Quando penso alla mediocrità della musica italiana, penso soprattutto ai cantautori. Che sia ben chiaro, alcuni sono molto superiori ai loro epigoni stranieri, che hanno spesso imitato superandoli: Tenco, Battiato, Battisti, Lucio Dalla, i dischi in dialetto di De André o Pino Daniele, Vasco, quello marcio e tossicomane dei vecchi tempi, tra l’ironia e il disincanto di maniera, libero dallo sciame di hipster dirittoumanisti che adesso lo adora, e lo ha fatto diventare la parodia di se stesso, circondato da un pubblico di beoni tamarri.
Purtroppo ora mi tocca usare un’alabarda spaziale futurista sui gli idoli d’infanzia di più generazioni, perché i cantautori rappresentano la fase anale dell’arte! Sono i campioni mondiali di un’estetica piatta e accomodante, i maestrini indiscussi di un linguaggio che non offende, non scuote, ma accarezza il cuore della borghesia piccola e crepuscolare, dei boomer che si lamentano dell’autotune su Boomerbook. Quelli che hanno annientato il paese, che rimpiangono un passato in cui tutto era meglio, ma lo hanno mandato a puttane loro, quel passato.
E così, mentre il pubblico applaude e si commuove, l’arte si grattugia le palle. Sia benedetto Tony Effe, e acclamato Sferaebbasta, e quanto è fica Anna Pepe, che avrebbero sicuramente entusiasmato il truculento guerrafondaio Filippo Tommaso Marinetti, che di certo scrisse cose ben peggiori di Tony: «La donna nuda è leale. La donna vestita è sempre un po’ falsa. La carne della donna è sempre buona. Lo spirito della donna tende alla cattiveria e alla perfidia» e ribadisce poi: «Il cervello è il motore aggiunto e inadatto al chassis (la struttura portante delle varie parti che costituiscono una macchina, ndr) della donna che ha per motore naturale l’utero. Il cervello sforza, sfascia e deforma la donna che lo porta». Parole di fronte alle quali Tony Effe con i suoi culi nuovi di zecca regalati a bitch giapponesi risulta solo volgarotto, e per questo perdonabile. Carmelo Bene, in una delle sue celebri invettive, lo aveva detto senza mezzi termini: «I cantautori? Sono l’abbrutimento della poesia, non hanno niente a che fare con l’arte e la musica. Sono commercianti di emozioni a buon mercato». E come dargli torto?
Il cantautorato italiano, osannato da generazioni di critici e pubblico, si regge su un compromesso velenoso: essere accessibile a tutti, e quindi innocuo, pur compiacendo l’immaginario di una certa sinistra. Canzoni che parlano di amori finiti e quindi non veri, perché il vero amore è sempre eterno e disperato, e questioni sociali col pelo sullo stomaco. Un lessico di plastica, infarcito di luoghi comuni e sentimentini precotti, anzi già digeriti e espulsi, che non sfiora mai le asperità del reale.
Ma il problema non è mai ciò che si canta, è come lo si fa. Il cantautore è il sacerdote di una liturgia stanca, dove la voce è sussurro o urlo, mai dissonanza. Dove la musica è accompagnamento, e melodia semplice, mai sfida o ricerca, giusto il primo Battiato e l’ultimo Battisti hanno fatto vera arte melodica. Il resto dei cantautori ha passato il tempo a consolare il pubblico senza metterlo di fronte a se stesso. Sono cantori di un conformismo che si traveste da ribellione, rivoluzionari da salotto che sfidano il sistema con accordi di chitarra, strumento mediocrino, su poesiole da bar insomma, che solo un tardo recupero nostalgico, demenziale e cringe può riabilitare!
E peggio ancora della musica leggera è quella impegnata, perché rende leggero anche l’impegno, perché ci fa sentire rivoluzionari a basso costo, a basso rischio, a bassa intensità. E così quelli che hanno ascoltato due dischi di De André o di De Gregori vengono a farci la paternale, diventano i primi dei moralisti, i primi dei cagacazzi giudiconi al rovescio, che si sono sforzati di definire sociali quei problemi che dipendono dalla natura stessa dell’uomo per fingere che possiamo risolverli, facendo da stampella a una politica in carenza di idee, che deve convincere il popolo del fatto che tutti i problemi sono “sociali”, e quindi rinnovare la propria utilità laddove non ne ha alcuna.
«Bisogna distruggere la sintassi», dichiarava Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto del Futurismo. Eppure, i cantautori italiani sembrano aver scelto di fare l’opposto: ricostruire la sintassi della banalità, rafforzare il già detto, rendere eterno ciò che avrebbe dovuto essere distrutto. Dove i futuristi invocavano la velocità, il dinamismo e la rottura delle convenzioni, i cantautori celebrano la lentezza di una nostalgia campagnola e bucolica, l’eterna attesa di un amore campestre, di una ribellione mai vissuta veramente, arroccati come sono nelle loro città metropolitane. La loro arte è una celebrazione del fermo immagine, una pittura iperrealista – quindi falsa – che si spaccia per pittura d’avanguardia.
Il cantautorato italiano, partecipando al “progressismo”, è una nuova forma di conservazione, perché ogni progresso è in realtà la conservazione dei privilegi delle classi egemoni in ascesa. Ogni accordo di chitarra, ogni strofa sussurrata, è un omaggio a quel trasformismo culturale che si maschera da rivoluzione, ma che in realtà perpetua lo status quo senza peraltro celebrarlo adeguatamente – penso al penosissimo Guccini un surrogato da osteria della poesia borghese. I cantautori italiani si vestono da innovatori, ma sono i veri custodi di un’estetica immobile e piccolo borghese, neanche campagnola, che avrebbe formato pochi anni dopo almeno un paio di generazioni di startupper, muretti a secco, ed estati in Salento.
Non basta amare per parlare d’amore, e non basta parlare d’amore per essere poeti, così come non basta tenere una chitarra in mano per essere musicisti. L’arte è rottura, non consolazione. L’arte è ferita. L’arte è ciò che ti costringe a guardare dove non vuoi, con occhi nuovi. Come scrisse Louis-Ferdinand Céline con il suo cinismo tagliente: «L’amore, è l’infinito messo alla portata dei barboncini». Ed ecco che le canzoni dei cantautori si rivelano per ciò che sono: un’idea di infinito ridotta a un giocattolo, un sentimento sublime addomesticato per un pubblico che vuole emozioni facili e inoffensive, quando l’amore è tossicità, conflitto, mai quiete.
Carmelo Bene, nel suo disprezzo per questi “commercianti di emozioni a buon mercato”, sosteneva il teatro come puro suono elettronico, e guardava alla musica sempre distorta ed in ricerca, quella che distruggeva il linguaggio, annienta l’io, rifiuta la comunicazione come consolazione. Esattamente il contrario di ciò che i cantautori rappresentano: il linguaggio come coccola, la comunicazione come merce. «Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità», proclamavano i futuristi. I cantautori, al contrario, cantano la sicurezza del compromesso, l’abitudine alla nostalgia e alla prevedibilità, tutti possono essere nostalgici, non tutti possono immaginare il futuro. E così, come De Gregori con Enel, sono finiti a fare pubblicità progresso finto-patriottiche e pataccose nella tv storia patria e maestrina che criticavano. Non perché non abbiano nulla da dire, ma perché le loro parole sarebbero inascoltabili per orecchie abituate a scambiare l’ovvio per il sublime, ok ora mi rilasso tanto si tratta di musica leggera…