Il lettore maturo (ossia, forte) che ha letto Storia dei miei soldi di Melissa Panarello (Bompiani, 2024) si è chiesto di certo come abbia fatto a entrare nella dozzina del premio Strega un romanzo che merita l’oblio – tenendo pure conto che è uscito a febbraio, a ridosso della scadenza per le candidature. Almeno, se l’è chiesto chi ancora crede che il più importante premio letterario italiano esprima la nostra migliore letteratura e non la nostra migliore nomenklatura. Ciò che si sa è che Nadia Terranova lo ha candidato definendolo «un romanzo magnifico, scivoloso e sapiente, che gioca con il grottesco, con il doppio letterario, con l’autofinzione, scritto dalla voce saggia di una donna capace di abbracciare la bambina che non smetterà mai di portare dentro.» Non si sa se qualcun altro del comitato direttivo gli abbia dato un’occhiata, visto che il direttore della Fondazione Bellonci ha dichiarato, in merito agli 82 candidati da smazzarsi in un mese: «Non sarete così ingenui da pensare che siamo andati a leggere tutta quella roba, vero?».
In linea con l’apprezzamento di Terranova, fioccano recensioni e interviste in rete e sui giornali che incensano l’ultima fatica di Melissa P, al punto che i lettori immaturi (ossia medi e scarsi) potrebbero fatalmente cadere nella trappola di andare a comprare il libro. Sono persone indifese, vittime di una tirannia culturale che spaccia per arte opere mediocri e considera la stroncatura un nemico mortale, una giusta causa di licenziamento: è per difenderci dalla tirannia del Kitsch che servono stroncature vere e nette; ed è solo questo il motivo per cui si discute qui di un libro da destinare al macero.
Partiamo dalla trama. Ci sono due protagoniste principali, Clara T e Melissa P – esatto, l’autrice coincide con uno dei personaggi principali e con uno degli io narranti (l’altro è Clara, che si abbandona a lunghe battute di dialogo per raccontare di sé in prima persona). Normalmente, l’io narrante di un romanzo non coincide mai davvero con l’autore o l’autrice, è una sorta di gemello, ma la brama di autoreferenzialità, a quanto pare, era tale che la scrittrice doveva per forza essere protagonista della storia. Per comprendere fino a che livello arriva questa brama, si deve procedere passo dopo passo.
Clara è fittizia, un’attrice decaduta che interpretò Melissa P in un film tratto dal secondo romanzo di questa, una donna che per l’autrice-narratrice-personaggio è «l’altra me». Per quanto fittizia, l’idea non è proprio frutto del genio della scrittrice, visto che nella realtà Guadagnino effettivamente diresse il film Melissa P, tratto dal primo romanzo 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire.Tuttavia, Clara non è Maria Valverde, l’attrice che realmente interpretò Melissa P nel film di Guadagnino: Clara è l’alter ego di Melissa P stessa. Siamo già oltre la semplice autoferenzialità. Infatti, attraverso le vicende di Clara, soprattutto del suo rapporto con il denaro e del modo in cui da ricca è divenuta povera, Melissa P vuole riflettere e riappacificarsi con la Melissa P resa famosa in tutto il mondo, a diciassette anni, da 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire; la quale – in modo mi auguro ben diverso dal personaggio inventato – ha dissipato la sua improvvisa fortuna fino a impoverirsi, anche a causa di una mal riposta fiducia in soggetti che hanno approfittato della sua ingenua fiducia. La vergogna di essere divenuta povera era tale che doveva prima o poi fare i conti con sé stessa. Dunque, siamo di fronte a una sorta di autoterapia romanzata dell’autrice, che invece di pagare uno psicoterapeuta come tutti, si fa pagare dai lettori la seduta.
Ricapitoliamo e riassumiamo: Melissa P racconta Melissa P dopo il successo di 100 colpi di spazzola eccetera eccetera, attraverso un personaggio che interpretò il ruolo di Melissa P in un film tratto da un romanzo di Melissa P; allo scopo di affrontare il problematico rapporto col denaro che ebbe la giovanissima Melissa P. Si riesce a capire che non basta definire l’opera semplicemente autoreferenziale? È un testo la cui originalità consiste nel portare su un altro (basso) livello l’autorefenzialità, così di moda nella letteratura italiana; un vero e proprio format, probabilmente cesellato da un algoritmo o una IA esattamente come le serie TV delle emittenti on demand o i film costruiti da Hollywood a tavolino per essere campioni di incassi; una moda dalla quale il mainstream non vuole ancora discostarsi, in attesa di esaurire e saturare la pazienza del pubblico per proporre, solo allora, qualcosa di nuovo (non necessariamente innovativo). Storia dei miei soldi è l’ennesimo tentativo di rivitalizzare questo format.
Non siamo certo in presenza di una Annie Ernaux la quale, pur raccontando di sé, travalica la dimensione personale e per narrare una dimensione femminile universale. No, siamo in presenza di una Melissa P che ha rovinato un’idea in partenza buona, quella di inventare un personaggio fittizio per esplorare quello che lei definisce «il tabù dei soldi», espressione alla quale alcune entusiaste scrittrici femministe hanno aggiunto «in mano a una donna». Il tabù dei soldi sarebbe la vergogna con cui si guadagnano e si spendono, secondo l’autrice, facendone una massima universale; ma che tabù sarebbe quello della gestione finanziaria in mano a una donna? Un semplice tabù fittizio, inventato. Un pretesto per avviare un’opera il cui scopo è prosaicamente fare dell’autoterapia e raccontare di sé e di come si è raggiunta la felicità. Ma di pretesti questo romanzo nemmeno lunghissimo è zeppo.
Parliamo del primo, quello che giustifica l’impostazione di tutto il libro. Melissa P scrive: «Una persona la conosci se conosci la storia dei suoi soldi», perciò decide di narrare della storia del denaro di Clara, con tanto di entrate e uscite dal suo conto corrente, di come l’ha sperperato, guadagnato, perso, investito e così via – insomma, “segui i soldi” applicata all’indagine sociale. Se fosse vera una proposizione del genere significherebbe che due individui sono esattamente la stessa persona se spendono e guadagnano allo stesso modo; e altra conseguenza logica è che non esiste nessuna attività umana che non contempli uno scambio di denaro. È una tesi che non sta in piedi, a meno che, invece di generalizzare a tutti gli esseri umani, non si limiti il campo a personaggi come Chiara e Melissa, le quali, evidentemente, sono soltanto i soldi che guadagnano e spendono – altro che cogito ergo sum!
Più avanti, c’è un pretesto ancora più odioso, soprattutto se si pensa a chi davvero lotta ogni giorno per essere felice, costretto a vivere nella povertà e nell’isolamento, rassegnato alla disperazione. Panarello scrive infatti:
«L’incontro con Clara mi aveva fatto precipitare in una vertigine di spavento, perché anch’io come tutti temevo di vivere nella felicità e quindi nei giorni belli mi mettevo sempre a pensare alle cose storte che potevano accadere, al di fuori del mio controllo. Eppure me la ritrovavo tra i piedi la felicità, ci inciampavo continuamente quando per esempio con mio figlio prendevo il treno per raggiungere un paese fantasma della Liguria o quando Matteo mi vedeva stanca la sera e lavava i piatti sotto l’acqua bollente e si metteva a letto con le mani scorticate. Non la volevo la felicità e lei invece restava con me e ogni volta che rimaneva a lungo aumentava l’agonia e la sentivo come una maledizione, più grande era, più terribile sarebbe stato il contrappasso.»
Siccome gira voce che le biografie drammatiche vanno forte, uno scrittore che vuol far cassa se ne deve inventare una; e se si tratta della persona più fortunata del mondo, deve raccontare di quanto sia terribile essere la persona più fortunata del mondo – come non sorridere dell’eroico marito che si sacrifica lavando i piatti, affrontando l’inferno di acqua bollente che, per misteriosi motivi idraulici, non si poteva stemperare girando la manopola dell’acqua fredda; cosicché, vinta la prova che neppure Eracle riuscì a superare, va a letto umile, con le mani segnate dalla pugna feroce, a testimonianza del suo valore? Ecco quindi rispettato un altro format tanto in voga nell’autofinzione italiana, quello della drammatizzazione di una vita agiata, privilegiata.
Altri pretesti per avvincere in modo disonesto il lettore sono gli inutili climax per situazioni le quali, nelle pagine successive, si scopre non hanno nulla di drammatico, fino a culminare in alcuni casi nel falso allarme tipo “al lupo al lupo”.
Poi c’è la dichiarazione dell’autrice nell’incipit: tutti i proventi del libro andranno a Clara, illuminando Melissa di un alone di generosità; ma Clara è inventata, e rappresenta Melissa stessa – il titolo Storia dei miei soldi è corretto perché si parla di quelli di Melissa. Inoltre, il finale rivelerà una menzogna ulteriore in quello stratagemma iniziale, che non è corretto rivelare per non rovinare il finale a sorpresa – sempre che qualcuno si voglia tanto male da leggere questo romanzo dopo essere arrivato a leggere fino a qui.
Infine, vi sono quei pretesti che servono a conferire un alone letterario a una narrazione vuota, ossia gli inserti per così dire “filosofici”, innestati quasi sempre nelle dichiarazioni di Clara, che suonano un po’ troppo forzati; ma la cosa peggiore è la loro banalità, quando non l’offesa gratuita come nel caso già illustrato del “dimmi come spendi e ti dirò chi sei”. Uno di questi è una riflessione di Clara che testimonia il livello medio della profondità di questo romanzo (pagg. 173-174):
«Se nasci ricco sei sprovvisto di generosità, ed è questo a mantenerti ricco. Se sei tirchio non puoi perdere denaro, puoi solo accumularne. Se nasci povero e diventi ricco sei bravo a dissipare, anche perché vuoi dimostrare a tutti come stato bravo a farne, ti fai vedere con gli orologi costosi e i soldi, invece che nasconderli, li fai annusare a tutti. Così ci metti poco a far tornare povera la generazione subito dopo di te. Se sei ricco da sempre e non hai mai saputo cosa è la povertà, perché neanche i tuoi nonni avrebbero saputo raccontartela, semplicemente non sai cosa succede alla gente povera: non sai come vive, non ne comprendi i bisogni, e quindi non l’aiuti, pensando che sia facile per loro cavarsela, come è facile per te. Ricordati, poi, che i ricchi sono tutti accomunati da una cosa: dalla vergogna. I soldi sono sempre sporchi, fatti con il sangue o il sudore, spesso di qualcun altro, ma a volte anche il proprio.»
Se i contenuti sono questi, si può immaginare la qualità dello stile: è ostinatamente paratattico, asindeti e polisindeti sono spesso opprimenti, l’italiano è sciapo e talvolta cacofonico – c’è scappato pure un errore di consecutio temporum. Ci sono tantissimi dettagli inutili, che hanno il sapore del pellet di polistirolo espanso: un elenco sterminato di cose possedute e perdute, esperienze vissute, senza alcuna motivazione al di là di quella di raccontare il vissuto di Clara e Melissa attraverso le cose possedute. Gli esempi sono davvero innumerevoli, ne cito solo uno che è verso la fine del volumetto e che vale per tutti:
«Dove avrei vissuto, però? Non sapevamo rispondere. Mi abbracciò, avevo un vestito a scacchi bianco e blu.»
Infine, Clara racconta a voce a Melissa con lo stesso stile con cui scrive la narratrice: non c’è distinzione tra l’una e l’altra voce, a parte le virgolette del dialogo: stessa punteggiatura, stesso uso del passato remoto (che nel parlato è molto raro), parlano con lo stesso tono e lo stesso timbro. Tutto uguale: uno degli errori più gravi per un narratore, che solitamente è commesso dai principianti; non da una scrittrice nata, come Terranova definisce Melissa P fin dal suo esordio.
Un romanzo di questa portata che arriva al premio Strega giustifica il suggerimento di Fulvio Abbate di prendere questo concorso per un gioco e niente più. D’altra parte, sono illuminanti le parole di Melania G. Mazzucco, presidente del comitato direttivo del premio Strega, in merito alla dozzina di quest’anno:
«Le opere presentate quest’anno al premio Strega dagli Amici della Domenica offrono un panorama frastagliato e contraddittorio, ma esaustivo, sulla narrativa contemporanea in lingua italiana. […] Abbondano le narrazioni oblique e non finzionali, composite, di taglio saggistico, memoriale o confessionale. Ma ritorna il romanzo d’impianto più classico, sia d’ambiente contemporaneo sia storico, con una lingua media, spesso intarsiata di dialetto, e un ritmo rapido, talvolta adattato alla serialità televisiva. All’opposto, svariate scritture sperimentali propongono impervie esperienze di lettura, in polemica e apprezzabile attitudine di resistenza alla prepotenza delle mode e del mercato.»
In attesa di avere in Italia un premio letterario tipo il Goncourt o il Nobel, ci dobbiamo accontentare dello Strega. Speriamo che almeno quest’anno vincano le «impervie esperienze di lettura», e non i format ormai usurati.