Inizia sempre sul finire del Grande Fratello VIP e un po’ prima de L’isola dei Famosi, fa capolino nei palinsesti quando le belle giornate di fine inverno preannunciano la primavera imminente, spingendo così la gente, se non ad affrontare chilometri in una foresta nelle Filippine tra salite e burroni, almeno a fare una passeggiata a Villa Torlonia.
Benché sia un reality, tante persone – gira questa voce – vedono in Pechino Express un’ottima occasione di lancio o rilancio nella stratosfera dei VIP, una pausa tra un Grande Fratello e l’altro (che a quanto pare danneggia l’immagine dei già famosi) e alcuni vetusti concorrenti confidano in quel breve e abbagliante fuoco di paglia che precede sempre el buen retiro.
Ogni anni lo schema dei partecipanti è lo stesso: gli atleti non vincono mai e di solito sono gli unici con una pagina Wikipedia; il duo delle stangone è un rigurgito di reality; c’è una ex gloria accompagnata da marito/moglie/amico/amica/finto fidanzato/parente; ci sono gli antipatici (un anno era Federica Pellegrini col marito, lo scorso anno il pasticciere Damiano) e poi una fila di presenze che vive tra i conosciuti e gli sconosciuti, tra i morti di fama e i milioni di followers su Tik Tok. E come dimenticare la sempreverde e insopportabile presenza di Costantino della Gherardesca che ormai viaggia a metà strada tra il protagonista di UP e Dov’è Wally? Colui che scandisce ogni parola (imparate da lui attori italiani farfuglianti) come se il pubblico fosse composto da una massa di imbecilli con problemi di riversamento endotimpanico.
Per di più, da due anni, alla co-conduzione si è unito Fru (qui ha un po’ la funzione di Windows Clippy) che adoro, ma non quanto Enzo Miccio, per avere una volta deriso le infinite malattie di Giorgia Soleri, e poi Fru fa parte delle metastasi chiamati The Jackal, che pure apprezzo, ma stanno invadendo ogni pertugio della tv, di internet e dei teatri (diciamolo, Aurora Leone non è Sarah Silverman come io non sono Bret Easton Ellis).
Insomma, ci sono tutti gli elementi giusti per cui Pechino Express continui a essere l’unico reality non reality d’élite, quello che non ti marchia il CV, ma a cui tutti i parvenu, conosciuti o meno, ambiscono. I bimbi di Pechino Express non possono che essere i figli di Into The Wild, quelli cresciuti col film diretto da Sean Penn, e ancora meno quelli cresciuti con la biografia su Chris McCandless. Purtroppo, Chris è morto durante la sua borghese e scipita avventura in Alaska, lasciando un diario e dando modo a John Krakauer di scrivere un libro basato su quel diario solo per i figli della buona classe media, quelli che studiano ingegneria al Politecnico di Milano, quelli che d’inverno – almeno ai miei tempi – sciavano a Cortina e, d’estate, passavano il loro tempo pedalando a Forte dei Marmi. Infatti, Chris voleva tornare a casa, aveva capito, come in quei meme sul farsi 2000 km nel deserto per ritrovare se stessi, che aveva fatto una enorme minchiata e non vedeva l’ora di riconciliarsi coi genitori quanto con la cattivissima società capitalistica. Tanto, tra una famiglia agiata e un’ottima laurea, si sarebbe subito re-inserito benissimo da perfetto yuppie. Un po’ come l’ingegnere di 33 anni con cui mi scrivevo in chat a 19 anni: un tizio che viveva a San Babila e che sognava di ritirarsi un giorno in Africa (ma poi dove? Parliamo di un continente non di una regione) e insegnare ai bambini (che cosa non fu mai chiaro). Queste perversioni, tipiche del Primo Mondo, di vivere per interposta persona, non ci lasceranno mai.
Pechino Express fa esattamente leva su quel genere di persone, presenta uno spettacolo dalla cultura stereotipata, da un Terzo Mondo buono, accogliente, che non ha niente, ma che con questo niente dà tutto ai partecipanti in gara: cibo, letti e tetti di fortuna, soldi, benzina, passaggi, risate, bimbi sparsi e superficialità a pacchi. Ogni puntata dura poco più di un’ora, e non sono più di dieci puntate a stagione. Come si può pretendere, a parte le note a margine di Costantino e Fru, di rappresentare pienamente le culture incontrate? Non sarà Super Quark, certo, è pur sempre intrattenimento che, più che avvicinarsi ai lavori della famiglia Angela, ammicca al divertimento deteriore di Ciao Darwin.
Non si spiega mai il contesto culturale in cui si realizzano determinate prove, come quelle culinarie dove il tutto si riduce a pianti, risatine, concorrenti che devastano vomitando e urlando il locale o la casa del malcapitato autoctono, mancano solo le scorregge di Boldi e una canzoncina dance e sembra di assistere a un film di Neri Parenti. I soldi del montepremi (quanti? Avevo letto l’anno scorso più di 50.000 euro) vanno in beneficenza ad associazioni che lavorano sul territorio. Quali sono? E di cosa si occupano queste associazioni? Quanto guadagnano i nostri impavidi partecipanti per rigettare polmoni, giocare a domino con le milze e mangiare qualsiasi essere vivente ideato da Stephen King? Non si sa.
Pechino Express sembra quasi fare il lavoro di una immensa pro loco mostrandoci le bellezze del luogo, anche quelle che sembrano impossibili da raggiungere, propone delle tappe affascinanti per il pubblico privilegiato, che ha il tempo o il modo per indebitarsi con Findomestic e andare a farsi cagare addosso dai pipistrelli pur di vedere la Elephant Cave attraversando il fiume sotterraneo, per finire alla meravigliosa spiaggia di Sabang. Io vivo in prossimità delle Cinque Terre, eppure vedendo certe immagini la voglia di partire mi viene, quella di farmi defecare addosso un po’ meno. Pechino Express incentiva il turismo di massa? Può essere, ma al di là delle pillole culturali, del retaggio patrizio di Costantino e della sua parlata, non riterrei Pechino Express una tv migliore di quella offerta da Mediaset con Temptation Island e via dicendo.
Delle volte il programma sembra alimentare i nostri pregiudizi e ricordarci le gioie del capitalismo che ha permeato ogni aspetto della nostra vita: dal salotto firmato Poltronesofà, ai cibi occidentali o riconoscibili, quel capitalismo che ci impedisce di fare 10000 figli e tenerli su delle amache improvvisate, quell’egoismo negativo dove l’ospite è come il pesce, dove la fantasia di un foglio bianco perde contro l’iPhone 16 PRO MAX da 1 TB (o a qualunque marchio il programma faccia product placement). L’importante è che dopo dieci settimane d’avventure, sognate o realmente vissute, di occhi pieni di paesaggi naturali e di miserie altrui tu possa tornare a casa e, se sei a casa, metterti a letto, impostare la sveglia con Alexa e stringere forte forte tutte le tue colpe, ma d’ora in poi col sorriso sulla faccia.