Il gioco assume oggi il volto dell’insurrezione. Il gioco totale e la rivoluzione della vita quotidiana ormai si confondono. Estratti da "La rivoluzione della vita quotidiana" (GOG).

Le necessità dell’economia si conciliano male con il gioco. Nelle transazioni finanziarie, tutto è serietà: non si scherza con il denaro. La parte di gioco ancora inclusa nell’economia feudale è stata a poco a poco espulsa dalla razionalità degli scambi monetari. Il gioco negli scambi permetteva in effetti di barattare dei prodotti, se non del tutto privi di una misura comune, almeno non rigorosa­mente tarati. Ma nessuna fantasia sarà più tollerata dal momento in cui il capitalismo impone i suoi rapporti mer­cantili, e l’attuale dittatura del consumabile prova a suf­ficienza che esso ha giurato di imporli dappertutto, a tutti i livelli della vita.

Nell’alto Medioevo, i rapporti bucolici inclinavano verso una certa libertà gli imperativi puramente economici della organizzazione feudale delle campagne; spesso era il gioco a presiedere alle corvées, ai giudizi, ai regolamenti dei con­ti. Precipitando la quasi totalità della vita quotidiana nella battaglia della produzione e del consumo, il capitalismo re­prime la propensione al gioco, mentre si sforza nello stesso tempo di recuperarla nella sfera del rendimento. Così, in qualche decina d’anni si sono viste le gioie dell’evasione tra­sformarsi in turismo di massa, l’avventura diventare mis­sione scientifica, il grande gioco della guerra trasformarsi in strategia operativa. Il gusto del cambiamento è ormai pago e soddisfatto grazie a un cambiamento di gusto…

In generale. L’organizzazione sociale attuale preclude il gioco autentico. Ne riserva l’uso all’infanzia, alla quale, sia detto per inciso, essa propone con insistenza crescente delle specie di giocattoli gadget, veri premi alla passività. Quanto all’adulto, egli non ha diritto che a delle forme falsificate e recuperate: competizioni, giochi televisivi, ele­zioni, casinò… Va da sé che la povertà di questi espedienti non soffoca veramente la ricchezza spontanea della pas­sione del gioco, soprattutto in un’epoca in cui la sfera lu­dica ha tutte le opportunità di trovare storicamente riunite le condizioni più favorevoli di espansione.

Il sacro scende a patti con il gioco profano e dissacran­te: testimoni i capitelli irriverenti, le sculture oscene delle cattedrali. La Chiesa assorbe senza nasconderli la risata cinica, la fantasia caustica, la critica nichilista. Protetto sotto il suo mantello, il gioco demoniaco è al sicuro. In­vece, il potere borghese mette il gioco in quarantena, lo isola in un settore particolare come se volesse preserva­re da esso le altre attività umane. L’arte costituisce ap­punto questo dominio privilegiato, e un po’ disprezzato, del non-redditizio. Lo resterà fino a quando l’imperiali­smo economico non lo convertirà a sua volta in fabbrica di consumo. Ormai braccata da ogni parte, la passione del gioco risorge dappertutto.

Nello strato di interdizioni che ricopre l’attività ludi­ca, si apre una falla nel punto meno resistente, nella zona in cui il gioco si è mantenuto più a lungo, nel settore ar­tistico. L’eruzione si chiama Dada. «Le rappresentazioni dadaiste fecero risuonare negli ascoltatori l’istinto primi­tivo-irrazionale del gioco, che era stato sommerso», dice Hugo Ball. Sulla china fatale dello scherzo e della burla, l’arte doveva trascinare nella sua caduta l’edificio che lo spirito di serietà aveva eretto a gloria della borghesia. Di modo che il gioco assume oggi il volto dell’insurrezione. Il gioco totale e la rivoluzione della vita quotidiana ormai si confondono.

Cacciata dall’organizzazione sociale gerarchizzata, la passione del gioco, abbattendola, fonda una società di tipo nuovo, una società della partecipazione reale. Senza pre­sumere di ipotecare ciò che sarà un’organizzazione di rap­porti umani aperta senza riserve alla passione del gioco, ci si può aspettare che presenti le caratteristiche seguenti:

– rifiuto del capo e di ogni gerarchia;

– rifiuto del sacrificio;

– rifiuto del ruolo;

– libertà di realizzazione autentica;

– trasparenza dei rapporti sociali.

Il gioco non può essere concepito né senza regole né senza che si giochi con le regole. Guardate i bambini. Essi conoscono le regole del gioco, se le ricordano benis­simo, ma barano continuamente, inventano o immagi­nano degli imbrogli. Tuttavia, per loro, barare non ha il senso che gli attribuiscono gli adulti. L’imbroglio fa par­te del loro gioco, essi giocano a barare, complici anche nelle loro dispute. Così essi ricercano un gioco nuovo. E talvolta questo riesce: si crea e si sviluppa un nuovo gio­co. Senza interromperne il flusso, essi ravvivano la loro coscienza ludica.

Non appena un’autorità si fissa rigidamente, diviene irrevocabile, si fregia di un’aura magica, il gioco finisce. Peraltro, la leggerezza ludica non va mai separata da uno spirito di organizzazione, con ciò che questo implica per disciplina. Ma anche se occorre un direttore dei giochi, in­vestito di un potere di decisione, questo potere non è mai dissociato dai poteri di cui ogni individuo dispone in modo autonomo, è anzi il punto di concentrazione di tutte le volontà individuali, il duplicato collettivo di ogni esigen­za particolare.

Il progetto di partecipazione implica dun­que una coerenza tale che le decisioni di ciascuno siano le decisioni di tutti. Sono evidentemente i gruppi numerica­mente deboli, le microsocietà, quelli che offrono migliori garanzie di sperimentazione. In essi, il gioco regolerà in modo sovrano i meccanismi di vita in comune, l’armo­nizzazione dei capricci, dei desideri, delle passioni. Tanto più che questo gioco corrisponderà al gioco insurrezionale condotto dal gruppo e reso necessario dalla volontà di vi­vere fuori dalle norme ufficiali.

La passione del gioco esclude il ricorso al sacrificio. Si può perdere, pagare, subire la lesse, passare un brutto quarto d’ora; è la logica del gioco, non la logica di una Causa, non la logica del sacrificio. Quando appare la no­zione di sacrificio, il gioco si sacralizza, le sue regole di­ventano dei riti. Nel gioco, le regole sono date insieme al modo di cambiarle e di giocare con esse.

Nel sacro, al contrario, il rituale non si lascia giocare, bisogna spezzarlo, trasgredire la proibizione (ma profa­nare un’ostia è ancora un modo di rendere omaggio alla Chiesa). Solo il gioco desacralizza, solo esso si apre a una libertà senza limiti. Esso è il principio del rovesciamento (détournement), la libertà di cambiare il senso di tutto ciò che serve il potere; la libertà, per esempio, di trasformare la cattedrale di Chartres in lunapark, in labirinto, in poli­gono di tiro, in paesaggio onirico…

In un gruppo imperniato sulla passione del gioco, gli impegni e i lavori noiosi potranno per esempio essere ri­partiti come penalità, in conseguenza di un errore o di una sconfitta. O, più semplicemente, riempiranno i tempi morti, una sorta di riposo attivo; il che, per contrasto, ren­derebbe la ripresa del gioco più eccitante. La costruzione di situazioni dovrà necessariamente fondarsi sulla dialet­tica della presenza e dell’assenza, della ricchezza e della povertà del piacere e del dispiacere, dove l’intensità di un tono stimola l’intensità dell’altro.

D’altra parte, le tecniche usate nel contesto del sacri­ficio e della costrizione perdono molta della loro efficacia. Il loro valore strumentale è infatti annullato dalla loro funzione repressiva; e la creatività oppressa diminuisce il rendimento delle macchine oppressive. Solo l’attrazio­ne ludica garantisce un lavoro non alienante, un lavoro produttivo.

Il ruolo nel gioco non può concepirsi senza un gioco sul ruolo. Il ruolo spettacolare esige un’adesione; il ruolo ludico, al contrario, postula una distanza, una prospet­tiva dalla quale ci si scopre liberi e in gioco, alla manie­ra degli attori navigati che, nell’intermezzo fra due scene drammatiche, si scambiano delle battute scherzose. L’or­ganizzazione spettacolare non resiste a questo tipo di com­portamento. I Fratelli Marx hanno mostrato che cosa può diventare un ruolo quando il gioco prende il sopravvento. Purtroppo il loro è ancora un esempio recuperato, in que­sto caso dal cinema. Che cosa ne sarebbe di un gioco sui ruoli che avesse il proprio epicentro nella vita reale?

Se c’è chi entra nel gioco con un ruolo fisso, un ruolo serio, o costui è perduto, o corrompe il gioco. È il caso del provocatore. Il provocatore è uno specialista del gio­co collettivo. Ne possiede la tecnica ma non la dialettica.

Forse potrebbe anche essere in grado di tradurre le aspi­razioni del gruppo in maniera offensiva – il provocatore spinge sempre all’attacco – se non fosse per il fatto che, non essendo altro il suo tormento che quello di difendere il proprio ruolo, la propria missione, egli è per ciò stesso incapace di difendere l’interesse del gruppo. Questa incoe­renza fra l’offensivo e il difensivo prima o poi smaschera il provocatore, è causa della sua triste fine. Qual è il miglior provocatore? Il direttore di gioco che è diventato un capo.

Solo la passione del gioco è tale da poter fondare una comunità i cui interessi sono identici a quelli dell’indivi­duo. A differenza del provocatore, il traditore sorge spon­taneamente in un gruppo rivoluzionario. Egli appare ogni volta che la passione del gioco è scomparsa e che, al tempo stesso, il progetto di partecipazione è stato falsificato. Il traditore è un uomo che, non riuscendo a realizzarsi autenticamente nella forma di partecipazione che gli viene proposta, decide di «giocare» contro una tale partecipa­zione, non per correggerla, ma per distruggerla. Il tradi­tore è la malattia senile dei gruppi rivoluzionari. Tradire il gioco è il primo tradimento, quello che pone le basi per tutti gli altri.

Infine, generando la coscienza della soggettività radi­cale, il progetto di partecipazione accresce la trasparenza dei rapporti umani. Il gioco insurrezionale è inseparabile dalla comunicazione.