Estratti del libro "Contro il lavoro" di Giuseppe Rensi (WOM Edizioni). Per gentile concessione dell'editore.

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I nodi sono da ultimo venuti al pettine. L’indagine critica diffusa nelle moltitudini, i problemi politici e sociali dibattuti sempre più largamente in mezzo alle plebi, hanno condotto queste, non tanto, come pare e si dice, a scorgere l’assurdo d’un determinato ordinamento del lavoro, quanto a intravvedere, in modo ancora non esplicitamente confessato a parole, ma attestato dai fatti, l’assurdo del lavoro in sé. Per questo è che, in realtà, non si vuol più lavorare. Siamo in un momento simile a quello di Roma al tempo di Cesare. «Al campo si vedeva il comandante sotto la sua tenda con in mano il lubrico romanzo greco, in senato l’uomo politico con un trattato di filosofia. Nello Stato romano andavano quindi le cose come andarono e andranno in qualsiasi altro Stato, in cui i cittadini null’altro fanno che leggere dalla mattina alla sera».

Un efficace moralista pratico moderno, noto e apprezzato soprattutto nel campo protestante, il giurista svizzero Hilty – il quale, sebbene sostenga essere il lavoro necessario alla felicità e alla pace, riconosce, conformemente alla tesi dianzi svolta, che a ciò non può soddisfare l’odierno lavoro svolgentesi collettivamente sulle macchine, il quale non dà al lavoratore la soddisfazione di determinare e vedere l’esito della sua opera, e perciò «urta contro il concetto naturale di dignità umana», mentre solo è appagante il lavoro degli artigiani, degli artisti, dei dotti – Carl Hilty prevedeva che, essendo la mania dell’utilizzazione del tempo nel lavoro andata all’eccesso, essendo diventata un idolo, al nostro secolo di lavoro accanito seguirà un secolo di grande pigrizia. I fatti accennano a dar ragione allo Hilty; la sua previsione comincia ad avverarsi.

Non si vuol più lavorare. Che questa sia la mèta dell’odierno moto sociale, mèta necessariamente scaturente dallo spuntare della coscienza, per quanto ancora crepuscolare, dell’assurdo del lavoro, lo si scorge dal fatto che non si vuol più lavorare soprattutto là dove le masse sono diventate in sostanza padrone e hanno foggiato un ambiente di dominio «proletario», dove cioè esse vivono pressoché come potrebbero vivere in regime socialista o comunista; là dove:

Perciò le cose eran ridotte all’estremo della turbolenza e del disordine,
mentre ognuno per sé ricercava il potere e il primato.

Nei comuni socialisti, impiegati, funzionari, operai delle aziende comunali sfruttano la loro dittatura lavorando con la massima possibile negligenza, non lavorando quanto più possono. A provarlo basterà ricordare che quegli impiegati od operai il cui contratto di lavoro è retto da un organico che assicura il pagamento per un certo numero di giorni all’anno anche in caso di malattia, si ammalano regolarmente tutti per quel dato numero di giorni, «non vogliono regalare al comune nemmeno una giornata» come suona la frase che corre in privato; e ciò tanto più certamente quanto più sono socialisti o comunisti evoluti e coscienti.

Questo è «l’entusiasmo per la produzione» su cui, secondo il farneticamento di Sorel, si può certamente far conto in una società a base di dittatura proletaria. Non si vuol più lavorare. E, razionalmente, è giusto. Si ha ragione. Perché il lavoro (propriamente detto: quello a cui lo sviluppo civile ci costringe) è antispirituale, antitetico all’essenza e alla destinazione dell’uomo, urtante (come dice Hilty) contro la dignità umana, cancellatore dell’umana autonomia, di carattere schiavista.

Tale è il lavoro (propriamente detto) in sé e sempre. Perché devo essere io condannato – ognuno legittimamente si chiede – al lavoro bruto di muovere un maglio o far andare una macchina, sia pure per poche ore al giorno e per un lauto salario? Se lo fossimo noi (io ed il lettore) tosto si capirebbe che quelli che lo sono, a lavorare meno che possono, più trascuratamente che possono, a non voler lavorare, hanno ragione; si capirebbe che il pensiero «a ciò lavorino gli altri» è inevitabile e giustificato. – Ma poiché qualcuno a ciò deve lavorare affinché gli uni o gli altri possano essere liberi dal lavorare a ciò, ecco un’altra volta lo spettro della necessità della schiavitù balenarci dinanzi.

Vero è che la letteratura politica demagogica affaccia qui, come soluzione, il suo trito luogo comune consistente nel dire: nella società futura tutti lavoreranno, e, poiché lavoreranno davvero tutti, così ognuno potrà lavorare solo moderatissimamente; giacché, insomma, il lavoro vero e proprio è una schiavitù, e nessuno la vuole e ognuno ha uguale diritto ad esserne liberato, così ciascuno la assuma per la sua parte, con che essa si ridurrà ai minimi termini per tutti. Ma si tratta, come al solito, di parole vuote ed assurde che la realtà disperderà e già disperde. Sempre e necessariamente, alcuni, una classe (magari la classe che ha fin ieri lavorato) tenderà a scaricare su altri il lavoro propriamente detto e vorrà emergere dalla sfera di questo in quella dell’ozio e del giuoco (della scienza, dell’arte, dello studio, della direzione politica, intellettuale, morale della società).

Già oggi vediamo i capi dei lavoratori abbandonare il loro lavoro propriamente detto (per esempio di metallurgici, di postelegrafonici, ecc.) e passare al giuoco dell’«organizzare», del «propagandare», dell’«agitare»; vale a dire, a ciò che è stato sempre la loro passione, a quel che hanno sempre fatto per inclinazione e per piacere, al loro giuoco. E così vediamo i capi della repubblica «proletaria» russa, ben lungi dall’assumere pro parte virili una porzione della schiavitù del lavoro nelle fabbriche, nelle ferrovie, nelle miniere, onde questa schiavitù non gravi tutta sulle spalle d’alcuni, dedicarsi esclusivamente a ciò che han sempre fatto per gusto, a ciò a cui si sono sentiti fin dalla prima giovinezza attratti da una passione irresistibile, cioè all’attività politica rivoluzionaria, al loro giuoco.

Si obbietterà che anche secondo la sociologia rivoluzionaria, l’attività spesa per la direzione politica e culturale della società, essendo necessaria ai fini di questa, è un lavoro vero e proprio. Ma se è così, se il presiedere un comizio, il fare il deputato o il membro del congresso operaio, l’essere ministro o commissario del popolo, se tutto ciò è lavoro vero e proprio; se lo è lo scrivere dei romanzi o dei versi o il comporre uno spartito musicale; allora, nemmeno nella società attuale c’è alcuno che non lavori, o, tutt’al più, il numero di coloro che non lavorano (se per lavoro s’intende anche uno di quei lavori) è così esiguo, che il fatto che costoro venissero costretti a lavorare non contribuirebbe punto a diminuire la misura del lavoro di quelli che lavorano già, ossia non servirebbe per nulla a far sì che (come, secondo la sociologia rivoluzionaria, avverrà, quando tutti lavoreranno) la schiavitù del lavoro, una volta assunta del pari da tutti, sia per tutti del pari ridotta a termini minimi.

Perché questa tesi reggesse, bisognerebbe, se mai, che nella società futura tutti davvero, politici, statisti, artisti, scienziati, scrittori, contribuissero a quello che in queste pagine è chiamato lavoro vero e proprio, a quello cioè che si fa non perché la propensione spontanea e il godimento che troviamo in esso vi ci portano, ma con sforzo e vittoria sulla nostra naturale tendenza; e specie al lavoro manuale. Ma questa cosa – che è, del resto, impossibile per la ragione accennata che con ciò sarebbe tolto a tutti quell’agio, quel tempo, quell’otium, quella possibilità di lunga inerte meditazione e ruminazione che solo eccita il pensiero e ne effettua lo slancio e lo sviluppo e dalla quale soltanto germogliano quindi le elaborazioni scientifiche e i prodotti artistici – questa cosa, non è voluta nemmeno dagli annunciatori della nuova era, tanto è vero che essi si guardano bene dal praticarla là dove sono al potere.

Di conseguenza, la società futura sarà, ancora una volta, esattamente come la presente, divisa in due classi: da un lato, coloro cui incombe il lavoro vero e proprio, che si compie non perché ci si trovi gusto, bensì per un fine che sta fuori dell’attività immediata in esso svolta, ossia per coazione d’una o d’altra specie (coloro che lavorano); d’altro lato, coloro che si riservano il lavoro che si fa unicamente per la gioia di farlo, geniale e divertente, per cui hanno gusto e passione (coloro che giuocano). Come la presente, dico, perché anche nella società presente l’unica distinzione non è tra chi lavora e chi non lavora in qualsiasi senso (tanto pochi sono questi), ma tra quelle due specie di occupazione, il lavoro-lavoro e il lavoro-giuoco.

Non si vuol più lavorare. Sembra che si sia in un momento di insurrezione contro un sistema di lavoro. Ma ciò non è che apparenza. Chi guarda in fondo scorge che si è in un momento di insurrezione contro l’assurdo, venuto a galla, del lavoro in generale – insurrezione razionalmente giusta appunto perché il lavoro è un fatto irrazionale. Anche nel caso del lavoro avviene quello che il Simmel ha così profondamente constatato in ogni altra sfera, che cioè la vita vuol esistere nella sua immediatezza, liberata da ogni forma, mentre pure non può esistere che in forme, e si impiglia così in un’irresolubile contraddizione la quale si manifesta in ciò che ogni problema e ogni conflitto è tolto solo per essere sostituito con un altro. – È dunque insurrezione contro il fato. È insurrezione della razionalità umana contro il destino, la natura, i decreti della divinità, cioè contro una realtà (comunque si voglia denominarla) per la ragione umana cieca ed impervia – ma insopprimibile. In questa insurrezione, lo spirito umano dà di cozzo nelle sue barriere estreme; come nella leggenda biblica della torre di Babele, l’uomo vuole scalare il cielo, ossia per usare il concetto di Schiller, liberare la propria fronte, al pari di quella degli dèi, dall’atmosfera del lavoro, vivere nella beata condizione divina di giuoco, ozio, contemplazione; vale a dire vuol diventar Dio. Scalare il cielo; ma una nuova volta, con immane iattura, ne sarà ributtato.