Oggi il godimento algoritmico non fornisce oggetti da desiderare, ma comanda di godere, a più non posso, meglio e più intensamente degli altri, senza scopo e senza limite, senza prospettive sociali o rivendicazioni politiche. Anche il desiderio e il godimento sono diventati un "iperdispositivo".

Questo testo-saggio va letto come un’insieme di favole. Al posto dell’Abete e del Rovo troveremo uno spazio nel quale si racconta della Realtà e della Rappresentazione che litigano tra loro. La Realtà si vanta di essere più tangibile e concreta. La Rappresentazione però dice che alla Realtà piacerebbe essere rappresentazione per non essere abbattuta dall’Immagine. Al posto de Il leone e l’asino che andavano a caccia insieme leggeremo di Tecnologia e Magia e la loro comunione d’intenti. Ci chiederemo “chi ha violato il godimento?” e parleremo di papà Capitalismo che mangia i suoi stessi figli.

Il perno di queste favole sono gli Iperdispositivi. Quando il filosofo Foucault cercava di dare un nome a un insieme di discorsi, istituzioni, regole, atti, gesti e alla rete che si stabilisce tra questi elementi trovò come calzante il termine Dispositivo: “Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere. […] Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati”.

Il dispositivo, in maniera paradossale e a dispetto della sua stessa natura filosofica, è stato negli anni controllato e contenuto all’interno di alcuni oggetti. Questi oggetti, gli Iperdispositivi, sono la magia, il godimento, l’immagine e la burocrazia. A intrattenere una relazione con essi è la tecnologia che accompagna l’Occidente da quando Adamo ed Eva aprirono gli occhi e entrambi si accorsero che erano nudi e cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture. Ovvero una metafora di quando l’individuo si accorse della sua immagine e della possibilità di lavorare un oggetto e farne una tecnologica cintura.

Gli iperdispositivi sono, riassumendo, oggetti capaci di trattenere quell’insieme eterogeneo di strutture e reti e di potenziarlo, controllarlo, orientarlo.

Questa è una prefazione alle generalizzazioni dei quattro testi che verranno (uno per ogni iperdispositivo). A differenza delle favole non provate a trarne una morale, semplicemente non esiste.

Vorrei tanto che un bel giorno tutti coloro che hanno un’occupazione o una missione da svolgere, uomini e donne, sposati o no, giovani e vecchi, seri o superficiali, tristi o allegri, abbandonassero le loro abitazioni e le loro incombenze, rinunciando a ogni dovere e obbligo, per uscire in strada e non fare più nulla. Tutta questa gente abbrutita, che sgobba senza sapere perché, o si illude di contribuire al bene dell’umanità, che fatica per le generazioni future sotto l’impulso della più sinistra delle illusioni, si vendicherebbe allora di tutta la mediocrità di una vita vana e sterile, di tutto questo spreco di energia privo dell’eccellenza delle grandi trasfigurazioni.

Al culmine della disperazione, E. Cioran

Secondo il sociologo Alfie Bowl il nostro linguaggio definisce il concetto di piacere attribuendo giudizi di valore, legittimando alcuni tipi di godimento e delegittimandone altri. Il risultato è che oggi viviamo in un’era paragonabile a quella vittoriana, nella quale il godimento era considerato una forma di «ricreazione razionale». La società britannica del XIX secolo si era infatti posta come obiettivo fondamentale l’imposizione e la regolamentazione del tempo libero e del divertimento per contenere e limitare il potenziale rivoluzionario dei soggetti insoddisfatti.1 L’industria degli spettacoli lavora molto meglio dell’epoca Vittoriana e riesce magistralmente a regolare il piacere e il tempo libero. Attua questa regolamentazione sdoganando le più infime perversioni al fine di dominarle, controllarle, non farle esplodere o farle esplodere all’interno di un recinto controllato, per non procurare danni.

Godere senza limiti in spazi e tempi ben definiti. La pubblicità, strumento cardine della società dello spettacolo, attua lo stesso meccanismo di controllo. Non sponsorizza il prodotto, ma fa leva sulle nostre emozioni, cercando di instillare in noi una determinata morale del godimento e dell’opinione. Così essa ci avverte di non tenere la luce accesa senza motivo, ci comunica quanto orribile sia l’ultima guerra e ciò che possiamo fare a riguardo, ci avvisa che siamo liberi di essere noi stessi alla guida di un Suv poco adatto al nostro triste tragitto casa-lavoro, agli angoli delle strade agenti sfruttati di una multinazionale distribuiscono fascette colorate con la bandiera arcobaleno. L’arte incapace di rispondere si è fatta reazionaria e ha cominciato a scimmiottare la pubblicità veicolando più o meno gli stessi messaggi. L’editoria incapace di rispondere ha cominciato a scimmiottare gli slogan pubblicitari pubblicando libri che veicolano può o meno gli stessi messaggi oppure storielle dalla durata di un reel2. La politica incapace di reagire annulla le differenze tra spettacolo ed esercizio dei pubblici poteri veicolando più o meno gli stessi messaggi.

Il controllo del godimento ha un fine ben preciso che è utile chiarire sin da subito: i soggetti insoddisfatti, i dissidenti, i sognatori devono essere anestetizzati; i soggetti che per ignoranza, stanchezza e cinismo si sentono al di sopra di ogni opinione e seguono pedissequamente i dogmi sociali devono essere indirizzati verso la produzione; i reietti, i poveri, devono essere intrattenuti e allontanati.

In Capitalismo e Candy Crush, Bowl opera una distinzione tra godimento «produttivo» e «improduttivo». Sostiene che il primo è funzionale alle nostre strutture culturali e sociali, anche se talvolta può sembrare radicale o sovversivo. Il piacere improduttivo invece è generalmente considerato insensato e conformista, anche se così non è.3

I giochi per smartphone esemplificano il godimento fine a se stesso, inutile, improduttivo. Ma questo godimento in realtà è tutt’altro che improduttivo. Giocare a Clash of Clans durante una pausa dal lavoro o dallo studio innesta in noi un senso di colpa che ci porta a rimetterci con rinnovato vigore nelle attività considerate socialmente produttive. A questo punto è importante chiedersi quanto utili siano queste attività produttive.

L’antropologo David Graeber ha una chiara visione a riguardo, tanto da aver introdotto e reso celebre il termine “Bullshit jobs”4, che ci aiuta a comprendere come la nostra idea di produttivo e improduttivo sia quantomeno fuorviante:

Nel 1930, John Maynard Keynes aveva previsto che, entro la fine del secolo, lo sviluppo della tecnologia sarebbe stato tale da consentire a paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti di avere una settimana lavorativa di quindici ore. Ci sono tutti i motivi per credere che avesse ragione. Dal punto di vista tecnologico, le condizioni esistono già. Ciononostante non è accaduto. Al contrario, la tecnologia è servita semmai per trovare il modo di farci lavorare tutti di più. Per riuscirci si sono dovuti creare impieghi che di fatto sono inutili. Ampi strati della popolazione, in particolare in Europa e nel Nord America, passano l’intera vita lavorativa a svolgere compiti che in cuor loro ritengono non andrebbero affatto svolti. Il danno morale e spirituale che ne deriva è grave. È una cicatrice che segna la nostra anima collettiva, anche se praticamente nessuno ne parla.
Come mai l’utopia promessa da Keynes – attesa con impazienza ancora negli anni Sessanta – non si è mai concretizzata? La spiegazione più comune oggi è che lui non aveva calcolato l’enorme crescita del consumismo. Davanti alla scelta tra meno ore e più giochi e divertimenti, abbiamo collettivamente optato per questi ultimi. [..] I lavori produttivi, proprio come previsto, sono stati in buona parte automatizzati. Tuttavia, invece di una riduzione significativa delle ore lavorative, tale da consentire alla popolazione mondiale di dedicarsi ai propri progetti, piaceri, visioni e idee, abbiamo assistito a una gonfiatura non tanto del settore dei «servizi» quanto di quello amministrativo, fino alla creazione di settori totalmente nuovi. Sono questi quelli che propongo di definire «lavori del cavolo».
È come se qualcuno ci costringesse a svolgere compiti privi di scopo soltanto per tenerci tutti occupati. […] La risposta chiaramente non è di tipo economico: è invece morale e politica. La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice e produttiva con tempo libero a disposizione costituisce un pericolo mortale. Una volta, mentre stavo considerando la crescita apparentemente senza fine dei compiti amministrativi nei dipartimenti universitari britannici, ho avuto una visione di come potrebbe essere l’inferno: è un insieme di individui che passano buona parte del tempo lavorando a qualcosa che non amano e che neanche sanno fare particolarmente bene.
Tuttavia, l’ingegnosità della nostra società ha fatto sì che la classe dominante escogitasse un modo per assicurarsi che quella rabbia si rivolgesse proprio contro coloro che di fatto svolgono un lavoro sensato.

La distrazione rappresenta un antidoto al senso di insoddisfazione e inutilità prodotto dal lavoro, sublimando l’alienazione e impedendo il rifiuto consapevole e deliberato delle condizioni lavorative.
Il godimento diventa in quest’ottica uno strumento ideologico che rimuove la nostra soggettività. Non siamo noi a giocare ai videogame o perdere tempo sui social, sono i videogame che giocano con noi e impongono un dogma ciclico: lavoro produttivo, gioco improduttivo, consumo di materiali audiovisivi di poco valore, passatempo costruttivo.

È fondamentale analizzare questa svolta culturale. La società postmoderna ha scoperto non solo la possibilità di godere senza limiti, ma ha generato l’obbligo di farlo. Mettere in atto ciò ha sotteso l’idea di plasmare anche il tempo e lo spazio del godimento. È comune, infatti, imbattersi in un peculiare contrasto interiore: sentiamo di volerci divertire e socializzare, ma mentre lo facciamo vorremmo essere altrove, forse soli, forse a giocare a Brawl Stars5 sul nostro comodo divano. Questo contrasto è esplicitato da due forze opposte che lavorano insieme: da un lato il divertimento simulacrale, preimpostato, inautentico, un divertimento di plastica; dall’altro lato strumenti pronti a darci un’alternativa, un’altra forma di piacere illimitato e apparentemente pieno di stimoli. L’illimitata e nauseante scelta di prodotti identici.

La poca consapevolezza che abbiamo di ciò che ci circonda porta ad una peculiare analisi del desiderio e del godimento: il primo è connotato come naturale e spontaneo mentre il secondo viene visto come un bisogno represso dalla società; essere costretti a godere e credere di non poterlo fare è pressoché una punizione infernale.

Riprendendo, quindi, le tesi di Bowl constatiamo come l’aspetto fondamentale non sia che la società ci prescriva di cosa godere (per quanto, di fatto, lo faccia), bensì che ci imponga di godere di per sé. La distinzione è importante giacché siamo indotti a credere che non conti tanto la ragione del nostro divertimento quanto il fatto che ci divertiamo. L’equivoco è stato alimentato dai social media: Facebook e Instagram non sono tanto una gara a mostrarsi più «felici» e «vincenti» dei nostri colleghi e conoscenti, quanto una competizione a godere enormemente: lo scopo del gioco è convincere gli altri che godiamo meglio, ovvero che l’intensità del nostro godimento è di gran lunga superiore a quella dei nostri «concorrenti» nel feed. Nelle stories la nostra quotidianità viene frammentata, come avviene ad esempio al cinema con la recitazione dell’attore, e ne vengono accuratamente selezionate delle parti, talvolta anche con delle messe in scene, come avviene ad esempio con la fotografia allestita. La portata delle conseguenze sulla salute psicofisica di questi processi non è stata ancora compresa del tutto.

Capita spesso durante un dialogo tra amici di avere la percezione che gli argomenti di discussione, ivi comprese le frasi, lo scherzo e le conclusioni, siano state già sentite. In questi casi è molto probabile che abbiate letto qualcosa a riguardo la sera prima su internet e che quelle battute o quel tipo di ironia le abbiate ritrovate nei commenti sotto qualche post di Instagram. I social ci hanno convinto di vivere tutti la stessa vita, ma non è proprio così e questa convinzione può essere molto pericolosa: ci sembra di vivere una vita simile proprio perché frequentiamo gli stessi spazi, eterei e sempre distanti, che sono i social, perché leggiamo gli stessi commenti e osserviamo gli stessi post del giorno. Il desiderio è mimetico e l’algoritmo lo sa bene.

Il lacaniano Todd McGowan afferma che «anziché esigere che i suoi membri rinuncino al loro godimento individuale per il bene collettivo» in conformità con quanto è avvenuto per secoli, la società contemporanea ci «sollecita a massimizzare il godimento individuale».6 McGowan afferma che si sia venuta a creare una «soggettività prodotta dal capitalismo globale» caratterizzata da un «narcisismo patologico»: il soggetto fa coincidere «il dovere con il dover-godere» e investe liberamente sul mercato come effetto di tale compulsione.

Il godimento ci appare come un sintomo della nostra individualità, ma le nostre preferenze non sono innate, bensì sono frutto di un processo socioculturale. I bisogni culturali sono infatti il prodotto dell’educazione, della formazione e dell’osservazione. Non esiste qualcosa che desideriamo, ma il desiderio che ci troviamo ad avere è quello che, attraverso lo spettacolo, abbiamo maggiormente introiettato. Ingenuamente, quindi, riteniamo che il gusto sia un fenomeno istintivo; in realtà è frutto di un processo di apprendimento socioculturale.

Questo artificio socio-culturale stuzzica, secondo Deleuze e Guattari, il nostro essere macchine desideranti che traggono piacere dal collegarsi ad altre macchine desideranti. Per i due teorici francesi, l’organizzazione del desiderio rappresenta la tecnica fondamentale attraverso la quale il capitalismo struttura il soggetto. Anche se il desiderio esiste al di fuori del capitalismo, non è desiderio di alcunché fino a quando non viene mappato e incanalato in determinate direzioni da fattori culturali e narrazioni sociali. In altri termini, il capitalismo trasforma un generico desiderio in un desiderio per delle cose ben definite. La pubblicità è la guerra dei prodotti per accaparrarsi il desiderio. Il capitalismo è la macchina teatrale di questa messa in scena.

Le teorie psicanalitiche vedono il desiderio come una risposta al bisogno. Noi desideriamo perché abbiamo delle necessità. Bisogna quindi provare a pensare un desiderio primordiale “vuoto”, antecedente persino al bisogno. Le strutture sociali, politiche ed economiche non fanno altro che riempire questo desiderio senza nome. Con il progredire della tecnologia e i dispositivi di controllo, diventa sempre più accurata e totale la capacità di riempire un desiderio di per sé inconsistente. Una volta che il desiderio ha identificato un «oggetto», una volta che si desiderano delle cose, anziché essere mosso da un mero desiderare, il soggetto è già formato e strutturato in quanto soggetto sociale, ovvero calato in una determinata struttura ideologica.7

Nonostante il progresso tecnologico ci prometta comfort che sappiamo fondarsi inequivocabilmente sulle sofferenze di qualcun altro, da qualche altra parte del mondo, grazie agli strumenti anestetici e allo stordimento dello spettacolo, non siamo in grado di autoregolarci. Immaginare una via di uscita è difficile: la tecnologia è sottomessa alla volontà del proprio «mercato di riferimento», volontà che, come abbiamo analizzato prima, è strutturata dal mercato stesso; continuare a instillare desideri, per vendere gli oggetti che li soddisfano, potrà finire per essere, però, la rovina di questa parte di mondo. Il percorso che porterà al collasso sarà caratterizzato da mestizia e serie tv, sofferenza ed escape room, malattia mentale e influencer con adhd, annullamento del corpo e avatar, depressione e candy crush, malinconia e l’ultima mostra per famiglie al Mudec, guerre e avidi fotoreporter, inquinamento e Shein, solitudine e Sunnei, insonnia e master di secondo livello, alienazione e genitori che pagano gli affitti ai figli, senso di colpa e delocalizzazione dello sfruttamento.

  1. CAPITALISMO & CANDY CRUSH, Alfie Bown, Nero Edition, 2019. ↩︎
  2. Booktok, storie dalla durata di un reel, Einaudi, 2024 ↩︎
  3. CAPITALISMO & CANDY CRUSH, Alfie Bown, Nero Edition, 2019. p 6. ↩︎
  4. Bullshit jobs, David Graeber, Garzanti, 2018 ↩︎
  5. Brawl stars, iOS, Android, HarmonyOS. Supercell, 2018 ↩︎
  6. The End of Dissatisfaction? Jacques Lacan and the Emerging Society of Enjoyment,
    Todd McGowan, SUNY Press 2004, pag. 3, 11. ↩︎
  7. L’anti-edipo, capitalismo e schizofrenia, Gilles Deleuze e Félix Guattari, Einaudi, 1972 ↩︎