Per compiacere Trump e le destre, i CEO delle grandi aziende stanno rinunciando alle politiche di inclusività verso le quali si erano spesi con fervore negli ultimi anni. Che sia la spinta di cui aveva bisogno il movimento woke, nato morto, per risorgere come eversivo?
Dalla newsletter di GOG Edizioni

Improvvisamente i social dicono addio ai filtri. Sia a quelli ideologici che a quelli di bellezza. Sotto opposte pressioni. Una da destra e una da sinistra. Che sia davvero un caso che Meta abbia, nello stesso momento, decretato il depotenziamento degli algoritmi di rimozione delle nostre idee e l’abolizione degli effetti di realtà aumentata che ritoccavano i nostri volti? A che pro? Perché questa smania di tornare alla realtà (o a una simulazione diversa di essa)?

L’annuncio che sigla la fine dei programmi di fact-cheking lo firma Zuckerberg in prima persona, con un video dell’8 gennaio, in cui lo vediamo sempre più distante dall’immagine di lindo e innocuo informatico della Silicon Valley. Si presenta adesso con un taglio di capelli da Gen Z fuori tempo massimo, l’outfit tendente al gym-crypto-bro: maglietta nera oversized, vestibilità maschio alfa, capezza al collo che può accompagnare solo. Parla di ritorno alle radici e di libertà di espressione, ammettendo i molti errori commessi negli ultimi anni. Poi elenca i 5 punti del suo piano, che comprendono l’eliminazione dei fact-checker (insopportabili), la semplificazione delle policy, la fine delle restrizioni sui contenuti che riguardano i temi caldi dell’attualità (immigrazione, genere, discriminazioni), la riduzione della mole di errori, un ritorno dei temi politici che prima l’algoritmo penalizzava (per non stressare gli utenti), lo spostamento del suo Trust and Safety Content Moderation Teams dalla California nel non proprio democratico Texas, e la collaborazione con il governo Trump.

Per quanto si atteggino ad antagonisti, i Ceo delle grandi aziende hi-tech non possono fare a meno del loro cliente più importante: il governo federale degli Stati Uniti (il Pentagono sta investendo 10 miliardi di dollari per un progetto di cloud computing che vede coinvolti i signori del silicio). Se Musk ha corso il rischio di scommettere in anticipo su Trump, guadagnandosi il dipartimento senza portafoglio DOGE e l’annessa possibilità di farci credere che vivremo su Marte, Zuck sale sul carro del vincitore solo adesso e deve fare compromessi spiacevoli. Perciò addio alle odiose regole della community woke, a cui aveva ceduto, in passato, sotto pressione dell’amministrazione Biden a partire dal 2021, come ha ammesso lui stesso.

Nel frattempo però Meta annuncia che il 14 gennaio si chiudono i battenti della sezione Spark, la piattaforma dedicata alla creazione di beauty filter per Facebook, Instagram e Whatsapp, quelli che permettono come per magia di levigare la pelle, ingrandire artificialmente gli occhi e rimpolpare le labbra. «A partire da martedì 14 gennaio 2025 gli effetti di Realtà Aumentata (AR) realizzati da terze parti, inclusi i marchi e la nostra più ampia comunità di creatori AR, non saranno più disponibili», ha spiegato l’azienda in un comunicato. Addio Bold Glamour, e addio a tutte quelle finte fighe che ci assillavano sui social. Contentino alla sinistra woke? A quel femminismo e a quelle attiviste body positive che si battono da anni per decolonizzare la bellezza da un canone assurdo, che sta aumentando i casi di depressione, disturbi alimentari, ansia sociale? Non sembrerebbe, probabilmente la questione è economica, legata all’ottimizzazione della gestione del Cloud.

Cosa succederà adesso? La cultura woke non sembra godere di buona salute. Non solo per le ultime scelte di Zuck. La rielezione di Trump alla Casa Bianca ha spostato il baricentro degli investimenti in comunicazione e posizionamento di molte aziende, che possono fare a meno dei programmi DEI (diversity, equity and inclusion), e che stanno recedendo dai finanziamenti al mondo Lgbtq+. Sono almeno 12 le grandi compagnie che, nel giro di un mese, hanno rimosso o ridotto considerevolmente dalle loro agende gli impegni woke. Amazon, McDonald, Walmart, Toyota, Harley Davidson, non perseguiranno più “obbiettivi di rappresentanza ambiziosi”.

Inoltre, sul tema ambientale, a poche settimane dall’esito del voto, si segnala l’uscita delle principali banche statunitensi (tra cui Jp Morgan) dalla NZBA, una rete volontaria di banche globali impegnate ad «allineare i portafogli di prestiti e investimenti con emissioni zero entro il 2050», che testimonia l’allontanamento delle istituzioni finanziare dagli obblighi legati al clima assunti dopo gli accordi di Parigi. Ecco che le banche smettono di fingersi schifiltose nei confronti delle energie fossili, e possono tornare a fare il lavoro sporco di sempre alla luce del sole. Possibile che tutte le pressioni esercitate dagli ambienti woke su grandi aziende, media, istituzioni e colossi finanziari, vengano cancellate con un colpo di spugna in così breve tempo? La verità è che non hanno mai attecchito davvero nei grandi consigli di amministrazione, ma molte rivendicazioni sono state alterate per essere digerite dai più tossici meccanismi capitalistici, e utilizzate solo in una chiave di spudorato marketing dell’inclusività, della tolleranza, della differenza – finché faceva comodo. 

Il woke non ha combattuto le discriminazioni reali, ha solo collocato in alcuni posti privilegiati esponenti di categorie oppresse, ha fatto del vittimismo una nota di merito, ha confuso le priorità delle minoranze con quelle della società, lottando contro gli stereotipi ha finito per creare nuovi tabù. E la stessa queerness, che di per sé dovrebbe rappresentare l’irrappresentabile, l’indicibile, è diventata uno degli spettacoli con cui i privilegiati illudono se stessi di non partecipare all’oppressione, a costo e a rischio zero. E adesso basta un click per cambiare canale. Recentemente il vicepresidente eletto JD Vance ha accennato di ispirarsi per il suo mandato alle idee di Curtis Yarvin, uno dei più influenti ideologi dell’Alt-Right, sodale di Nick Land e promotore di un’America monarchica, guidata dai Ceo della Silicon Valley, con l’obbiettivo di liberare con la forza le istituzioni americane dal cosiddetto wokeism.

Ma scoprirà che non c’è neanche bisogno della forza. Basterà riunire i soliti Ceo bianchi e invitarli a tagliare quattro o cinque uffici interni alle loro aziende, a buttare i power point con le linee guida del marketing inclusivo, a rifilare un po’ la propria brand identity e il gioco è fatto. Del resto avevano soltanto ristrutturato un bagno, basterà rimettere due muri di cartongesso. E allora sì che adesso le battaglie woke diventano davvero interessanti, possono recuperare sul serio la loro carica eversiva e smascherare le storture di una società al collasso, alla quale solo un pazzo potrebbe davvero ambire ad esserne incluso. Il woke è morto, viva il woke!