Più che lo stile, poté la mole. Muscolare. Fascistissima. Più di ottocento pagine per raccontare il primo atto della vita politica del Duce, dalla fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919, Milano; incipit alquanto moscio: «Affacciamo sulla piazza del Santo Sepolcro. Cento persone scarse, tutti uomini che non contano niente… Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire»), al 3 gennaio 1925, quando Mussolini risolve a suo favore la crisi seguita al delitto Matteotti, con il celebre discorso ai deputati («ebbene, signori, io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto…», potete leggerlo in scioltezza su qualsiasi repertorio online).
Ovviamente, per il getto delle prossime settimane – la durata biologica di un libro – non si parlerà d’altro che di M. Il figlio del secolo (nel maneggiare il titolo, il calco, lieto, è da N., il romanzo di Ernesto Ferrero, un po’ più smilzo, dedicato a un duce un po’ più celebrato, Napoleone, che predò lo Strega nel 2000: si sa, i dittatori tirano, letterariamente e letteralmente), l’ultima, sfiancante gincana romanzesca di Antonio Scurati, scrittore avvezzo ai premi (un Campiello per Il sopravvissuto, finalista allo Strega con Il padre infedele) e non indifferente al saggio (tra i noti: Guerra e La letteratura dell’inesperienza). Che Scurati abbia dichiarato di volere dare, con questo romanzo, il proprio personale contributo all’antifascismo, è del tutto ininfluente: sarebbe come dire che Moby Dick è stato scritto da Melville per focalizzare l’attenzione planetaria sul problema della cattiva alimentazione dei marinai a bordo di una baleniera. Scurati, piuttosto, con intelligenza, ha capito la cosa più semplice: il Ventennio – preciso: dalla fine della Grande guerra al Dux a testa sotto in piazzale Loreto – è una miniera romanzesca, altro che American Tabloid di James Ellroy, per dire.
Solo che. Scurati decide di ammainare il “romanzesco” in favore di una sorta di immane docu-film della vita di Mussolini. Il libro, costruito per sketch (ogni capitolo, piuttosto rapido, sgrana protagonista, luogo, data), sostenuto da una scrittura fredda, anti-empatica e anti-epica, sul crinale del piatto e del superficiale, ha, perciò, un pericolo genetico: la monotonia. A pagina 300 l’ardito lettore si lancia nella più spossante delle considerazioni (caspita, me ne mancano altre 500!), senza, in fondo, avere scoperto ciò che già non sappia se ha letto una manciata di saggi storici specifici o una biografia nutrita del Dux. Se il romanzo, di norma, nasce per mostrare il lato nascosto della realtà, il mostruoso dietro l’ordinario, le pudenda del mostro, qui Scurati, facendosene vanto («ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato»), racconta i fatti nella loro nuda ovvietà in blanda cornice narrativa. Solo che il libro non è utile come bigino per l’esame di storia contemporanea (troppo lungo) né per invogliare il liceale a far pratica nella storia patria (meglio un documentario, una serie, un film).
A parte alcune scene di rapace efficacia (esempio: nella morte del brigadiere Ugolini, linciato dalla folla nel giugno 1920, Mussolini «contrariamente al solito, sembra sinceramente scosso. Al contrario di ciò che nega esplicitamente, si ha l’impressione che… veda il cannibalismo all’orizzonte del futuro»), il libro (non romanzo) pecca (esplicitamente?) di «effetto Wikipedia». Così, quando appare Filippo Tommaso Marinetti scopriamo che «nel millenovecentonove ha fondato la prima avanguardia storica del Novecento italiano. Il suo manifesto per un movimento poetico futurista ha avuto risonanza europea, da Parigi a Mosca» (ma va!), mentre Mario Sironi è uno «che dipinge paesaggi urbani inanimati in cui la natura è assente», Umberto Boccioni è «il pittore delle visioni simultanee» e Gabriele d’Annunzio «ha speso il primo cinquantennio della propria vita nel tentativo di diventare il primo poeta d’Italia» (e «ci è riuscito»). Anche le chiavate del Duce con Margherita Sarfatti («il secolo vibra nei suoi seni, nel suo ventre, nelle sue cosce nude, spudorate. Lui, Benito Mussolini da Predappio, figlio di Alessandro, contro quelle cosce da signora ci sbatte come la mosca impazzita sbatte sul vetro del bicchiere capovolto») hanno il sapore stucchevole e didascalico dell’anagrafe cimiteriale.
Diciamo che un romanzo storico di 800 pagine, oggi, si sopporta solo se sei Lev Tolstoj o se tenti di scassare gli angusti limiti del genere (esempi ce ne sono, dopo Thomas Mann: l’Uwe Johnson di I giorni e gli anni, oppure, più recenti, Christoph Ransmayr e Jan Brokken), e Scurati – onore alla fatica – pare terrorizzato dall’adornare il Duce di aggettivi. Così Benito Mussolini, imbarbarito dalla fame di fama, fa la figura dell’assatanato sessuomane, un poco pataca, come si dice dalle parti sue, in Romagna, né glorioso né grottesco, il grado zero dell’uomo. Eppure, è la letteratura a fare la storia, il contrario è pappa stantia, stanchezza retorica: anche la presa di Fiume, presa per quella che è, in fondo («l’intera città appare in orgasmo. Il clima umano è da orgia a cielo aperto. La libidine sfrenata del seduttore la pervade. Soldati, marinai, donne, cittadini turbinano, variamente allacciati, sul ritmo di fanfare militari»), è una specie di brioso happy hour.
Qualche bizzarro riferimento all’attualità (a un certo punto appare «Arcore, il buco del culo del mondo») e certe sentenze («nessuna morte eroica ha senso per gli italiani, sempre pronti a tirare fuori il coltello per scannarsi in liti d’osteria ma incapaci di muovere un dito per l’Italia») sintetizzate meglio da chi conosce il mestiere (nel recente Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Vittorio Emanuele Parsi ricama sull’«ammirazione che troppo spesso molti italiani provano per il potere, pari solo al disprezzo che nutrono per l’autorità»), in questo libro che pretende di essere il prototipo del romanzo anti-sovranista non mi tolgono di torno una funerea considerazione. La storia soffoca l’atto letterario, il Duce incenerisce i suoi candidi o ruvidi cantori. Per raccontare Mussolini ci vorrebbe un Malaparte. Abbiamo Scurati. Tocca tenercelo.
Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, Bompiani
Caro Antonio Scurati,
non ci conosciamo, sa come la penso, le porgo i miei sinceri complimenti. Ha ottenuto ciò che voleva e al vincitore va dato atto della vittoria – tuttavia, sa anche questo, non basta una bottiglia di liquore e la rampicata per la cima della classifica delle vendite a fare il capolavoro. A volte la immagino travestito come il “Duca di Ferro”, Amedeo di Savoia-Aosta, mentre cavalca il Duce, aggiogato da sella eritrea, che gli stuzzica il cranio e lo imbocca con carote a fiotti, ridendo, beato. Una scena raccapricciante, ha ragione. D’altronde, è ciò che ha fatto: cavalcando Mussolini, equino di razza, ha vinto lo Strega e le reticenze dei lettori di ogni latitudine.
Caro Scurati, le scrivo convinto di poter raffinare il suo trinariciuto narcisismo. La prego, ha ottenuto quel che voleva, ora basta, non ci propini il ricino di altri due volumi di M. Il figlio del secolo, uno è sufficiente – peraltro, mi creda, lo sa, non ha la statura di un Malaparte né la verve di un Pasolini, le seconde puntate funzionano peggio della prima, non sarà ammansito dallo Strega, venderà di meno. Didascalico, retorico, cronachistico, il suo libro ha retrodatato la nostra letteratura di due secoli: probabilmente ha preso a modello Dumas figlio, non possiede il genio di Thomas Mann, ha ignorato la perizia di Uwe Johnson e le peripezie stilistiche di William Vollmann (perché?), le è aliena la furia apocalittica di un Giuseppe Genna (le consiglio, per variare sul menù, la lettura delle Lettere dalla Russia di Astolphe de Custine, può esserle utile: lì l’osservazione politica s’innerva perfettamente allo sketch narrativo). Ha scoperto l’uovo di Colombo – scrivere un romanzo sul Dux, cent’anni dopo i Fasci di combattimento, colpo da biliardo retorico – e l’ha cucinato per le masse, mirando a una narrazione populista più che popolare, anelando a essere (come i narratori deboli) il Duce della letteratura italiana, il guru con le verità in tasca.
Il romanzo, una frittata, è scritto male – che erotico grigiore le chiavate del Mascellone con la Sarfatti, «il secolo vibra nei suoi seni, nel suo ventre, nelle sue cosce nude, spudorate» –, è monotono – a causa della scansione cronologica, pedante: bisogna variare, stupire, volare alto! –, storicamente stucchevole – chi non sa che Marinetti «nel millenovecentonove ha fondato la prima avanguardia storica del Novecento italiano» e che «Il suo manifesto per un movimento poetico futurista ha avuto risonanza europea»?, non faccia il ciuco! –, con affondi psicologici degni di un gestore di racchettoni ad agosto che abbia l’estro di sfidare Roger Federer – del tipo: «Tutto va male. Non c’è nemmeno un soldo. A volte si fa anche la fame».
Sostanzialmente, il suo non è un romanzo, ma un vago, variopinto libro di storia. Una di quelle lagnose biografie che trovi a stagionare in una bancarella periferica. Non è un’illazione, la mia, ne è consapevole anche lei. Appena ha vinto l’ambito premio, non ha parlato di letteratura ma di storia: «moltissimi altri lettori italiani conosceranno attraverso M la loro storia, la nostra storia», ha detto. Quando la interpellano in certe trasmissioni televisive, in effetti, è preteso a parlare del Ventennio, della figura storica di Mussolini, non certo della sua opera, del suo genio romanzesco, e lei si presta al gioco medianico della tivù, vegeta nell’ambiguo.
A me sembra, caro Scurati, che il Duce la abbia annientata, la ha vampirizzata: esiste, come romanziere, perché esiste Lui, delle cui ombre si nutre con avidità da iena. Viene trattato alla stregua di uno storico – neanche, a ciò che dicono gli esperti, particolarmente dotato. Ha imparato la strategia di dire stratosferiche banalità ammansite da aggettivi, come quella che Mussolini abbia lavorato sugli «umori più neri delle masse, per alimentarle, soffiare su quel fuoco che soffia in basso, nelle paure, nei risentimenti, nei timori». Ci vuole un romanziere per dire il risaputo, per sputacchiare l’ovvio, che si attaglia al Dux come a Salvini come a Di Maio o al Commissario Zingaretti?
Caro Scurati, lei è uno scrittore da molto tempo, la prego, si conceda un po’ di dignità. Vederla scodinzolare intorno al mausoleo dei luoghi comuni, a fare la solita pisciatina, squalificando l’opera, «Dedico la vittoria ai nostri nonni e ai nostri padri, che furono prima sedotti e poi oppressi dal fascismo», è imbarazzante proprio per chi, come me, come tutti, ha avuto padri e nonni martirizzati dai fascisti. Ci mancherebbe che avesse scritto un romanzo in favore delle camicie nere – anche se forse sarebbe stato un azzardo narrativo più interessante (realmente, potentemente narrativo), indagare l’obbrobrio degli sconfitti, lo scempio degli ulcerati.
Il suo antifascismo, caro Scurati, è di facciata: perché non ha scritto la biografia romanzata di Gramsci, di Giacomo Matteotti, di Carlo Roselli, di Piero Gobetti? Capisco, editorialmente sono personaggi che non “tirano” come il Duce. Perché, allora, non ha avuto il coraggio di scrivere il romanzo su Mussolini più che un bignami di storia sul Ventennio, all’acqua di rose, con qualche sortita letteraria a imbonire i lettori? Capisco, aveva timore che l’accusassero di apologia del fascismo. Ma uno scrittore, caro Scurati, non scrive per accontentare cani e porci: né zuppa né pan bagnato, ideologo dell’inerzia, Lancillotto dei pavidi, non le resta che fondare il Partito degli Ignavi. In effetti, che completi la trilogia del suo progetto narrativo o la interrompa, poco importa. Lei non è uno scrittore e io mi preparo, per tempo, a ballare il tango con la camomilla.
Stia bene, cordialmente, Davide Brullo