Massimo Giannini raduna in una chat di gruppo ciò che ritiene il meglio delle teste pensanti del paese, con il proposito della lotta di resistenza alle indecenze dell’Italia sovranista. Il progetto si intitola Bella Chat, e si rivela dopo poco il solito sfogatoio digitale di paura. Leggiamone la parabola attraverso McLuhan.

A Massimo Giannini bisogna volergli bene.

Va detto con la dislocazione a sinistra e il pleonasmo del clitico, in una figura sintattica tra le più sabaude dell’italiano: emozioni così preziose e rare da costringersi a ripetere la specificazione del proprio indirizzo.

A Massimo Giannini gli vogliamo bene, dunque, da quando, all’uscita delle Feltrinelli, promotori di fantomatiche case editrici provavano a piazzarti un volumetto con copertina plastificata arancione, probabilmente salvata all’ultimo da una grafica in Comic Sans: Sette giorni a Dakar. Viaggio in Senegal, firmato appunto da tale Massimo Giannini, in collaborazione con il fotografo Luca Macchiavelli.

Per quanto privi della biografica certezza che quel Giannini a Dakar e lo Steve McQueen dell’anti-berlusconismo italiano siano la stessa persona, Massimo Giannini non può che cominciare a leggersi in versione avventuriero decoloniale, a cavallo dell’Harmattan, su una vecchia Norton coi freni a tamburo, comprata usata da un praticante avvocato di Prati. Con una certa tenerezza affettiva, rintracciamo, nella basetta euclidea del mezzobusto di Repubblica, l’allucinato baby boomer che scopre la percezione di sé nello stereotipo di un ideale.

A Giannini bisogna volergli ancora più bene, dopo la fotografia dell’ispirato redattore che lo presenta col casco e i mocassini scuri, in sella a una Vespa bianca, accanto al titolo: Giannini esce dalla chat.

Ecco i fatti: Massimo Giannini, insigne giornalista di area, raduna in una chat di gruppo ciò che ritiene il meglio delle teste pensanti del paese, con il proposito della lotta di resistenza alle indecenze dell’Italia sovranista.

Il progetto si intitola Bella Chat e celebra lo splendore dei suoi natali nell’evocativa data del 25 aprile.

Ingolfata di illustrissimi – Romano Prodi, De Benedetti, Scurati, Bianca Berlinguer, Veltroni, Ranucci, Formigli e compagnia cantante – Bella chat in un attimo diventa una specie di bar della provinciale dove David Parenzo e Rula Jebrael, per edificare il futuro dell’Italia migliore, pensano sia opportuno ricoprirsi a vicenda di ingiurie del tenore di “non sono anti-semita io, sei sionista tu” e viceversa.

Quando Giannini realizza che dalla rubrica gli è uscito il solito sfogatoio digitale di paura, frustrazione e cattiveria, inforca la vespetta, saluta tutti e se ne va.

Giannini, nella Bella chat, c’entra con lo Sten e se n’esce con lo scooter.

Il suo dramma narcisistico diventa di tipo armocromatico.

Una Vespa troppo bianca su mocassini troppo scuri marca un malinteso abbastanza comune negli ambienti dello chic radicale. Giannini confonde il medium con il dispositivo. Se il dispositivo serve un determinato uso, il medium è sempre indipendente dalle sue possibili utilizzazioni: il “medium è il messaggio”.

Semplificando, Giannini porta la Vespa come un trapper porta il Rolex coi diamanti, a titolo di indicazione di un determinato grado sociale e culturale, piuttosto che per mera puntualità. 

Una Vespa, e un paio di mocassini, in quanto dispositivi, non hanno niente da dire. Il loro compito si limita ad assolvere nella maniera più onesta possibile la funzione che gli è assegnata. Dispositivo e medium sono due cose diverse.

Il tipo di idiota tecnologico di cui l’industria dell’informazione si serve per vendere prodotto e consolidare potere è educato a un costante travisamento di questa distinzione. In fondo è questo il motivo per cui continuiamo a cambiare automobile e telefono cellulare.

Una ripassata di McLuhan non giova solo per imparare come si portano una Vespa e un paio di mocassini, ma soprattutto per afferrare le ragioni del naufragio strutturale della lotta di chat. Se dalle primavere arabe arriva al-Sisi, è persino necessario decostruire una certa mitologia dell’azione politica delle reti sociali di matrice digitale.

Al di là dello slogan da fuoricorso al Dams, il nucleo teoretico dell’eredità di McLuhan viene dall’impatto psicologico dell’alfabeto fonetico, quindi della scrittura, sull’ideologia della civiltà occidentale.

In questo senso, la distinzione tra hot media e cool media è stata in parte fraintesa, o comunque messa da parte, in favore di un’idea dei dispositivi di comunicazione sviluppata sul terreno dei beni materiali, piuttosto che su quello simbolico dei rapporti di percezione. Quando Zuck, Musk, Brin, o qualsiasi altro genio della Silicon Valley, ci mettono in mano uno dei loro gingilli, bisogna innanzitutto prendergli la temperatura.

Per McLuhan, c’è un principio base che specifica un medium caldo, come la radio o il cinema, contro un medium freddo, come il telefono o la TV: quello dell’alta definizione. È caldo il medium che porta a saturazione la sua offerta di dati. Il medium freddo, al contrario, produce sempre una disponibilità limitata di informazioni.

L’esempio classico è la differenza tra “al fuoco!”, messaggio caldo, e “aiuto!”, messaggio freddo.

D’altra parte, ogni patetico posatore monta la sua coolness nella vaghezza dell’indefinito.

La tecnocrazia informatica si basa, come ogni altra forma di potere, su uno scompenso di conoscenza. Solo una minoranza di specialisti detiene i codici di funzionamento di un sistema di intelligenza artificiale, di un motore di ricerca o di un sito di prenotazioni turistiche. McLuhan ci invita a non tener conto di questo divario. Nella relazione con il consumo dell’industria informatica, non sono interessanti le cause, ma gli effetti, cioè i meccanismi psichici toccati dalle invenzioni e dalla tecnologia. Questo almeno dimostra in ottica mcluhaniana la Bella chat di Giannini.

Il medium caldo dell’alfabeto fonetico, sviluppato nella tecnologia della stampa tipografica, determina l’avvento nella civiltà occidentale dei modelli politici del nazionalismo e del conflitto religioso. La parola scritta avvia il crollo della cultura feudale e la sua de-tribalizzazione: individualizza e frammenta.

Il medium caldo esclude, perché la singolarità di un determinato organo percettivo, una volta portata allo stadio dell’alta definizione, inibisce il coinvolgimento basato sull’equilibrio e sull’attivazione dei sensi nella potenza della loro molteplicità.

McLuhan è un professore di letteratura inglese che studia Shakespeare e corregge  compiti in un ufficetto dell’università del Missouri. Per aumentare i compensi alle conferenze, deve allora concentrarsi sul vero fenomeno della sua epoca, che è la televisione.

La TV di McLuhan è la scatola analogica a valvole e transistor del tubo catodico, probabilmente in bianco e nero, con l’antenna a dipolo e una ricezione del segnale che la rendono l’epitome della bassa fedeltà: medium freddo dunque.

«Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!», dice il conduttore Howard Beale in faccia alle telecamere della suo programma, nel film Quinto Potere di Sidney Lumet.

L’accesso di rabbia in favore di obiettivo può far sorridere, ma rileva il modo in cui Lumet mostra un fenomeno di ri-tribalizzazione legato al medium della TV.

Howard Beale invita il pubblico a urlare dalla finestra il suo atto di rivolta, in un rito collettivo di partecipazione globale. Quando il telespettatore recepisce l’invito di Beale, in un attimo, dalla Georgia alla Louisiana, è un coro di gente fuori dai balconi che grida all’unisono: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!».

Nonostante Quinto Potere resti particolarmente apprezzato per la preveggenza della sua sceneggiatura, la performance di massa che mette in scena sarebbe oggi inconcepibile. Un’eventuale commissione per la parità di genere potrebbe tra l’altro censurare la discriminazione verbale dell’aggettivo «nero».

McLuhan dice che la televisione, la sua televisione a tubo catodico e antenna a dipolo incorporata, lavora in una dimensione audio-tattile. Il che è già abbastanza clamoroso, in una società fino a quel momento immersa, da Gutenberg in poi, nell’alta definizione visiva della stampa a caratteri mobili. Ancora più clamorosa è l’oggettiva deduzione che andrebbe tratta da questa premessa: la televisione come medium freddo ristabilisce lo schema tribale di una partecipazione che il medium caldo invece dissolve.

La scena dei telespettatori che urlano il medesimo grido fuori dalla finestra in Quinto Potere indica questo, che McLuhan probabilmente aveva ragione.

Il nodo sta nel comprendere la contemporaneità elettrica fra energia e informazione.

Il medium elettrico è per antonomasia il mezzo della compresenza. Se il dono più grande che la tipografia ha fatto all’uomo è quello del distacco e del non coinvolgimento – il potere di agire senza reagire – al contrario i media elettrici portano a zero qualsiasi tipo di separazione nel tempo e nello spazio. La compresenza elettrica, sensorialmente eccitata alla partecipazione tribale dalla bassa definizione del medium freddo, produce masse mediatiche compatte, capaci di aggregarsi senza distinzioni intorno al consumo di un determinato prodotto, o di un determinato valore della lotta politica.

La componente tribale e partecipativa dei principali movimenti politici nati nella seconda metà del secolo scorso si può allora considerare in gran parte invocata dalla forma del medium televisivo.

Dagli anni zero in poi, quindi dall’11 settembre e dal G8 di Genova, la televisione ha smesso di essere televisione, nel senso in cui la intende McLuhan, progressivamente aumentando la qualità e l’intensità dell’immagine, fino allo standard dell’alta definizione digitale.

Il medium elettrico freddo della televisione ha prima dimostrato di poter sconvolgere profondamente, nel suo tessuto e nei suoi schemi, l’ordine dei rapporti umani impostato dalla parola stampata, salvo poi avventurarsi in una mutazione termica vagamente autodistruttiva, con il passaggio al silicio e alla calda risoluzione 4k dello schermo piatto.

Implosa la TV, si guarda alla chat di Giannini con la stessa passione dell’entomologo che fa l’acquario con una palata di fango per scoprirci dentro le leggi dell’universo.

Se il consesso telematico di una supposta élite intellettuale diventa un crocchio di rettili nervosi, vuol dire che qualcosa ci sfugge, nei meccanismi di formazione di questa élite, ma anche nell’epocale transizione dal medium elettrico della TV al medium elettrico di Internet.

La caratteristica delle reti sociali di stampo digitale che ancora non ci sconvolge abbastanza è la loro evidente trazione sociopatica.

È controintuitivo, ma si fatica a elaborare le contraddizioni di Internet come medium elettrico della compresenza. Perché, se da un lato il messaggio della rete viaggia a una velocità tale da annullare ogni tipo di distanza e separazione, dall’altro Internet e le sue applicazioni gli restituiscono la netta predominanza della parola scritta, cioè del medium caldo del distacco.

La schizofrenia delle strutture percettive indotta dall’improvviso avvicendarsi di una tecnologia calda con una fredda si condensa nell’estensione del touchscreen che, pur muovendo da input di natura tattile, annulla il senso del tatto in favore della sua assolutezza visiva.

Internet è il medium che elettrifica la parola scritta, introducendo un conflitto tra inclusività elettronica ed esclusività tipografica, i cui effetti di narcosi e stress nevrotico sono solo in apparenza distinti. L’ambiente polarizzato delle camere dell’eco non è altro che una reazione a un stato di compresenza necessario, perché elettrico, e al tempo stesso sgradevole e sgradito, nella misura in cui si basa su interazioni in gran parte mediate dal testo scritto. L’esacerbazione dei conflitti che sfocia nell’aggressione dell’insulto non è dunque un’anomalia dell’uso distorto di un dispositivo neutro, ma la funzione ineludibile della tecnologia di Internet come messaggio imposto al sistema nervoso centrale. 

Tra isterici e narcotizzati, si capisce che non c’è nessuno spazio per nessuna rivoluzione. Giannini nel frattempo si è messo un impermeabile beige alla Howard Beale, ha fatto una passeggiata sotto la pioggia senza ombrello e ha cominciato a urlare da solo, nella fotocamera anteriore del suo telefono: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!». Ma nessuno lo sta ascoltando.