrari o si opponevano agli interessi particolari dei ‘liberatori’. In breve le prigioni di tutto il paese si riempirono di un numero di persone dieci volte superiore alla loro capienza. […] Nelle campagne e tra le piccole popolazioni dell’interno furono assassinati, e continuano a essere assassinati, un gran numero di dirigenti sindacali e di contadini occupanti parcelle di terreni provenienti dalla riforma agraria o che, in qualche modo, si opponevano alla tirannia. Nel paese dilagò il terrore. I contadini si spostavano gli uni dopo gli altri verso le montagne per sfuggire alle bande che li inseguivano in nome della ‘liberazione’ del Guatemala. E tutti questi crimini contro la vita, la libertà e i diritti umani furono commessi da Castillo Armas nel nome di Dio e con la scusa di sradicare il comunismo. Tornarono in vigore le vecchie pratiche dei tiranni del Guatemala, con la differenza che, prima, le persecuzioni politiche avvenivano ‘per ordine del presidente’, mentre ora avvengono ‘per deposizione del Comitato nazionale di difesa dal Comunismo’. […] Il Comitato divenne padrone di vita e di morte sull’intera popolazione. Una chiacchiera, una voce, la cattiva volontà di un funzionario o di un fautore del regime sono sufficienti a far perseguitare, incarcerare, torturare chiunque. Il ‘comunismo’ continua a essere un pretesto per liquidare gli avversari del regime e per compiere vendette personali. In pratica, un guatemalteco medio cui la dignità e il patriottismo non permettano di accettare il regime vigente, ha davanti a sé solo tre strade: la prigione, l’esilio o la tomba…”
6.
In memoriam delle persone assassinate nei primi giorni della controrivoluzione:
Javier Acevedo, di Chiquimula, contadino;
Catarino Alvarado, di San Juan, contadino;
Rogelio Arévalo, di Puerto Barrios, operaio;
trentotto contadini fucilati a Las Cruces, Ipala;
Andrés Cruz e suo fratello, di Puerto Barrios, operai;
Rolando Cordón, di Teculután, capovillaggio;
Claudio Gutiérrez e i suoi due figli, di Chiquimula, contadini;
quarantanove contadini fucilati a Río Shusho;
diciotto contadini fucilati a Los Cimentos;
Salvador Jacinto, di La Tuna, contadino;
Antonio Castro, di Chiquimula, ferroviere;
Juan Ruiz, di Petara, contadino;
Cupertino Tiul e la moglie, di Puerto Barrios, operai;
ventinove contadini fucilati a San Juan Sacatepéquez;
due membri del Comitato per la riforma, di Acasaguastlán;
Amical Solís, di Morales, operaio;
Macario López, di El Progreso, contadino;
Carlos Archila, di Città del Guatemala, sergente;
Bonifacio Méndez, di Zacapa, contadino;
Aureliano Véliz, di San Vicente, contadino
(dalla lista della Confederazione generale degli operai del Guatemala, febbraio 1955)
La lista continua ad allungarsi, con aggiunte quotidiane fino a oggi.
7.
Il presidente Árbenz Guzmán si salvò rifugiandosi nell’ambasciata messicana. Dopo due mesi di trattative con il governo messicano, il dipartimento di Stato accettò che Árbenz, costituzionalmente ancora presidente del Guatemala, lasciasse l’ambasciata per andare in esilio.
Davanti all’ambasciata e lungo il tragitto fino all’aeroporto si raccolse al completo il fior fiore del nuovo regime: i carcerati criminali della Colombia, i narcotrafficanti del Portorico, i mercanti di schiavi del Brasile e il barman del bordello di Tegucigalpa. C’erano anche i proprietari dei ricchi negozi che Árbenz aveva costretto a pagare le tasse. E i proprietari delle piantagioni di caffè che Árbenz aveva obbligato a rispettare gli operai. Migliaia di agenti della Cia addetti a “propagare la democrazia”. La direzione della filiale guatemalteca della ditta Share and Bond di New York, che Árbenz aveva costretto ad abbassare il prezzo dell’energia elettrica. Una delegazione di supporter della United Fruit. Tutta quella folla aspettava Árbenz armata di pietre, di uova marce e di topi morti. Árbenz doveva passarci in mezzo a piedi, poiché Castillo Armas aveva proibito che lo si accompagnasse in macchina.
L’ambasciatore messicano sapeva che Árbenz rischiava di non arrivare vivo all’aeroporto. Fece portare una bandiera del suo paese e vi avvolse il presidente del Guatemala. Árbenz apparve sulla porta dell’ambasciata avvolto nella bandiera messicana e attorniato dal personale della sede diplomatica. Iniziò la marcia verso l’aeroporto in mezzo alla folla inferocita e impotente che ne seguiva il passaggio. All’aeroporto l’ambasciatore dovette separarsi da Árbenz. Un aereo pronto al decollo era in attesa, mentre Peurifoy, il regista in capo della scena, si aggirava sulla pista. Il presidente Árbenz si fermò in attesa degli eventi. Il regista in capo aspettò che il pubblico fosse al completo. Poi dette l’ordine. Gli uomini della colonna di Armas si avvicinarono al presidente e gli imposero di denudarsi. Árbenz cominciò a spogliarsi. La folla urlava e fischiava. Árbenz rimase in mutande e non lasciò che gliele togliessero.
Così conciato salì sull’aereo.
Ancora oggi Árbenz continua a vagare per il mondo. Tace, non concede interviste, non rilascia dichiarazioni. Non si fa fotografare. Ma ogni tanto qualche fotografo riesce a rubare uno scatto e allora sui giornali compare la faccia oblunga di Árbenz, l’uomo che ha osato spezzare il silenzio necessario alle banane della United Fruit, e che era comunista perché voleva che ogni bambino del Guatemala avesse un paio di scarpe.
8.
Castillo Armas, il nuovo presidente, non si dedicò esclusivamente agli eccidi. Consacrò una cospicua parte del suo tempo anche all’attività legislativa. In due anni promulgò cinquecentosettantaquattro decreti che annullavano tutte le conquiste ottenute dalla rivoluzione. Revocò il decreto sulla riforma agraria e restituì i terreni alla United Fruit. I contadini ai quali Árbenz aveva dato la terra ne furono espulsi. I monopoli esteri furono esonerati dal pagare le imposte. Quarantacinque imprese petrolifere straniere ottennero concessioni per sfruttare un totale di quattro milioni e seicento ettari, ossia quasi la metà del territorio statale.
Le acque del Guatemala, che nel 1944 erano uscite dagli argini in cerca di un nuovo sbocco, rientrarono nel vecchio alveo.
Nella primavera del 1957, tra le venerabili mura della Columbia University di New York ebbe luogo una cerimonia: in riconoscimento dei servigi resi alla democrazia americana, il colonnello Armas ottenne il titolo di dottore honoris causa.
Così giubilato, e ormai inutile, il 26 luglio dello stesso anno, per ordine della Cia, venne assassinato dalle pallottole sparate da Roberto Montez, membro della sua guardia del corpo.
[Il reportage continua, addentrandosi nei particolari della guerriglia rivoluzionaria guatemalteca e dell’uccisione dell’ambasciatore tedesco Karl Von Spreti; per continuare a leggere consigliamo vivissimamente il volume di Feltrinelli, hanno fatto anche cose buone, soprattutto nel passato]
[1] Prima di venire inserito nel volume Cristo con il fucile in spalla (1975), dove apparve scorciato e con il titolo Morte di un ambasciatore, questo reportage venne pubblicato individualmente nel 1970. Nella presente edizione si recupera il testo originale completo. Le notizie circa fatti “odierni” o “tuttora esistenti” vanno riferite all’anno 1970. [N.d.T.]
[2] E. Galeano, Guatemala, país ocupado, Nuestro Tiempo, Mexico D.F. 1967. [N.d.T.]
[3] D.G. Munro, The Five Republics of Central America, their political and economic development and their relations with the United States, Oxford University Press, 1918. [N.d.T.]
[4] T.L. Karnes, The Failure of Union: Central America, 1824-1960, University of North Carolina Press, 1961. [N.d.T.]
[5] A. Bermejo, La pedagogía de la personalidad, Libreria “El Ateneo” Editorial Cultural, Buenos Aires 1937. [N.d.T.]
[6] A. Bermejo, La fábula del tiburón y las sardinas, ed. Palestra Montevideo, 1961. [N.d.T.]
[7] A. Bermejo, Guatemala: la democracia y el imperio, America Nueva, 1954. [N.d.T.]
[8] G. Toriello, La batalla de Guatemala, Editorial Universitaria, Universidad de San Carlos de Guatemala, 1997. [N.d.T.]