Dalla newsletter di GOG, "Preferirei di no". A Milano la vita è veramente metropolitana, nel senso che non accade nulla davvero, tutto va per il verso giusto. Per fortuna però ci sono i maranza.
Dalla newsletter di GOG, "Preferirei di no"

Mentre un terzo della redazione era in Palestina, un altro terzo ha passato qualche settimana di troppo a Milano, capitale della parolainglese-week, per scopi che purtroppo non possiamo rivelarvi e che non riguardano la firma di un contratto con una grande major né l’apertura di una nail factory in zona Isola malgrado avessimo fatto anche un business plan (per info scrivere in dm).

La cosa più bella di Milano è il treno per Roma, dicono sempre i tassisti e i paninari e il tuo amico, quello simpatico al liceo, oggi un po’ meno, copywriter al The Roman Post forse troppo a lungo, però quant’è bello il scielo sopra ar Circo Massimo, ce l’hai una sigaretta? No Ivo, a Milano ho smesso, è vietato fumare a Milano. E invece, malgrado tutti i pregiudizi con cui siamo arrivati nel capoluogo meneghino, il nostro è stato un soggiorno felice, in una piccola, ridente cittadina di provincia, abitata da passanti perlopiù meridionali vestiti da Michele Morrone ma ben attenti a non lasciarsi sfuggire una cadenza che riservano solo ai compaesani, e che credono di sostare in una metropoli europea, e che perciò si comportano come se la città lo fosse davvero, e in qualche modo, negli anni, lo è anche diventata, come per magia. Gli amici tornati dal Vietnam di Brera ci dicevano che la città ha ritmi frenetici, l’individualismo dilaga, il turbomondialismo pure, l’aperitivo è ovunque.

A noi invece è parsa molto tranquilla, funzionale, un paesino in cui puoi fissare 3-4 appuntamenti in un solo giorno e riuscire a portarli tutti a termine: a Roma il limite massimo è stato stabilito a due dal Concilio di Nicea, poi antichi demoni ti puniscono con qualche ostacolo (l’incidente in motorino, il pacco all’ultimo, la morte di un nonno o di un papa, l’aggressione di un gabbiano). A Palermo un solo impegno al giorno, altrimenti maxiprocesso.

Ecco perché a Milano possiamo ancora sognare, credere che la vita dipenda solo da noi e dalle nostre capacità. Sotto il Po esistono forze che non esistono ma che giocano un ruolo fondamentale nella scrittura dei destini individuali e collettivi. Sopra, invece, sei tu il padrone, Ceo e azionista di maggioranza dell’azienda te stess*, anima e corpo, che alternativamente depuri con podcast di auto-aiuto e centrifugati dietetici e poi distruggi a forza di call e negroni. A differenza di Roma, vera e propria giungla urbana, con i suoi pericoli, i suoi misteri, il bestiario di personaggi assurdi che la popola, a Milano la vita è veramente metropolitana, nel senso che non accade nulla davvero, come in ogni grande metropoli. Vale un po’ quello che diceva Tolstoj per le famiglie: tutte le città felici si assomigliano, ogni città infelice è infelice a modo suo.

Ci sono molti eventi ma pochissimi accadimenti. C’è il concerto, il vernissage, il finissage, l’inaugurazione, l’opening, l’happening, l’happy ending ma nessuna cosa che valga la pena di essere raccontata, perché tutto coincide esattamente con le aspettative che ne abbiamo (quindi che senso ha partecipare se già sappiamo come andrà a finire?) e ogni investimento organizzativo è sempre a somma zero. Il fatto stesso che le cose funzionino in modo lineare, e che quindi a un input x corrisponde l’output y, sospende l’avverarsi di qualsiasi imprevisto. Da un lato è cosa buona, per noi romani, in cui l’ordinario è un apostrofo rosa tra le parole «’sti cazzi», dall’altro è noioso da morire: il tempo sembra non scorrere, accavallarsi su uno stesso piano ciclico e ripetitivo. Vivere uno o dieci anni a Milano fa lo stesso, invecchi senza accorgertene, giorno dopo giorno, mentre il riso di fronte ai video dei gender reveal party dei napoletani si fa sempre più amaro, fino a trasformarsi in pianto o in un corso di cucito. L’unico elemento davvero picaresco che ha in qualche modo scombussolato questo lungo sogno-soggiorno è stata la presenza dei cosiddetti Maranza, loro sì moltiplicatori di contrattempi e di situazioni spiacevoli, colonizzatori dei non luoghi, mezzi pubblici, stazioni, Mc Donald, centri commerciali.

Sono vispi, allegri, atletici, a differenza dei milanesi o dei meridionali vestiti da milanesi che camminano con gli airpods, con quel talento insopportabile di non darti mai fastidio, di passare inosservati. Anche i maranza hanno gli smartphone, ma ne fanno un uso sempre collettaneo e ludico, gioco tra i giochi, e non passaporto esistenziale. Sono bellissimi i maranza, vistosi, vestiti total Gucci, oppure col Moncler, le Nike T e il borsello, quando passano si lasciano dietro una scia di Paco Rabanne e alette di pollo, hanno attaccate al culo le casse Jbl che droppano musica raw e jump e sembra sempre una festa della giovinezza la loro esibizione rituale di merci, potlatch del plus valore rubato a noi stronzi. Perché così deve essere la giovinezza, disturbante, fastidiosa, esotica. Non come quella fatta con lo stampino dai vecchi, per accontentare i loro pregiudizi sui giovani, e che combatte su Instagram per il futuro del pianeta, per il bonus psicologo e la liberalizzazione dei pronomi.

I maranza sono la giovinezza barbara e primitiva, tutta concentrata sul presente, senza scadenze, senza progetti a lungo termine, senza business plan emotivi: prendi tutto ciò che vuoi, adesso! Sono loro la fantasia al potere nelle strade, la reinvenzione di ogni codice, di ogni grammatica, il corpo è mio lo gestisco io, ne travaillez jamais come dicevano i situazionisti, sono il sessantotto realizzato fuori dell’Università. Sono i figli dei kebabbari, degli operai, dei corrieri che ci portano i libri di giorno, dei rider che ci servono la cena che consumeremo da soli la notte, sono i figli degli immigrati di seconda e terza generazione, sono i giovani senza lingua, che parlano male l’arabo e male l’italiano, disintegrati da qualsiasi società, dealfabetizzati, descolarizzati e quindi finalmente liberi, liberati dall’ideologia dominante, che sempre con le parole ci colonizza e ci istruisce. Potenza destituente, che davanti al Duomo si ritrova spontaneamente per urlare «Vaffanculo Italia»: è quello che noi non abbiamo il coraggio di fare.

I maranza hanno tutti gli anti-valori che ci mancano per sfuggire davvero al divenire algoritmico del mondo. Sono il fantasma anti-borghese che infesta la falsa coscienza della borghesia di sinistra, che si fa le pippe sull’Odio di Cassowitz, che indossa la shopper di Pasolini ma poi liquida con faciloneria i maranza come tamarri infrequentabili a causa del loro outfit, inservibili alla lotta su instagram contro il capitale, mentre sono loro la lotta, il corpo nella lotta, sono loro i ragazzi di vita, i più antimoderni degli ipermoderni, «giovani amici, a cavalcioni di Rumi o Ducati, con maschile pudore e maschile impudicizia, nelle pieghe calde dei calzoni nascondendo indifferenti, o scoprendo, il segreto delle loro erezioni…».

Ci disturba la loro aggressività, la mascolinità tossica con cui rispondono alle umiliazioni sociali, per riabilitarsi ai propri occhi e a quelli della famiglia, e che rimarrà sempre una costante tra le persone che possono contare solo sulla propria forza-lavoro, come scrive Bourdieu, per cui la «virilità è uno degli ultimi rifugi dell’identità delle classi dominate». E così i maranza infestano anche i brutti sogni della borghesia liberale di destra, quella alla Del Debbio, quella di Rete 4 e della Verità che quando non li condanna vuol umanizzare questi giovani barbari, trovare un movente sociologico al loro brutalismo esistenziale. E invece dovremmo perorare una sacra alleanza tra i barbari neri delle periferie e i “bifolchi” bianchi dei margini, tra proletariato indigeno e proletariato autoctono (come scrive in un bel libro Houria Bouteldja, Beuf et Barbares, tradotto da Derive&Approdi), l’unione di queste classi pericolose, potenzialmente sovversive, che invece di scannarsi tra loro nell’ennesimo conflitto tra poveri, dovrebbero formare una nuova soggettività politica ma già stiamo scadendo in un marxismo da quattro soldi, velleità da borghesi in crisi annoiati che hanno letto troppo e non credono davvero in ciò che dicono, quindi basta così.