La coscienza timbrata dallo Stato è la stampante 3D di ogni oscenità: fabbrica volgarità, clona stupidità, sforna ignobili bruttezze e produce in serie tutta l’arte fasulla che riempie salotti e musei. È la coscienza-bollino, quella indispensabile per vincere bandi e residenze artistiche, muri da dipingere, periferie da rigenerare, poi per garantirsi un posto tra le foto ufficiali di qualche festival di provincia sponsorizzato dalla banca locale. L’impegno civile, ridotto a etichetta ministeriale, non è più un atto di coraggio: è un requisito tecnico del moralismo imperante, come il corso antincendio o la polizza di responsabilità civile. Sono le famose riforme di Carmelo Bene.
Oggi l’arte “impegnata” lecca il culo a quella sinistra dei diritti civili che la comanda, che negli anni ha costruito un ingranaggio burocratico impenetrabile, che decide tutto, a partire dai premi alla Biennale di Venezia. Non fa incazzare nessuno: non taglia i ponti col mercato piccolo borghese che le fa l’elemosina, lo lecca in profondità, per poi morire di fame. Non graffia: illustra. Non scava: arreda salotti minimalisti, tanto cringe da essere peggio di qualsiasi salotto di borgata. È un soprammobile etico, venduto insieme al catering bio e al catalogo patinato per il regalo agli sposi fighi in Toscana, o peggio in Umbria.
L’artista contemporaneo non si riconosce più dallo stile o dalla visione, da una vita vera che ne rispecchi il punto di vista, o dalla visione sciamanica di un tempo senza tempo, ma dalla cartella “Bandi” sul desktop. Passa le giornate a scaricare PDF chilometrici, li sfoglia come un manuale per la caldaia e li compila in Ctrl+C / Ctrl+V; alla fine invia PEC. Il nuovo gesto creativo è l’editing di bando: non cercare il cadmio o il magenta, ma sostituire “comunità” con “territorio”, “emergenza climatica” con “resilienza ambientale”, e infilare qualche riga su “inclusione sociale” per non sbagliare mai. Se manca l’ispirazione, si apre l’AI: “scrivimi una motivazione artistica poetica, ma conforme agli standard europei”. Al 90% ti esce tema immigrazione, dall’arguto cybersatana cibernetico.
Non si lavora più per prìncipi, papi o imperatori: oggi le committenze arrivano dai formulari online, e l’artista è un segretario mal pagato, una casalinga di Voghera che compila concorsi a premi per vincere un set di pentole. Non serve genio: serve una buona segretaria, e pazienza burocratica. Timbrare moduli, giustificare spese, rendicontare.
E poi c’è il pedigree sociale: è una verità banale che conti più il curriculum identitario dell’opera stessa. Meglio se sei di colore, o membro della comunità LGBTQ+. Punteggio extra se vieni da un quartiere disagiato, famiglia disastrata, meglio se con un passato di droga e psicofarmaci. Se sei di famiglia agiata devi essere cosmopolita ed avere un doppio cognome, quello dà il boost: vivere sempre tra due città, una possibilmente straniera. Lo studio fisico e fisso non ci deve essere, mai averne uno: il loft è da calabresi. Così da avere uno “sguardo ibrido” e poter girovagare per il mondo. L’opera? Un dettaglio decorativo. Spesso una ironica “vintagiata”, una citazione chic concettuale di qualche decennio fa, tanto raffinata quanto rubata dall’arte stessa o dalla moda degli anni Ottanta, o qualcosa di disimpegnato, relazionale e giocoso, un lunapark per adulti. Sì, unendo indifferentemente frammenti di cultura “alta” e “bassa”. Un tempo si poteva fare il salto di qualità se tutto il tuo lavoro era autobiografico e raccontava del tuo outing omosessuale, ma ora non basta più. Sono gli appigli che il pubblico e l’artista cercano col reale, quando l’arte non dovrebbe avere appigli, scuse morali. L’artista un tempo veniva posseduto da forze ctonie, anti-materiche, che si manifestavano in qualche modo nel reale: non avevano nulla di civile, anzi era letteralmente incivile.
Per i Greci l’artista era direttamente sinonimo di pazzo scatenato, non semplice nevrotico, ma uomo di Saturno. Oggi, quando la scusa è il finto avanguardismo di certe pratiche, vedi l’immancabile murales di periferia o, peggio, il videomapping, mentre gli speculatori finanziari investo nei graffiti in galleria, nel pop surrealismo in pittura su tele, e nell’arte impegnata e decadente, inseguendo la pratica sbirresca della denuncia o dell’autodenuncia di qualcosa che è solo nella mente sociale alla Minority Report di qualche inconsapevole tecno-sbirro con la sindrome da maestrina, beh, ti accorgi che l’arte migliore è quella inespressa, appena accennata, nascosta in piccoli insignificanti gesti erotici.
Ma la verità? La maggior parte degli “artisti” campa coi soldi di mamma e papà, o direttamente coi bonifici del nonno. L’unico bando risolutivo che hanno vinto è quello in famiglia, perché il mercato è imploso in nicchie che solo raramente possono mantenere le tue quotazioni. Se non sei entrato nella cricca giusta e pochi, chiamiamoli “fortunati”, ci entrano, non avrai mai qualche imprenditore della Brianza che rischia e specula sui tuoi lavori, facendo alzare le quotazioni per qualche anno, per poi comunque regalarti un oblio, ed una critica copia-incolla di comunicati stampa al tuo favore, per cercare di farti comprare la casa-studio che tanto desideri. L’altra alternativa è insegnare in quella fabbrica di merda che è la scuola italiana, rubando letteralmente stipendi, visto che spesso non sanno nulla di arte e finiscono letteralmente per formare generazioni di artisti falliti, di quelli che non rischiano mai nulla, non saltano mai un pasto. Dopo tre giorni di digiuno si entra nello stato mentale per cui si può uccidere o fare un capolavoro. I professori hanno spesso tutti la pappagorgia.
Quelli che non hanno mai visto il fondo, quel fondo che è poesia pura, e quindi il “vero” che ti dà la spinta per squarciare il reale. In loro non esiste: esiste il “Murale di Falcone e Borsellino”, che ci sta una leccata al magistrato di turno, sbirri e Stato prima di tutto, e campi con due lire del Rotary.
Perché, ricco o povero, fighetto o pezzente, se non hai sofferto, se non hai fatto esperienza, se non ti sei bruciato le mani in qualcosa di reale, l’arte non verrà mai fuori: al massimo tirerai fuori una decorazione da salotto con due frasi in corsivo e un QR code.
È l’artista burocrate fantozziano: non finisce mai un’opera perché non le ha mai iniziate, ma ha tre versioni del curriculum e una foto in alta risoluzione in verticale e orizzontale. Non studia tecniche nuove: frequenta webinar su “come compilare un allegato A senza impazzire”. Non cerca luoghi in cui esporre: cerca codici CUP e CIG. Vince qualche bando, realizza il progetto in modo filologicamente conforme al preventivo, e l’opera non è più un grido di Munch del dolore: è un allegato D di paranoia.
L’unica alternativa è sottrarsi. Non certo nascondersi dai riflettori in un mondo che è tutto un piedistallo, un esibire numeri e metriche. In un’epoca in cui l’artista deve esserci più di quanto debba creare, bisogna cercare di rimanere impermanente: darsi al pubblico giusto, alla tua élite, che spesso potrebbe essere rappresentata da te stesso, lasciare tracce che il vento può portare via, sparire prima che qualcuno ti schedi, prendere meno mi piace di tutti, per una volta.
Amo gli artisti indiscreti e fuori posto, quelli che ti arrivano addosso come un fulmine e poi spariscono fino al prossimo temporale. Venerabili sono solo i lupi grigi dell’arte, come il signor Enzo, che non ha mai fatto la morale a nessuno. Quelli che con il gesto improvviso ti tagliano la faccia come in un duello tra cornuti siciliani. Sono corpi estranei nel sistema immunitario all’intelligenza della cultura ufficiale: non digeribili, non integrabili. E proprio per questo sopravvivono e rinasceranno in futuro, mentre l’arte “certificata” muore di asfissia. Essere fuori contesto oggi non è un difetto: è l’unico respiro possibile.
Sfuggire al catalogo dei nomi, essere tutto e nulla: artista, curatore, scrittore, disegnatore, politico, sovversivo, fancazzista. Il giorno che ti nominano sei morto, è pronto l’epitaffio per la tomba. Ti salverà l’oblio della macchina, l’eutanasia che, sia consapevole o colpevole, ti ridarà vita, energia. Che sia bandita la parola “artista” e rinasca l’arte. E agli artisti giovani, un consiglio pratico: smettete di chiedere riconoscimento, andate a vendere. Fatevi pagare. Non vi piace? Problemi vostri. L’arte non è democrazia: è proprietà privata. Chi ha soldi compra, chi non ce li ha guarda.