Nella mia vita, forse per immedicato infantilismo, tendo a pensare per idealizzazioni, presto disfatte. Invano, sono stato convinto che Matteo Renzi potesse trasformare l’Italia del 2014 nell’Impero Britannico del 1901, che lo sciamano Alex Belli potesse vincere il Grande Fratello Vip del 2021, che Paul McCartney potesse rispondere alla mia ultima cartolina da Quercianella. A oggi – maggio 2025 – persisto soltanto nel credere che i Maneskin possano considerarmi come sostituto di Damiano David, magari doppiato, e che Rosa Matteucci, da poco tornata in libreria con Cartagloria (Adelphi), sia una delle poche speranze di salvezza per la nostra letteratura. Sui Maneskin, aspetto che la scelta solista di Damiano si faccia definitiva. Su Rosa Matteucci, invece, penso di avere qualche argomento a sostegno della mia fiducia.
Che Rosa Matteucci sia tra le grandi scrittrici e scrittori italiani degli ultimi 50 anni non sono il primo a pensarlo, e chi lo ha fatto prima di me era certo più intelligente e capace (Carlo Fruttero: 500 insuperabili parole per l’uscita di Cuore di mamma, nel 2006, sulla «Stampa», e forse anche altrove, se ne siete a conoscenza vi prego segnalate). Cartagloria, il suo ultimo romanzo, lo conferma: ancora una volta – vestendola di una prosa eccezionale – racconta parte della sua infanzia e della sua vita matura, qui concentrando le vicende sulla sinusoide della propria educazione spirituale, intercalata – condizionata? sembrerebbe – dalla catastrofe economico-affettiva della famiglia di origine che abbiamo già conosciuto e che solo la sua scrittura riesce a ingentilire: su tutti, ovviamente, il padre buono ma sciagurato, privo di senso finanziario e incline al pensiero magico, e la madre severa, spietata, fredda. Parole bandite: disfunzionale, narcisismo, anaffettivo, trauma. Bandito, insomma, lo psicologismo d’accatto. Qui le dinamiche familiari – materia prima dei grandissimi – tornano nell’ambito in cui rendono meglio, la letteratura. La crudeltà, l’ambivalenza, i condizionamenti, gli automatismi, la commozione, la tenacia, la pervasività, l’affetto vincolato o senza riserve, lo sconforto, la micragna, le illusioni, i rimpianti, la speranza che le persone amate possano cambiare, stare meglio. Questa è la famiglia, quando compresa, e questo c’è sempre, nei libri di Rosa Matteucci. Che con una grazia invidiabile riesce a non cadere mai nel pietismo, nell’autocommiserazione, nella lagna: anzi, con il suo gusto per il dettaglio, un prezioso catalogo di aneddoti e un formidabile senso dell’umorismo, racconta le tragedie della famiglia senza filtrarle, e ci fa anche ridere.
In Cartagloria, però, almeno rispetto a Tutta mio padre e a Costellazione familiare, la famiglia, presenza iniziale, si defila poi sullo sfondo, e lascia campo alla Matteucci – piccola, adolescente, giovane, adulta, ma sempre, con una sintesi che Lacan se la sogna, «bambina-io» –, al suo «apprendistato per la fine dei tempi», cioè ai suoi tentativi di trascendenza, autentici o posticci, deliberati o imposti, convenzionali o inediti: sul costante sottofondo di una incrollabile fede nella letteratura, si alternano il desiderio d’infanzia per un sacramento mancato (la comunione), i viaggi in India tra storpi e hotel a 5 stelle – già in India per signorine –, l’epifanico pellegrinaggio su treno Unitalsi a Lourdes – già nell’omonimo romanzo –, il famigerato buddhismo genovese, streghe da mercato e offerte d’ayahuasca (50€: anche pochi), richieste di esorcismi risposte con opuscoli illustrativi, l’approdo finale e pacificante alla messa con rito tridentino, nel rifiuto della «lebbra relativistica». Il tutto, ancora, alla maniera dei migliori: sublima il dolore e il disastro, per lasciarci solo il massimo divertimento delle sue storie e delle sue invenzioni linguistiche, spiritosissime. Due esempi tra i primi che ho segnato:
Mi colse il terrore, che provo ancora oggi, di essere destinata a reincarnarmi, nel quadro del samsara più cesso del mondo, in un lettino del pilates. Pavento di trasformarmi nell’attrezzo dove fa gli esercizi l’ex segretario comunale, che soffia come un mantice, confonde l’inspirazione con l’espirazione, agita le gambette a stecco, ogni tanto molla un peto involontario, si lamenta di continuo, con voce atona dichiara che ha male al collo, sa di sudore rancido, ascelle e piedi compresi, e soprattutto, una volta terminata la lezione, pretende di fare battute di spirito.
[Sull’autobus verso l’esorcista] A bordo dell’autobus non c’era nessuno, sotto il mio sedile giaceva un enteroclisma accanto a un pacchetto di caramelle Mentos; l’autista, anziché la strada, una serie di tornanti, guardava sul cellulare un video della Gialappa’s.
Irraggiungibile, poi, la riesumazione di un trisavolo per mano di un operatore cimiteriale con l’orgasmo di Cicciolina come suoneria del cellulare.
Nello stile, come anticipato, Cartagloria si mantiene fedele ai predecessori: unico e riconoscibile. E allora converrà direttamente citarlo, Fruttero, perché lo ha descritto benissimo:
Rosa Matteucci fa esattamente il contrario, cioè scrive davvero […] Si sente subito che tutto conta, che l’autrice ha in mente un disegno preciso, che se le andrai dietro qualcosa ne ricaverai. Piccoli spostamenti di avverbi, aggettivi divelti dal loro consueto sostantivo, similitudini non bislacche e tuttavia impensate, oggetti quotidiani, «bassi», infilati tra nobili o tragici eventi. Non c’è alcun virtuosismo, nessuna bravura esibita. Non si ammira nessuna «bella pagina», ma le tante piccole rugosità, i minuscoli spigoli e sobbalzi, ti tengono sveglio, vuoi sapere dove ti sta portando questa singolare manovratrice.
Ma qui, rispetto ai vecchi romanzi, c’è una differenza. La scrittura è meno aspra, le “rugosità” sono minori, la sintassi più scorrevole, piana. Questo avviene non certo per una crescita (Matteucci è di quelli che nascono – letterariamente – adulti), ma forse, azzardo, perché la materia trattata – in paragone alle storie del padre e della madre – è ora più dicibile, per ovvi motivi meno sofferta, e non ha bisogno d’imbarocchirsi.
Lo so che sto dando per scontato che il racconto coincida con le vicende di vita dell’autrice, e forse dovrei farlo con cautela, visto che l’ultima volta che l’ho fatto Roland Barthes per la rabbia mi ha staccato l’antenna della Passat. Ma è un mio limite: non vedo altro, quando leggo un libro, se non la persona che lo ha scritto. Se il libro è un troiaio, mi appaiono le velleità dell’autore, non i difetti strutturali o i personaggi male sfaccettati. Se il libro è un capolavoro, cerco di capire in che modo la vita di chi lo ha scritto lo abbia condotto a quel risultato. Ora: quante volte, dalle nostre professoresse di letteratura, abbiamo sentito ripetere che Gustave Flaubert, mentre si provava la giarrettiera della madre allo specchio del bagno, ripeteva “Madame Bovary c’est moi”? Tantissime.
Eppure, al di là dei discorsi sulla morte dell’autore, anche l’autobiografismo dichiarato, nelle arti, ormai ci insospettisce. Si sente dire che è una soluzione di ripiego, quando latitano il senso creativo, l’invenzione, lo studio. Fissazione onnipresente: alle fiere del libro, nei proclami dei critici – chiacchiere da bar per gente che al bar non facevano entrare –, nei corsi di scrittura creativa, dove, ovviamente, gli insegnanti preferiscono consumare i loro martedì sera a incentivare sprazzi di picarismo piuttosto che a leggere flash borghesi intorno alla catena causale che ha portato la corsista X a ingoiare sette Momendol per punire il marito fedifrago prima di realizzare che nessuna punizione sarebbe stata altrettanto efficace quanto il farlo convivere con un’aspirante romanziera cinquantaduenne che a letto, invece di sbuffare, ora fa le due e mezzo leggendo sottovoce (mica tanto) Bolaño, tetramente illuminata dai suoi occhialini lampadinati. Ma la grande arte, invece, specie quella letteraria, è trasfigurazione, più che invenzione. E mica importa rammentare Nabokov: basta quello che di recente ha detto David Chase sulla sua Livia Soprano (nel documentario Wise Guy: correre, è su Sky). Il punto, come sempre, è che le cose bisogna saperle fare. E, tra chi l’autobiografismo lo sa fare, c’è di certo Rosa Matteucci, che della sua storia ha fatto letteratura.
E qui torniamo alle mie speranze. Perché ad esaltarmi, derivata dai suoi libri e integrata dal poco che lascia filtrare di sé – ad esempio dal formidabile Instagram, zeppo di cani bruttini, invocazioni a santi minori, letture inusuali, senza traccia di ideologismi o partecipazione –, è l’ipotesi che Rosa Matteucci concede, ossia di essere la grandiosa scrittrice che è mantenendosi pure del tutto estranea dal ceto intellettuale italiano. Anzi: che in qualche modo possa esserne l’antidoto.
Quando leggo le sue pagine o vedo un suo post dove ringrazia per il dono della vita, m’illudo che si possa fare letteratura senza conformarsi al modello corrente di scrittore-intellettuale, necessariamente impegnato, necessariamente con un po’ di forfora, necessariamente con scarpe impresentabili, necessariamente scientista-razionalista, necessariamente ironico solo nei termini negli ambiti e nella direzione che vuole lui, necessariamente pop ma studiatissimo, necessariamente con occhiali a montatura spessa meglio se esagonale, necessariamente depositario di un’idea strumentale e cioè carrieristica dello scrivere (cambiamento sociale, sensibilizzazione sui temi, logiche di comunità, propaganda politica – oddio). Prevedibilissimo, insomma. Il contrario dell’arte. E io invece provo una divertita e sorpresa soddisfazione, pensando al fatto che una scrittrice di questo livello pubblichi ridanciani autoscatti con indosso borse di Louis Vuitton o in tenuta da pilates, perché sogno che la letteratura italiana possa smarcarsi dall’essere prerogativa e ricettacolo dei disagiati, dei pauperisti, della ipersensibilità esibita, dei pesoni, dei livori di chi non ce l’ha fatta altrove.
Questo è tutto. Inutile dire oltre, spero solo che più persone possibili si fiondino a comprare Cartagloria. Le ultime parole della giornata, invece, voglio rivolgerle a te, DAMIANO: io, francamente, credo che gli altri non ti meritino. Ma che è, quel capellone alla batteria, quella scalmanata col basso che pesta i piedi di continuo. Tu sei di un’altra categoria, con le tue occhiatine di traverso, un po’ funky un po’ nistagmo, numero uno. Abbandonali, dammi retta. Non ti sentire in colpa. Qualcuno al posto tuo lo trovano.