Se pensiamo al nome di Huxley ci viene in mente, per primo, Aldous, il romanziere visionario che nel 1932 scrisse Il mondo nuovo, una delle più celebri distopie, dopo 1984, del Novecento. Quest’opera venne accolta entusiasticamente dalla critica (fatta eccezione per Orwell e Adorno), ma solo a partire dagli anni Ottanta, dopo i diversi arrangiamenti cinematografici e televisivi, entrò di diritto nella cultura di massa occidentale. Non si contano più le edizioni e le ristampe della Mondadori (che ieri lo collocava nei Classici e oggi nella collana Cult), le citazioni musicali, letterarie, le serie tv ispirate alla sua trama. Tuttavia, il libro sembra rimanere relegato al genere fantascientifico, e non appena si tenta di sottrarlo da questo scaffale, la cui patina adolescenziale ci impedisce – erroneamente – di prenderlo troppo sul serio, viene allora ridotto a feticcio da cui cospirazionisti e complottisti estrapolano riferimenti a casaccio. In effetti, però, Il mondo nuovo, se si guarda al contesto storico a cui appartiene, e alla vita del suo autore, si presta a diverse interpretazioni. Aldous Huxley nasce in Inghilterra nel 1894. Si laurea in Lettere e in Scienze Biologiche a Oxford nel 1915. Scrittore, romanziere, poeta, già collaboratore di riviste come Vogue e Vanity Fair, si afferma inizialmente come scrittore di satira sociale. Brave New World, elaborato tra il 1931 e il 1932, è un romanzo che nasce, come ammette il suo stesso autore quando dichiara di essersi divertito a parodiare alcuni romanzi troppo ottimisti sul benessere garantito dallo sviluppo scientifico (tra cui The Sleeper Awakes di H. G. Wells), con una punta, neanche troppo velata, di ironia. Huxley guardava con sospetto e con scherno all’entusiasmo cronico degli scrittori che fantasticavano sul futuro. Il romanzo è infatti ambientato nel 632 AF (che sta per After Ford, personaggio la cui biografia, per Huxley, è stata fonte di inesauribile ispirazione), quindi nel 2540 dopo Cristo.
Nell’accostare Ford al Messia cristiano, l’autore dà prova di un sarcasmo che ritroveremo lungo tutto il romanzo, ma che non deve far sottovalutare le osservazioni più serie e lungimiranti. Huxley immagina una Londra futuristica, eletta capitale di uno Stato Mondo che, a seguito di una guerra planetaria durata nove anni (e cominciata negli anni Quaranta, sic!), è amministrato da dieci governatori mondiali. La società è integralmente soggetta a una sorta di biopotere centralizzato: la produzione in serie non riguarda più solo l’industria ma anche il corpo umano. Alle donne sono esportate chirurgicamente le ovaie e i bambini vengono generati dentro gli incubatori del Central London Hatchery and Conditioning Center. La divisione della società in caste è determinata prima della nascita, tramite un ritardo indotto nello sviluppo degli embrioni, a cui viene aumentato o diminuito l’ossigeno per decretare la loro superiorità o inferiorità nella gerarchia sociale. Quello ipotizzato da Huxley è un sistema di classi, per così dire platoniche, dove ognuna assolve diverse funzioni: c’è la casta Alfa, degli individui destinati al comando, la Beta, di coloro che ricoprono le cariche amministrative, e poi ci sono le tre classi inferiori (Gamma, Delta, Epsilon) che svolgono le mansioni più umili. Tutti i membri della società sono sottoposti a un condizionamento psicofisico, linguistico e culturale costante (la storia, per esempio, è abolita e ci si riferisce al passato solo come a un’epoca di barbarie, mentre i termini “padre” e “madre” sono utilizzati come insulti). Questo condizionamento è tuttavia necessario per rendere ognuno felice della collocazione sociale che gli è stata assegnata. Per rimediare ad un’eventuale infelicità, la popolazione ricorre al soma, una droga antidepressiva. Si tratta di una dittatura soft, ben diversa dall’hard power esercitato dal Grande Fratello orwelliano, con i suoi due minuti di odio e le sue pratiche repressive. Nel Mondo nuovo la società è fondata sull’economia e sul benessere degli individui, tanto che, per certi aspetti, propone un assetto quasi desiderabile. Il governo offre svaghi continui, affrancamento dalla vecchiaia, dalla tristezza e dalle sofferenze, e promuove la libertà sessuale, le pratiche orgiastiche e l’uso di psicofarmaci.
Ma perché allora, Il mondo nuovo non deve essere trattato come un’opera di pura fantascienza, né come un romanzo satirico tout court? Quella di Huxley è in realtà un’opera profondamente politica e realista. Al di là della forma e del registro letterario utilizzati, infatti, Il mondo nuovo rendiconta gli inquietanti, ma verosimili progetti di ingegneria sociale dibattuti molto seriamente da un nutrito gruppo di personalità istituzionali – filosofi, scienziati, giornalisti, capi di Stato – soprattutto americani, inglesi e tedeschi, con i quali Huxley è in strettissimo contatto. Primo tra tutti, proprio il fratello maggiore di Aldous, Julian, celebre biologo, tra i più appassionati promotori dell’eugenetica, nonché autore di questo luminoso e al contempo oscuro saggio che abbiamo scovato tra le righe delle Particelle elementari di Houellebecq. Lo scrittore francese, in un paragrafo del suo best-seller, menziona Ciò che oso pensare, opuscolo pubblicato nel 1931, 8 in cui vengono «suggerite tutte quelle idee sul controllo genetico e sul miglioramento della specie che il fratello tratterà nel suo romanzo». Più che una semplice distopia, Il mondo nuovo è anche la testimonianza delle idee portate avanti dal fratello maggiore, e da quell’élite transnazionale molto influente politicamente di cui entrambi fanno parte. Gli Huxley invero discendono da una famiglia inglese di noti intellettuali. Nipoti di Thomas Henry Huxley, uno dei più grandi sostenitori e divulgatori delle teorie darwiniste (soprannominato non a caso “il mastino di Darwin”), nonché figli dell’editore Leonard, Julian e Aldous intraprendono delle carriere brillanti, e il primogenito arriva a ricoprire incarichi istituzionali di grande rilievo, esercitando sul fratello un’innegabile influenza. Non mancano infatti le dichiarazioni di Aldous in cui si dichiara favorevole alle pratiche eugenetiche e in cui spera nell’avvento di una società classista a tutti gli effetti:
«Le scienze della psicologia e della genetica hanno dato risultati che confermano i dubbi suggeriti dall’esperienza pratica. Non crediamo più nell’uguaglianza e nella perfettibilità. Sappiamo che l’educazione non può alterare la natura e che nessuna quantità di educazione o di buon governo renderà gli uomini completamente virtuosi e ragionevoli, o abolirà i loro istinti animali. Nel Futuro che prevediamo, l’eugenetica sarà praticata per migliorare la razza umana e gli istinti non saranno repressi spietatamente ma, per quanto possibile, sublimati in modo da esprimersi in modi socialmente innocui. L’istruzione non sarà la stessa per tutti gli individui. I bambini di diversi tipi riceveranno una formazione diversa. La società sarà organizzata come una gerarchia di qualità mentali, e il governo sarà aristocratico nel senso letterale del termine, vale a dire: governeranno i migliori»
The Future of the Past, articolo apparso su Vanity Fair nel settembre del 1927.
Alla luce di tali considerazioni, se vogliamo comprendere meglio il retroterra culturale da cui nasce Il mondo nuovo, dobbiamo fare un passo indietro e analizzare la genesi di un’ideologia molto in voga in quegli anni nei salotti inglesi: l’eugenetica. Sembra una storia di famiglia, ma ad inventare sia il termine eugenetica che la relativa disciplina, è l’esploratore e antropologo britannico Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Influenzato dal darwinismo sociale, Galton è convinto che studiando le leggi dell’ereditarietà genetica si possa provare la superiorità delle classi privilegiate e proteggerne la purezza evitando gli incroci con le classi inferiori. In effetti, secondo Galton, la civilizzazione, aiutando e assistendo i poveri e i più deboli, impedisce il processo della selezione naturale. Mossi da un sentimento anticristiano, i promotori dell’eugenetica condannano quindi l’assistenzialismo, le pratiche solidaristiche e il principio della carità, trovando nei partiti socialisti e nella Chiesa cattolica i loro maggiori avversari. L’eugenetica nasce per rispondere concretamente a quei problemi che Thomas Robert Malthus (1766-1834) aveva sollevato il secolo prima nel suo Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società (1798) e che appassionavano e impaurivano l’intellighenzia vittoriana. Poiché la popolazione mondiale cresce in progressione geometrica, quindi più velocemente delle risorse alimentari disponibili (che crescono invece in progressione aritmetica) questo squilibrio avrebbe portato all’esaurimento dei generi alimentari, delle terre coltivabili e delle risorse energetiche, frenando lo sviluppo economico. Da qui l’idea malthusiana di mettere a sistema il controllo delle nascite. In Inghilterra, intellettuali del calibro di H. G. Wells, George Bernard Shaw, Marie Stopes e Bertrand Russell, ma anche politici come Winston Churchill, Arthur James Balfour, ed economisti quali John Maynard Keynes, aderiscono ad alcune versioni, più o meno miti, del progetto eugenetico.
H. G. Wells, autore della Guerra dei Mondi, nella prefazione al libro della femminista americana Margaret Sanger, The pivot of civilization, agguerrita sostenitrice del birth control, scrive: «Vogliamo meno bambini e migliori. Non possiamo realizzare la pace nel mondo con sciami di cittadini inferiori, mal istruiti e incivili». Dai salotti dell’alta borghesia inglese, l’eugenetica approda poi in America e in Germania, dove i suoi sostenitori danno vita a fondazioni, organizzazioni non governative, centri di studio, osservatori (le fondazioni Rockefeller e Ford, il Milbank Memorial Fund, nonché le fondazioni Ciba e Gulbenkian, l’International Planned Parenthood Federation). Attraverso un’intensa attività di lobbying riescono a influenzare i governi e far approvare diverse leggi. Negli Stati Uniti, per esempio, l’ERO (Eugenetic Record Office) a partire dagli anni Venti, ispira una serie di regolamentazioni sull’immigrazione e la sterilizzazione dei soggetti ritenuti non idonei alla vita in società. Gli Stati Uniti, da sempre propensi alle sperimentazioni nel campo dell’ingegneria sociale, sull’ondata dell’entusiasmo positivista e delle nuove scoperte in ambito scientifico, trovano nell’eugenetica uno strumento efficace per far fronte alla “minaccia” rappresentata dall’arrivo dei “ceppi inferiori” dall’Europa orientale e meridionale (russi, polacchi, ungheresi, italiani, ebrei Askenaziti). Gli eugenisti infatti tentano di rispondere proprio a queste domande: di quante persone ha bisogno il pianeta? Come si possono regolare la quantità ma anche la qualità della popolazione? Ogni persona ha il diritto di avere dei figli? In aperta rottura con l’etica medica tradizionale, che aveva come imperativo quello della sacralità della vita umana, l’eugenetica afferma che i problemi di salute e di comportamento derivano da questioni genetiche prima che sociali, ed è perciò possibile risolverli tramite una regolamentazione della riproduzione. Nasce così l’eugenetica positiva, volta a promuovere la riproduzione dei soggetti desiderabili, e quella negativa, volta a prevenire la nascita dei soggetti “difettosi” tramite infanticidi, contraccettivi, aborti o divieti. A cominciare dal Connecticut nel 1896 e successivamente in molti degli stati federati, si promulgano leggi matrimoniali in base a criteri eugenetici, vietando il matrimonio a chiunque sia “epilettico, imbecille o debole di mente”. Nel 1907 l’Indiana autorizza la sterilizzazione di alcuni tipi di malati e di criminali; seguono la California, il Connecticut e Washington. Nel 1950, sono trentatré gli stati ad aver adottato simili dispositivi.
Nel Mein Kampf, Adolph Hitler vede nelle politiche statunitensi di sterilizzazione forzata uno strumento eccellente per preservare la purezza della razza ariana. Durante il processo di Norimberga, i vertici nazisti sotto accusa per crimini contro l’umanità affermano di aver semplicemente messo in pratica quelle teorie eugenetiche che negli Stati Uniti erano legge. Malgrado l’ombra del nazismo gravasse su questa disciplina, l’eugenetica continuò a sopravvivere a lungo, anche e soprattutto grazie all’infaticabile contributo di Julian Huxley. Julian è stato membro di spicco della British Eugenics Society, di cui fu vicepresidente dal 1937 al 1944 – dal consolidamento del nazismo fino quasi alla fine della Seconda guerra mondiale – e il suo presidente tra il 1959 e il 1962. Nel 1946 viene nominato direttore generale dell’Unesco ma appena due anni dopo, per motivi tuttora sconosciuti, è rimosso dall’incarico. Nel 1961 fonda il WWF (World Wildlife Fund), la nota organizzazione per la tutela dell’ambiente e delle specie in via di estinzione. Nonostante la brillante carriera accademica e le cariche prestigiose che ricopre durante tutta la sua vita, e a cui si dedica maniacalmente, tanto da soffrire di depressione e sottoporsi a diverse sedute di elettroshock (come riferisce la moglie Juliette), Julian non ritratta mai le sue posizioni eugenetiche, anzi, continua a promuoverle pubblicamente con un’abilità straordinaria. Camaleontico, disinvolto, telegenico, Julian inventa una figura nuova nel panorama scientifico, quella dello scienziato-impegnato, del divulgatore scientifico capace di sensibilizzare la popolazione sui temi che gli stanno a cuore. A partire dagli anni Venti, infatti, Huxley intuisce il potere dei mezzi di comunicazione di massa per orientare l’opinione pubblica e innestarvi nuove idee. Comincia con lo scrivere nel 1929, insieme a H. G. Wells, il libro The science of life, composto di tre volumi, che riscuote un grande successo e viene definito “la migliore introduzione popolare alle scienze biologiche”. Si avvicina poi al cinema, in veste di regista, con la realizzazione, nel 1934, del documentario The Private Life of the Gannets, incentrato sulla vita di una colonia di Sule, uccelli marini al largo delle coste del Galles, che viene considerato da alcuni come un filmato rivoluzionario, il primo documentario di storia naturale al mondo.
In una trasmissione mandata in onda dalla BBC nel 1930 incontra l’ira dell’emittente, ancora fortemente puritana, sostenendo la necessità di emanare delle leggi sul controllo delle nascite. Durante tutti questi anni prende parte attivamente a dibattiti, conferenze, interviste radiofoniche, scrive saggi e articoli su riviste popolari come The Radio Times. Eppure, le sue dichiarazioni tenute durante la Galton Lecture del 1936 presso la Eugenics Society, nel pieno della propaganda nazista, non lasciano dubbi sulla sua visione del mondo, non tanto diversa da quella degli eugenisti tedeschi: «Gli strati più bassi, presumibilmente meno dotati geneticamente, si riproducono relativamente troppo velocemente. Per questo motivo è necessario insegnare loro i metodi di controllo delle nascite; non devono avere un accesso facilitato all’assistenza o alle cure ospedaliere, per evitare che la rimozione dell’ultimo riscontro della selezione naturale renda troppo facile la produzione o la sopravvivenza dei bambini; una lunga disoccupazione dovrebbe essere un motivo di sterilizzazione». Il saggio che pubblichiamo oggi, What dare I think, a quasi un secolo di distanza dalla prima edizione, contiene, espresse in maniera molto nitida, le posizioni di Huxley e testimonia in particolare le modalità comunicative con cui è stato in grado di avanzare delle proposte “impresentabili” al grande pubblico.
Dichiarazione di intenti, manifesto programmatico, questo saggio anticipa temi cari all’ecologismo, parla di progresso e di benessere dell’umanità tutta intera: «La maggior parte di noi vorrebbe vivere più a lungo, godersi una vita più sana e felice, poter controllare il sesso dei figli quando sono concepiti, e poi modellare il proprio corpo, intelletto e temperamento nel miglior modo possibile; ridurre le sofferenze non necessarie a un minimo; stimolare al massimo le proprie energie senza poi risentirne effetti nocivi. Sarebbe piacevole creare a nostro talento nuove specie di animali e di piante, così come si preparano tanti composti chimici, raddoppiare il rendimento di un ettaro di grano o di un gregge, mantenere la bilancia della natura in nostro favore, bandire dal mondo i parassiti e i germi delle malattie. Sin dai tempi di Platone, e anche prima, vi sono stati utopisti che sognarono di controllare il flusso della razza umana, non soltanto nella quantità, ma anche nella qualità, affinché l’umanità potesse fiorire con caratteri nuovi». E tuttavia, anche in questo passaggio così idealista, a tratti bucolico, si trovano alcune questioni delicate e discutibili. Alterazione dei feti, modificazione della morfologia umana, controllo qualità degli individui: siamo ancora nel pieno della sbronza eugenetica. Ma, a differenza dei suoi predecessori come Galton, Mendel, Spencer, che approvavano l’eugenetica per questioni economiche, classiste o dichiaratamente razziste, Huxley tenta di legittimare la sua “ecologia umana” da un punto di vista innanzitutto umanistico, ed è qui che risiede la sua appetibilità. In questo testo, infatti, Julian dedica un intero capitolo all’umanesimo scientifico: «un umanesimo che sia anche scientifico vede l’uomo dotato di infiniti poteri di controllo, purché si prenda cura di esercitarli». Se siamo ormai in grado di gestire il germoplasma delle piante e degli animali perché, allora, non dovremmo considerare ragionevole fare lo stesso con i ceppi umani? La definizione di umanesimo, però, rimane sempre vaga, fumosa, sembra più un escamotage retorico per avvalorare la sua visione eugenetica che non un contenitore di valori realmente umanistici. Uno strumento semantico, a cui fare ricorso per scopi di marketing, accompagnato da termini come progresso, benessere, felicità, ma lasciando intendere che a definire il nucleo essenziale di questi concetti rimane un ristretto gruppo di scienziati e luminari a cui si deve delegare un potere sconfinato. In base a quale principio, infatti, un gene può essere ritenuto migliore di un altro?
Secondo quale principio umanistico, secondo quali criteri, che non siano arbitrari, si può decretare l’intelligenza di un individuo o il ceppo genetico di maggior successo? Queste questioni vennero sollevate da G. K. Chesterton, che nel suo libro Eugenetics and Other Evil (1922) si scagliò duramente contro l’eugenetica, «esaltata con nobili professioni di idealismo e benevolenza», ma che «significa, con ogni evidenza, il controllo di alcuni uomini sul matrimonio, o meno, di altri, il controllo di pochi, sul matrimonio, o meno, dei molti, e che lo scopo di questa disciplina è quello di impedire a tutte quelle persone che questi propagandisti non ritengono intelligenti di avere moglie o figli». Chesterton avvertiva la nascita di quello che Foucault, più tardi, ha identificato come biopotere, il momento in cui la vita umana, tramite la biologia e gli strumenti tecnici, è diventata gestibile, e la sua gestione è diventata il principale oggetto della politica. Con la nascita dei movimenti per i diritti civili e i movimenti di protesta tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, abbiamo assistito, anche in ambito universitario e sociale, a un atteggiamento libertario sulla sessualità e a una posizione critica nei confronti del darwinismo sociale e dell’eugenetica, che in quell’epoca conobbero un rapido declino, specie con le campagne di chiusura dei manicomi. Eppure, c’è un altro termine del glossario di Huxley che ad oggi non smette di attrarre consensi e che sembra tornato alla ribalta: si tratta del transumanesimo, un concetto non ancora sviluppato nel testo seguente, ma che verrà coniato per la prima volta in un articolo del 1951 e poi approfondito in un libro del 1957, Nuove bottiglie per vino nuovo. Qui Huxley sottolinea: «La razza umana può, se desidera, trascendere se stessa, non in maniera sporadica, un individuo qui, in un modo, un individuo là, in un altro modo, ma nella sua totalità, come umanità. Abbiamo bisogno di un nome per questa nuova consapevolezza. Forse il termine transumanesimo andrà bene: l’uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana». 16 Progetto in un certo senso nietzschiano, quello di Huxley, benché Nietzsche parli solo di autorealizzazione personale, mentre qui, insieme al superamento di tutti i retaggi morali e religiosi obsoleti, si auspica soprattutto la distruzione di tutte le barriere che la natura pone come ostacoli al dispiegamento dell’intelligenza umana, grazie alle nuove scoperte in ambito biologico, genetico e tecnologico. Questo concetto, elaborato primitivamente da Huxley, avrà una notevole fortuna negli anni a venire. Il filosofo Max More, nel suo articolo del 1990, “Transhumanism: A Futurist Philosophy”, lo definisce così: «Il transumanesimo è un insieme di filosofie che cercano di condurci verso una condizione postumana. Il transumanesimo condivide molti elementi dell’umanesimo, tra cui il rispetto per la ragione e la scienza, l’impegno per il progresso e la valorizzazione dell’esistenza umana (o transumana) in questa vita piuttosto che in qualche “aldilà” soprannaturale. Il transumanesimo differisce dall’umanesimo nel riconoscere e anticipare le alterazioni radicali della natura e della vita grazie allo sviluppo delle scienze e delle tecnologie come le neuroscienze e la neurofarmacologia, il prolungamento della vita, la nanotecnologia, l’ultraintelligenza artificiale e la colonizzazione spaziale, combinate con una filosofia razionale e un sistema di valori».
Questi progetti transumanisti – la compenetrazione tra uomo e macchina, le modificazioni del genoma umano, la ricerca della vita eterna, la colonizzazione spaziale, la progettazione di interfacce cerebrali che ci permettano di controllare i sistemi digitali attraverso i pensieri – oggi sono inseriti nell’agenda di molti Ceo, ingegneri e venture capitalist della Silicon Valley. Il transumanesimo conta tra le sue fila le figure più influenti dell’high tech statunitense: Raymond Kurzweil, direttore dell’ingegneria di Google; Elon Musk, fondatore di Tesla e Space X; Peter Thiel, fondatore di PayPal e tra i primi investitori in Facebook. Lo stesso Bill Gates si è detto un estimatore di questa visione del mondo, e ha consigliato pubblicamente di leggere il best-seller Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies del professor Nick Bostrom dell’Università di Oxford, co-fondatore della World Transhumanist Association. È proprio in California, nel 1994, che i transumanisti tennero il loro primo raduno ufficiale e nel 2007 presero la residenza a Palo Alto. Oggi non si contano più le startup a sfondo transumanista. Tra queste il progetto Ambrosia, che si occupa di parabiosi, quindi di compravendita di sangue fresco e plasma giovane per trasfonderlo nei corpi più anziani; i Laboratori Calico, finanziati personalmente dal fondatore di Google, Larry Page, che studiano i problemi dell’invecchiamento per superarli attraverso la biotecnologia; l’azienda Netcome, fondata dall’ingegnere informatico Robert McIntyre, che prevede la possibilità di scansionare il cervello umano per caricarlo in un computer. La digitalizzazione delle sinapsi, secondo McIntyre, significherebbe la sopravvivenza alla morte. A queste si aggiunge la Neuralink di Elon Musk, specializzata nello sviluppo di Brain-computer interface (BCI), che spera, connettendo il cervello con un dispositivo digitale esterno, di curare malattie neurologiche come la perdita di memoria, la perdita dell’udito, la depressione e l’insonnia. Infine, il Metaverso dello stesso Zuckerberg, rappresenta un passo in più in direzione dell’avvento di quella che nel 2005 il sopracitato Ray Kurzweil chiama Singolarità: «Non ci sarà distinzione tra umano e macchina o tra realtà fisica e virtuale.
Le nostre esperienze si svolgeranno sempre più in ambienti virtuali. Nella realtà virtuale, possiamo essere una persona diversa sia fisicamente che emotivamente. In effetti, altre persone (come 18 il tuo partner) saranno in grado di selezionare per te un corpo diverso da quello che potresti selezionare per te stesso (e viceversa)». Ma è davvero possibile pensare al transumanesimo senza l’eugenetica, distillato, cioè, di quel lato oscuro che Julian Huxley era riuscito a impacchettare così bene in una versione umanistica e illuminata? In effetti queste due nozioni sembrano legate indissolubilmente. Steve Fuller, tra i principali teorici del transumanesimo contemporaneo, nel suo libro Humanity 2.0: what it means to be human past, present and future (2011), ha tentato di riabilitare proprio l’eugenetica e i suoi principali esponenti:
«La storia dell’eugenetica è rilevante per il progetto di valorizzazione umana perché stabilisce il punto di vista da cui si deve considerare l’essere umano: cioè non come fine a se stesso ma come mezzo per la produzione di benefici…» (p. 142). Ma si spinge addirittura oltre, fino a caldeggiare la riabilitazione di una parte dei progetti nazisti: «In parole povere, dobbiamo prevedere la prospettiva di una trasformazione nell’immagine normativa della Germania nazista […]. Non è facile… ci sono stati solo i minimi accenni di riabilitazione nazista. Ma si mostrano alcune tracce, aiutate dalla morte di coloro che hanno avuto esperienza diretta del nazismo. Per esempio, alcune aree della scienza nazista che non figuravano in primo piano nella Seconda guerra mondiale – come i viaggi nello spazio, l’ecologia e la ricerca sul cancro – furono facilmente, anche se un po’ surrettiziamente, assimilate dagli Alleati. Ma anche nel caso della scienza nazista dell’“igiene razziale”, c’è una consapevolezza nascente che l’“eugenetica” e la “modificazione genetica” in generale, sono sempre state parte integrante delle agende normative progressiste» (p. 244).
Oltre a questo, Fuller indica la strategia comunicativa da attuare, ispirata forse alla finestra di Overton, per rendere accettabile le idee transumaniste agli occhi dell’opinione pubblica: «Gli scenari sono inizialmente controllati dai relativi scienziati affinché siano sufficientemente plausibili e la gente li prenda sul serio. In psicologia sociale, ci si riferisce a questa strategia col temine “inoculazione”, e suggerisce che, permettendo alle persone di spendere il proprio tempo parlando delle ipotesi più estreme di rischio, si pongono così le basi per l’accettazione di una versione meno virulenta di queste ipotesi. In questo modo l’idea si sarà normalizzata nella loro mente» (p.148). Nascosta sotto la veste umanista da Huxley, l’eugenetica rientra dalla botola del transumanesimo. E allora, di fronte a questo nuovo paradigma dell’umanità – la fine dell’Antropocene e l’avvio del postumanesimo, un mondo dove l’uomo sarà a tutti gli effetti superato – i dubbi sollevati da Chesterton rimangono attuali anche a un secolo di distanza. Chi dirigerà queste tecnologie, e chi potrà avere accesso ai loro benefici, visto che hanno costo proibitivi? Come saremo certi che le conseguenze non saranno nefaste? Controllo della mente, condizionamenti di massa, dittatura tecnologica, sperimentazioni sui più poveri… Sono note, infatti, le inclinazioni totalitarie dell’establishment della Silicon Valley e le critiche che hanno mosso pubblicamente ai governi partecipativi e alla democrazia in generale, una forma di amministrazione considerata vecchia, obsoleta e inabile nel gestire gli scenari, sempre più complessi, che lo sviluppo tecnologico inaugura ogni giorno. Peter Thiel ha infatti ammesso di non credere più alla compatibilità tra democrazia e libertà.
Nell’articolo “The Education of a Libertarian” apparso sulla rivista Cato Unbound, nel 2009, Thiel afferma: «Una startup è sostanzialmente strutturata come una monarchia. Non la definiamo in questi termini, ovviamente. Suonerebbe antiquato, poiché tutto ciò che non si riferisce direttamente alla democrazia mette le persone a disagio. […] Ma la verità è che le startup e i loro fondatori tendono a un atteggiamento dittatoriale perché questo atteggiamento funziona meglio per le startup». Tracciando un profilo psicologico sul New Yorker, nel 2011, George Packer ha scritto: «Thiel e la sua cerchia nella Silicon Valley immaginano un futuro che nessun altro potrebbe immaginare perché si sono rifiutati di abbandonare quello stadio di stupore giovanile che la vita costringe la maggior parte degli esseri umani a superare. Ognuno trova una giustificazione per le proprie opinioni nella logica e nell’analisi, ma una filosofia personale spesso proviene da una parte arcaica della mente, un’idea precoce di come il mondo dovrebbe essere. Per Thiel è la stessa cosa. Vorrebbe vivere per sempre, avere la possibilità di scappare nello spazio o in una città-stato oceanica, e giocare a scacchi contro un robot che potrebbe discutere di Tolkien, perché queste erano le fantasie che popolavano la sua immaginazione infantile».
Ma perché la società dovrebbe inseguire e adattarsi a questi sogni fantascientifici dei padroni del Silicio, che nascondono in controluce l’invidia nei confronti della macchina, la sensazione insopportabile che l’uomo non basti, che non sia sufficiente, che vada in qualche modo aggiornato, implementato, completato, perché naturalmente difettoso? Un profondo malessere nei confronti del presente, della realtà, del proprio corpo. Perché questo odio di sé, perché questa ricerca spasmodica di perfezione e immortalità, anche a costo di declinare la vita in forme non organiche, anche a costo di abbandonare l’umanità così come l’abbiamo conosciuta? «Se esistessero gli dei, come potrei sopportare di non essere un Dio?» si chiedeva Nietzsche. Come sopportare, oggi che si concretizza la possibilità dell’esistenza dei cyborg, di non essere uno di loro? Forse i Ceo della Silicon Valley, cresciuti con i supereroi della Marvel, i romanzi di Philip K. Dick e di Gibson, o i film di Cronenberg e delle sorelle Wachowski, non potranno tollerarlo, ma finché esisteranno uomini e donne disposti a credere che i limiti dell’essere umano – la morte, la tragedia, la sofferenza – siano irrevocabili, e che solo all’interno di questi limiti si svolga la possibilità di una grazia qualsiasi, fino ad allora saranno i poeti, come cantava Shelley, i veri “legislatori non riconosciuti del mondo”, e non gli ingegneri informatici.