“Credo che nell’assurdità della situazione attuale nessuno possa dire con certezza qual è la postura di uno o dell’altro governo: si dice una cosa, se ne pensa un’altra e se ne fa una terza.” Le parole con cui apre l’intervista Oleg Yasinsky, giornalista ucraino per Telesur residente a Mosca, lasciano intendere il suo distacco dalle opinioni ufficiali sulla guerra che sta devastando il suo Paese.
“Tu dall’Italia,” mi dice, “Sai bene cosa succede a una persona o a un giornalista che non solo pensa bene della Russia, ma questiona e mette in dubbio la narrazione dell’aggressione russa all’Ucraina: perde il lavoro.”
Fortunatamente, gli rispondo, sono lontano tanto dalla remunerazione quanto dalla propaganda con cui il mondo occidentale avvolge di menzogne ideologiche un conflitto in cui la morale conta ben poco. Perché come Yasinsky sottolinea fin da subito, l’unico modo per provare a capirci qualcosa in questa terribile storia è applicare la logica, pensare con lo stesso realismo geopolitico con cui pensano quelli che l’hanno scatenata. Dunque, non ci resta che addentrarci senza pregiudizi in una differente prospettiva, quella di chi ha vissuto fin da principio fatti a noi lontani nello spazio e nel tempo.
Bisogna innanzitutto capire a chi conviene vincere questa guerra e perché, spiega il giornalista. È un panorama molto differente dai conflitti mondiali del secolo scorso, così come da quelli delle ultime decadi. La stampa è la prima vittima: i media che prima si ritenevano seri e responsabili ora non sono più né l’una né l’altra cosa; sono anzi stati assorbiti dalla guerra cognitiva che il neoliberalismo sta portando avanti. Sembra che al mondo importi ogni giorno di meno di questa faccenda bestiale, per cui risulta facile manipolare e controllare i mezzi di comunicazione per raccontare qualsiasi storia. In fondo, i grandi padroni delle reti mediatiche sono esperti nel perseguire sempre i propri interessi e le proprie necessità.
Yasinsky fa l’esempio di misure come la controffensiva ucraina o il recente “piano per la vittoria” sbandierato da Volodymyr Zelenskyj durante il suo viaggio di visita ai governi alleati: l’obiettivo principale è dimostrare a chi favorisce, promuove e controlla la guerra che questo denaro è usato bene e che l’esercito sta avanzando, così da ottenere altri finanziamenti. Il punto, dice, è che ci troviamo di fronte a un gigantesco affare, un affare così grande che si farà tutto il possibile affinché non finisca mai: sono milioni di dollari ogni giorno.
Non è un caso che anche Corea del Nord e Corea del Sud si stiano inserendo nel conflitto, attraverso l’invio di migliaia di soldati. È un affare che costa molte vite e molto sangue, certo, e viene fatto sulla pelle dei popoli europei, ma questo ai complessi industriali e militari che fanno funzionare le economie capitaliste importa ben poco. In Ucraina pensano ancora di poter “democratizzarsi” o “europeizzarsi”, ma nessuno gli regala questo conflitto: il Paese è già fin troppo indebitato e non potrebbe ripagare i prestiti nemmeno con tutta la sua terra, le sue tasse e le sue risorse. Nel caso ipotetico in cui vinca la guerra, perderà la pace. Smetterà ugualmente di esistere perché dovrà restituire tutto ciò che ha ricevuto in forma di “aiuti di solidarietà”: si ritroverà condannato a una dipendenza economica pari a quella delle repubbliche bananere dell’America Centrale. Yasinsky sottolinea però che in realtà stanno perdendo tutti i popoli, sicuramente anche quello nordamericano, e di fronte al loro sacrificio c’è un chiaro vincitore in tutta questa faccenda.
Una volta si diceva che l’Ucraina doveva essere Europa: curioso che ora invece sia l’Europa a convertirsi in Ucraina. Secondo il giornalista, tutto il continente è ostaggio degli Stati Uniti e della NATO e più in profondità dei conglomerati multinazionali, delle banche mondiali, dei fondi di investimento speculativi che sono i veri padroni del potere, del quale i governi sono solo i direttori di facciata. Il suo Paese, d’altro canto, è un vassallo che compie la volontà altrui, che deve dimostrare di ottenere risultati e di poter vincere qualcosa. Ci sono centinaia di morti giornalieri che si usano come carne da cannone, ma gli interessi in gioco sono di altri: più vittime ci saranno, più difficile sarà la riconciliazione tra i due Paesi fratelli, che alcuni sembrano ansiosi di separare il più possibile.
Uno degli obiettivi non dichiarati di questa guerra è infatti dividere il mondo post-sovietico e debilitare il ruolo dell’Europa nel mondo. Agli Stati Uniti non è mai piaciuto il ruolo ambiguo dell’Unione Europea nella guerra economica con la Cina: negli ultimi anni si sono stipulati importanti trattati da entrambe le parti e sono nate relazioni economiche con la potenza orientale, oltre a quelle già consolidate con la Russia. Si sa che gas e petrolio rimangono tutt’ora i motori delle economie capitaliste occidentali: in seguito alle sanzioni economiche, la dipendenza dell’UE dalle risorse energetiche russe è calata, ma non a caso sono aumentate le importazioni dagli Stati Uniti, esperti nel saccheggio delle ricchezze del Medio Oriente e dell’America Latina e nella rivendita dei prodotti raffinati al mondo intero.
Secondo Yasinsky, non si può parlare di guerra tra Russia e Ucraina perché l’Ucraina non ha alcuna soggettività politica, è un’appendice della struttura militare della NATO. Il governo ucraino da parte sua non decide nulla e i governi europei molto poco; la Francia ha la deterrenza nucleare, ma secondo il trattato euroatlantico Emmanuel Macron non può premere il bottone rosso senza prima passare per l’approvazione e il permesso degli Stati Uniti. Il giornalista ride: se Charles De Gaulle avesse visto questa situazione non ci avrebbe creduto, dice, perché l’indipendenza dei Paesi della comunità europea sta completamente scomparendo, di fronte alle ingerenze statunitensi. Provo a chiedergli delle elezioni 2024, ma liquida l’argomento: il governo degli USA è soltanto la gestione organizzata degli interessi di multinazionali e fondi trasnazionali, ma dare l’illusione di un cambiamento, attraverso la riproposizione di due lati della stessa medaglia, fa parte del mantenimento dell’ordine storico dell’impero.
Anche l’isolazionismo e il protezionismo economico di Trump dovrebbero fare i conti con gli affari portati avanti dalle grandi corporazioni e dalle imprese che finanziano la sua campagna elettorale, in materia di guerra ed esportazione di armi. Se il politico più controverso del pianeta rappresentasse davvero un’alternativa, sottolinea Yasinsky con il suo cinismo sovietico, lo avrebbero già ucciso, secondo la tradizione americana di eliminare i presidenti scomodi. Ciò che potrebbe causare la sua elezione è invece lo scoppio di una guerra di larga portata in Medio Oriente, che distoglierebbe l’attenzione dal problema ucraino.
Qui, un’ipotetica negoziazione di pace coinvolgerà necessariamente gli USA e la Cina. Il bersaglio indiretto per gli Stati Uniti è proprio la potenza orientale, che negli ultimi anni è diventata il principale ostacolo sulla via del predominio mondiale che gli yankees sono tanto ansiosi di riconquistare. Vladimir Putin, obiettivo principale della propaganda occidentale, importa in realtà molto meno del controllo sulle infinite risorse naturali della Russia. In questo panorama geopolitico, l’Ucraina fu un esperimento: si trattò delle prove generali per testare la Russia, per vedere fino a che punto si potesse destabilizzare l’equilibrio precario che si era creato dopo la caduta del muro di Berlino, fino a che punto si potessero separare i popoli dell’Europa dell’Est, secondo la vecchia strategia del dividi et impera. Sappiamo come funziona il neoliberalismo, dice Yasinsky: da molto tempo le guerre non si combattono più per il territorio. Non c’è bisogno di conquiste militari, quando è sufficiente controllare i governi, le economie o il fast-food che in Occidente si chiama cultura, in grado di creare o distruggere qualsiasi mito nazionale. Prima per fare un golpe servivano i carri armati, ora è sufficiente l’ingranaggio oliato ed elegante della stampa. Ma cosa fu nel concreto questo esperimento?
La lezione di storia che tiene Yasinsky nel corso della nostra chiacchierata ha inizio con la perestrojka in Unione Sovietica, che lui definisce una truffa ideologica. Non costituì solo l’autodistruzione dell’URSS, ma fu anche opera dei servizi d’intelligence occidentali, che trovarono i punti deboli del nemico: approfittarono della depoliticizzazione della gioventù, dell’ingenuità e dell’infantilismo politico dell’URSS, ma soprattutto delle élites sovietiche mai scomparse del tutto, le quali capirono che conveniva convertire il Paese in un sistema capitalista: seguirono privatizzazione e riforme neoliberali.
Per facilitare questo processo, la distruzione della memoria storica era la condizione necessaria: emerse il discorso anticomunista, che iniziò con la critica di Stalin e continuò con quella di Lenin, per poi generalizzare a tutte le idee considerate di sinistra, con l’affermazione che la felicità dell’umanità sarebbe stata capitalista, che il comunismo non serviva a nulla. Nelle repubbliche nazionali come l’Ucraina si aggiunse a questo il discorso antirusso; l’interesse occidentale era dividerle, perché non era possibile dominarle fino a quando si fossero mantenute unite a livello ideologico e culturale. In fondo, il 70% della popolazione ucraina parla russo come lingua nativa: non è una minoranza. L’Ucraina è un paese bilingue mescolato, in cui è quasi impossibile fare distinzioni nette. Al mondo non ci sono due popoli che si assomiglino come russi e ucraini: prima del conflitto c’erano due lingue, due culture, ed era considerato assurdo contrapporle.
Si costruì il mito dell’Ucraina sovrana, eroica, lottatrice per i valori democratici europei, l’arma perfetta per destabilizzare la Russia. Quando iniziò la perestrojka e il paese si rese indipendente, nel 1991 – indipendente per modo di dire aggiunge Yasinsky: quando faceva parte dell’URSS aveva più sovranità di adesso, almeno secondo lui – iniziò la guerra delle autorità ex-comuniste, convertitesi in capitaliste, contro le forze di sinistra. Continuavano a esistere il Partito Comunista e il Partito Socialista, ma erano pura forma senza contenuto: venivano gestiti dai vecchi funzionari che mantenevano il proprio elettorato anziano e nostalgico, ideologizzato ma senza forze combattive. I sindacati d’altro canto non sono mai stati molto forti, avevano una dipendenza totale dal Partito Comunista e in quegli anni non c’era un movimento dei lavoratori solido, radicato come in Occidente nel Novecento. La maggior parte della gente manteneva i propri valori individualisti, mancava l’organizzazione sociale, i partiti venivano appoggiati dai sostenitori inseguendo l’una o l’altra promessa, mentre l’unica forza politica giovane e viva che riuscì ad attivarsi fu l’estrema destra. “Qualsiasi fascismo è una rivoluzione frustrata”, ricorda Yasinsky.
Il governo filo-russo di Janukovyč, piccolo oligarca corrotto e poco popolare in guerra contro gli altri oligarchi più potenti, tra il 2010 e il 2014 iniziò a violare le regole non scritte che ci sono in qualsiasi mafia: all’élite ucraina non piacque e l’Occidente ne approfittò per organizzare questi potenti gruppi economici contro di lui, già di per sé poco popolare a Kiev e in Ucraina centrale. Molta gente scontenta esigeva la sua rinuncia e uscì per le strade; ingenuamente, credevano nel sogno europeo per combattere la corruzione, mentre dall’altro lato non c’era una forza di sinistra a offrire un’alternativa. L’estrema destra organizzò l’Euromaidan, la “rivoluzione per la dignità”, un movimento nato dalle proteste filoeuropee concentratesi nella capitale ucraina, che Yasinsky definisce un colpo di stato appoggiato dall’Occidente per provocare la Russia e vedere come avrebbe reagito.
Il Donbass non appoggiò né riconobbe il governo nazionalista insediatosi in seguito; non lo riteneva legittimo e si sentiva più vicino ai russi. Il giornalista spiega che la gente lì è molto più sovietica nel modo di pensare, molto più di sinistra a dire il vero, pur senza essere del Partito Comunista, e non voleva l’avvicinamento all’Unione Europea. Il governo ucraino mandò l’esercito nelle repubbliche separatiste e iniziò a bombardarle, in quanto rivendicavano la propria sovranità e indipendenza. A quel punto, nemmeno la Russia voleva riconoscere il governo illegittimo, perché per quanto Janukovyč fosse corrotto e spiacevole, venne eletto regolarmente e la sua deposizione fu una violazione della Costituzione. Tuttavia, si voleva evitare la guerra e Putin si fidò dei governi europei, come quello di Angela Merkel. Questo secondo Yasinsky fu un errore: ora quegli stessi alleati stanno confessando come nessuno fosse intenzionato a rispettare gli accordi di Minsk, un precario “cessate il fuoco” stabilito nel 2014, i quali anzi servivano solo a distrarre la Russia e a guadagnare tempo intanto che si armava l’Ucraina. Yasinsky sostiene che se la Russia avesse reagito alle provocazioni fin da subito avrebbe salvato molte vite, la Crimea e il Donbass farebbero di nuovo parte dell’Ucraina e non ci sarebbe un governo fascista. Invece Putin temporeggiò troppo e negli otto anni successivi i media modellarono la coscienza delle nuove generazioni, preparando la carne da cannone contro la Russia, mentre la NATO riempì l’Ucraina di armamenti e istruttori per prepararla alla guerra.
Dopo il golpe di Maidan, il discorso nazionalista fu rimpiazzato da una vera e propria retorica nazifascista: avvenne una riscrittura della Storia e della liberazione del Paese, fu proibita la simbologia comunista, non solo sovietica ma in generale di sinistra, mentre la simbologia nazista divenne gradualmente più consentita e integrata nella società. Furono riabilitate figure compromesse come Stepan Bandera e altri criminali di guerra, mentre dall’altro lato i monumenti dedicati ai soldati sovietici che liberarono l’Europa dal fascismo e dal nazismo vennero distrutti. Yasinsky ritiene che si tratta di una guerra cognitiva, l’oblio contro la memoria: quando a Maidan ci furono le ribellioni dirette dai gruppi neonazi, cantavano “Bella Ciao” e “El Pueblo Unido”: non avevano una propria cultura di resistenza e rubavano i canti partigiani, appropriandosi del contenuto. Questo avvenne non solo in Ucraina, ma anche in Polonia e nelle repubbliche baltiche; le autorità europee e la NATO sono complici indirette di questa cosa.
Le recenti elezioni in Georgia sono un cliché del modus operandi occidentale, spiega il giornalista, che passa per un ribaltamento della realtà. Da un lato il partito Sogno georgiano al governo dal 2012, che si riconferma vincitore di queste elezioni, è accusato di essere filo-russo, malgrado tra i suoi obiettivi programmatici ci sia l’adesione alla comunità europea. L’etichetta malfamata deriva da uno scetticismo nei confronti delle politiche NATO e dell’asservimento cieco alle esigenze di Bruxelles, rappresentato dall’alternativa politica del Movimento Nazionale Unito, partito conservatore fondato da Mikheil Saakashvili, presidente della Georgia tra il 2004 e il 2013.
Yasinsky spiega che la dipendenza dagli USA e le imposizioni europee in quegli anni hanno portato alla guerra russo-georgiana e a un’applicazione metodica del modello neoliberale da parte di Saakashvili, che in pieno stile Pinochet ha regalato i porti georgiani sul Baltico alle basi militari NATO e ha portato alla miseria l’assoluta maggioranza della popolazione. L’accusa di brogli che ha lapidato Sogno georgiano su qualsiasi media occidentale fa parte della distruzione della legittimità politica del partito al governo, in quanto non rappresenta gli interessi strategici e geopolitici nella regione: così come a Maidan nel 2014 o in Venezuela durante i mandati di Nicolas Maduro, le ingerenze occidentali puntano a rendere mobili i confini del concetto di democrazia per trarne vantaggio… Salvo poi tradirne i principi stessi a casa propria, come abbiamo visto per il mancato cambio di rotta a seguito della crisi di governo francese.
È chiaro che questa narrazione del giornalista di Telesur sia completamente diversa rispetto a quella venduta alle masse in tutto l’Occidente: il quadro semplicista che i media offrono da questo lato del fronte è una guerra subita da un Paese sovrano, l’Ucraina, invaso da un impero per rubargli il territorio, la Russia. È evidente che in questo caso sia logico inviare armi all’aggredito e appoggiarlo in ogni modo. Tuttavia, secondo Yasinsky l’Ucraina fu indipendente tanto tempo fa, non certo adesso. La sua speranza di ottenere una propria sovranità durò fino al 2014, quando il golpe di Maidan la infranse. Da quel momento, non stiamo parlando di un Paese unito ma di un regime coloniale costruito dall’Occidente, in un gioco perverso in cui il popolo ucraino è sacrificato, disposto a combattere fino all’ultimo uomo. Durante i governi successivi all’indipendenza fu distrutto il sistema dell’educazione e della sanità, ma alla gente non importarono mai i saccheggi dell’apparato sociale avvenuti in quegli anni. I ragazzi che ora sono al fronte hanno la colpa di essere nati nel luogo sbagliato al momento sbagliato, mobilitati a forza e idiotizzati dalla stampa. Per quanto vogliano la pace, stanno lottando eroicamente, sono molto motivati e molto indottrinati: è la verità ed è la parte dolorosa, perché tutti hanno contatti e conoscenti in entrambi i Paesi.
Yasinsky conclude dicendo che è interesse del popolo ucraino perdere il conflitto. Nella sua ottica, se la Russia vincerà non ci sarà nessuna garanzia di un mondo felice, ma se la Russia perderà significherà la scomparsa dalle mappe: saliranno al potere i democrati burattini dell’Occidente come Zelenskyj e il fantasma del vecchio nemico sovietico verrà definitivamente annientato, perderà la sua sovranità e smetterà di esistere come Paese. S’installeranno regimi neoliberali e fascisti in tutto il territorio post-sovietico e il passo successivo sarà in direzione della Cina. Non si tratta di una guerra contro la Russia, bensì contro l’umanità: Russia e Ucraina si stanno solo dissanguando al suo posto.
Non a caso, nel resto del mondo Paesi come Cina, Iran, India, Turchia e Brasile si stanno schierando su posizioni molto scettiche nei confronti dell’egemonia statunitense e dei finti modelli democratici occidentali, che in un mondo multipolare con vari attori in crescita sono sempre più messi in discussione. Secondo Yasinsky, qualsiasi nuovo equilibrio passa per un forte disequilibrio. È quello che sta cercando di fare l’Occidente, nascondendosi dietro una morale che definisce buoni e cattivi, dittatori e salvatori, ragion per cui il resto del mondo dovrebbe lasciare da parte le proprie differenze interne, rimandare le mille discussioni ad altri momenti e unirsi di fronte al mostro. Un mostro talmente potente, con talmente tante risorse economiche e tecnologiche, in grado di controllare talmente tanto spazio mediatico, che è stata necessaria la nascita di un’alleanza di larghe intese come quella dei BRICS+ (Brasile – Russia – India – Cina – Sud Africa, a cui si sono aggiunti Iran, Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia), i cui vertici si sono riuniti a Kazan a fine ottobre, in un summit a cui Oleg Yasinsky ha assistito.
Si tratta di un progetto economico che va al di là della guerra, sostiene: il Sud globale sta volgendo lo sguardo all’Africa, all’America Latina e ai Paesi storicamente saccheggiati dagli stessi colpevoli del conflitto in Ucraina. Luoghi di resistenza in cui la gente sta male e ha bisogno di soluzioni immediate, soluzioni che il sistema attuale non vuole dare, perché non è abituato a scendere a patti. Tutto ciò a cui è abituato è la forza bruta, la tirannia economica delle sanzioni e quella mediatica degli apparati che detengono il monopolio dell’informazione. Yasinsky non cade nell’ottimismo nemmeno riguardo ai BRICS: è una realtà che dev’essere costruita e ricostruita con molta immaginazione e senza soluzioni pronte, malgrado anche in seno al contropotere anticoloniale stiano sorgendo i primi dissidi, come il veto del Brasile sull’entrata di Cuba e Venezuela per aggirare le sanzioni statunitensi. Il giornalista, che lavora per un’emittente con sede principale a Caracas, spiega che il Venezuela è un Paese sotto embargo e i BRICS nascono esattamente per ovviare al problema delle sanzioni unilaterali nordamericane: non deve nascere dal desiderio di avvantaggiare l’uno o l’altro governo, ma da quello di aiutare i popoli e farli uscire dal giogo dell’indebitamento internazionale, ragion per cui la scelta del presidente brasiliano Lula è sospetta, perché lascia intendere la volontà di mantenimento di una stabilità neocoloniale in America Latina di cui il Brasile si ponga come garante.
Nemmeno nei BRICS è tutto rose e fiori, non mancano le contraddizioni e gli interessi unilaterali. Tuttavia, Kazan è la città giusta in cui svolgere un incontro del genere, secondo Yasinsky: al crocevia tra la cultura cristiana, quella ortodossa e quella musulmana, la città è un proliferare di culture e religioni diverse. Essa mostra un modello del mondo che rifiuta il mito neoliberale della civilizzazione forzata, in cui le diversità fanno parte della nostra ricchezza e i cittadini si appropriano dello spazio pubblico per viverlo.
Yasinsky ricorda quando la città era la capitale della criminalità organizzata, sotto il governo di Boris Yeltsin, e le strade erano invivibili a causa delle bande armate. Non a caso, la retorica occidentale contro Putin si sviluppò esattamente nel momento in cui il suo governo tentò di restituire un po’ di sovranità nazionale al Paese, dopo un lungo periodo, applaudito dall’Occidente, in cui l’amministrazione di Yeltsin si era preoccupata di smontarlo pezzo per pezzo. Ma quali sono i sentimenti prevalenti nella società russa, ora come ora? È in corso anche lì una battaglia mediatica come in Ucraina, o il dibattito pubblico è più centralizzato e controllato?
Yasinsky racconta che ci sono molte realtà diverse, come in ogni società sia chi pensa sia chi non pensa ha un’opinione. La stampa ufficiale è piuttosto piatta, di basso livello; non c’è una tradizione giornalistica radicata come in Occidente, e nemmeno una proliferazione dei media indipendenti come in America Latina. Quasi tutti i mezzi di comunicazione indipendenti non lo sono davvero, in quanto vengono finanziati da George Soros, miliardario ungherese naturalizzato statunitense che ha contribuito alla transizione dell’Europa dell’Est verso il capitalismo.
Quando iniziò la guerra, i mass media più grandi furono censurati. Sul fronte opposto i social network come Facebook, controllati dagli USA, censurano chi appoggia la causa della Russia: si tratta di una guerra mediatica diseguale, perché dall’altro lato hanno molti più strumenti per creare l’oblio, in forme più eleganti di cui nessuno si rende conto. Un interessante spazio di dibattito della rete cittadina e sociale è invece Telegram, ancora relativamente libero: ci sono blogger, militari, civili e giornalisti di guerra di vari schieramenti politici che gestiscono dei canali pubblici e privati, dove dibattono su temi di attualità. Secondo Yasinsky, è l’unico luogo dentro il panorama mediatico russo dove c’è ancora un pensiero cittadino svincolato.
Parlando invece della società russa, il giornalista sostiene che chiunque discute e opina in libertà: non c’è paura e la repressione non è più aggressiva che in qualsiasi altro Paese occidentale, ma comunque minore che in qualsiasi altro Paese in guerra. La gente non ha paura di parlare di politica nei caffè e nei ristoranti, di partecipare ai dibattiti: tutti vivono come prima. È difficile, camminando per le strade di Mosca, credere di trovarsi nel mezzo di un conflitto.
Ci sono generazioni cresciute dopo la perestrojka, alimentate dallo stesso fast-food ideologico che fu imposto in Ucraina e nel mondo da quello che Yasinsky chiama “l’impero”. Di conseguenza, si sono plasmate all’interno di un contesto attraversato da valori capitalisti e liberali: quando iniziò la guerra, il loro maggior rimpianto fu l’assenza di prodotti americani come la Coca-Cola. Il rischio maggiore che corre la Russia in questo momento, secondo il giornalista che vive a Mosca, è la mancanza di coscienza politica, di coscienza cittadina e di comprensione degli avvenimenti. Anche all’interno del governo, molti funzionari appartengono ancora all’epoca di Yeltsin e sono prodotti di quell’ideologia: politici filo-occidentali che ora si fingono patrioti per non essere liquidati, ma desiderano la sconfitta della Russia e simpatizzano col governo ucraino. Gli mancano i viaggi in Europa, i caffè a Parigi, la cucina italiana… Conoscono il lato turistico dell’Occidente, ma non hanno idea di come vivano le classi più svantaggiate in Italia o in Spagna o in Francia: vedono l’Europa come civilizzata e il popolo russo come selvaggio. Tuttavia, la maggior parte dei russi vuole difendere a tutti i costi questo mondo selvaggio, la propria terra. Stanno dalla parte del governo e le uniche critiche che arrivano a Putin sono quelle che lo ritengono troppo blando e moderato: c’è molta corruzione e la gente richiede fermezza. Nella guerra contro i nazisti si usò la mano pesante, oltre al fatto che il nemico con cui sta combattendo ora la Russia è molto più potente e terribile di quello degli anni Quaranta. L’appoggio a Putin deriva dal fatto che il Paese sta economicamente meglio: c’è una forte protezione sociale, la salute e l’educazione sono gratis e di buon livello (eredità dell’Unione Sovietica), vige un’attenzione speciale riservata alle famiglie con molti figli, si trova lavoro e il livello della vita è più che decente. C’è anche chi prova nostalgia per Stalin: il governo nemmeno lo menziona, ma nel popolo permane un mito attorno alla sua figura e si è tornati a parlare molto di lui in questi ultimi tempi, rimpiangendo la sua chiarezza ideologica e la sua progettualità a lungo termine. È un fenomeno sociale molto comprensibile secondo Yasinsky, anche se non ha voluto entrare nel dibattito su pregi e difetti del vecchio rivoluzionario.
L’ultima parte della nostra chiacchierata è stata dedicata invece ai profughi di guerra, alla gente che scappa dall’uno e dall’altro Paese: viene da domandarsi quale sia l’estrazione sociale di queste persone, in cosa consistano le loro possibilità e le loro motivazioni. Partendo dalla parte più colpita, Yasinsky spiega che la legge ucraina adesso vieta a tutti gli uomini minori di 60 anni di abbandonare il Paese: stanno mobilitando chiunque. C’è molta paura, la repressione è aumentata dall’inizio della guerra e il clima si è indurito: pattuglie militari rastrellano migliaia di giovani per trascinarli al fronte, secondo diverse fonti il numero di prigionieri politici va da 10.000 a 15.000, che in proporzione alla popolazione sono dieci volte di più di quelli presenti in Russia. Preferisce sorvolare sulle condizioni nelle carceri e sul reato di tortura, ma racconta dei numerosi arresti subiti dagli impiegati e dai lavoratori dei servizi sociali che avevano collaborato con i russi sotto l’occupazione, una volta riconquistato il territorio dall’Ucraina. È una caccia alle streghe in cui si rischia la prigione per un like sbagliato, quindi è impossibile sapere cosa pensa realmente la popolazione civile laggiù. Si può ancora uscire dall’Ucraina sfruttando la corruzione, che pervade anche i controlli alle frontiere: basta avere tra i 7000 e i 9000 dollari in contanti, sicché gli oligarchi e le famiglie più ricche possono entrare e uscire dall’Ucraina liberamente, mentre tutti gli altri sono condannati alla guerra.
Yasinsky racconta che in Russia ci sono più rifugiati ucraini che in qualsiasi altro Paese europeo: milioni di persone che sono praticamente già cittadini russi, perché le differenze tra Russia, Bielorussia e Ucraina secondo lui sono equivalenti a quelle tra varie regioni di uno stesso Paese europeo come l’Italia o la Francia. Gli ucraini emigrati in Russia partecipano alla politica, soprattutto nel campo del giornalismo, ma non possono esporsi coi loro nomi né apparire pubblicamente, perché hanno padri, figli e famigliari ancora in Ucraina che rischiano la persecuzione. Sono talvolta più patriottici verso la Russia dei russi stessi: hanno visto il fascismo ucraino e sanno la verità su quello che succede, simpatizzano con l’esercito più della gioventù locale, che continua a subire il racconto mitizzato dell’occidente.
In Russia invece da un lato ci sono decine di migliaia di volontari, dall’altro una mobilitazione parziale che non ha coinvolto la maggior parte dei giovani di città, i quali continuano a “mangiare gelato e ascoltare la musica”, ma ha rastrellato soprattutto le campagne e le zone rurali dell’entroterra. Yasinsky ammette che la motivazione degli ucraini al fronte è più forte, perché il caso dell’Ucraina è più semplice da leggere per i propri cittadini. Nel caso della Russia, quelli che sono fuggiti erano soprattutto pacifisti che non volevano avere nulla a che fare con questa guerra, ma nessuno li ha fermati. Sono andati via in moltissimi, soprattutto gli abitanti delle grandi città e gli appartenenti alla classe media o alle élites, ovvero quelli che avevano questa possibilità economica. Quando ci fu la mobilitazione militare, i prezzi dei voli decuplicarono; serviva parecchio denaro anche per emigrare via terra, ad esempio in Georgia o negli Stati vicini. Diversi di loro però stanno tornando in Russia, o perché hanno finito i soldi, o perché non hanno trovato lavoro, o perché adesso il rischio di essere arruolati è minore. Ad ogni modo, Yasinsky dice che per lo più non c’è discriminazione nei loro confronti, al massimo un po’ d’invidia perché a differenza di altri hanno avuto quella chance. Parlando del Paese in cui adesso vive, il giornalista racconta una società postmoderna de-ideologizzata; ad ogni modo, per le strade della capitale stanno ritornando le bandiere russe, a dispetto delle bandiere statunitensi che le invadevano prima: molto lentamente, si sta ricostruendo una coscienza e un’identità nazionale. Non c’è un sentimento antieuropeo, anzi c’è molta compassione per l’Europa perché si sta auto-distruggendo economicamente e culturalmente: Yasinsky sostiene che anche i russi, educati con la cultura europea e, in certi periodi della Storia, parte vivente di essa, provano nostalgia verso il Vecchio Continente.
Quando gli chiedo come si dovrebbero comportare le sinistre di tutto il mondo nei confronti di questa guerra, Yasinsky ribadisce che la sinistra è contraddittoria, di questi tempi, e spesso non è di sinistra. Il sistema neoliberale, che non può proporre nulla di buono all’umanità, ha sequestrato i termini dell’agenda progressista parlando di ecologia, di diritti umani, di femminismo, di minoranze LGBTQI+, portando avanti queste battaglie nella formalità ma privandole dei loro contenuti e della loro intrinseca spinta al cambiamento sociale, per confondere la gente e spegnere i moti rivoluzionari che minano la propria stabilità. Secondo Yasinsky sta funzionando abbastanza bene: fa l’esempio dei Verdi in Germania, di Gabriel Boric in Cile e degli altri governi europei che si nascondono dietro l’alibi della socialdemocrazia, ma si ritrovano sempre a scendere a patti con l’impero. Tutto ciò è stato possibile grazie alla riduzione dei diritti culturali, dell’educazione, dell’istruzione pubblica: fa parte della ricetta neoliberale e la gente è sempre più disperata, bisognosa di miracoli, esposta a populismi pericolosi. Per essere davvero di sinistra, dal suo punto di vista, bisognerebbe lottare contro il capitalismo, non combattere una guerra per conto di altri a fianco dei nazisti, finanziati dalle grandi corporazioni mondiali: i governi progressisti che appoggiano tutto questo o sono ignoranti o sono traditori, non c’è altra possibilità.
La sua conclusione è piuttosto rassegnata: stiamo vivendo un momento pericoloso per l’umanità intera, mentre la pace sta in mani molto irresponsabili.