C’è un percorso classico, un "cursus honorum", per entrare a far parte del mondo editoriale, letterario, o culturale identificato come "underground", se per underground non s'intende sottoculturale, battagliero o innovativo, ma ci si riferisce a tutte quelle attività culturali che costringono chi le persegue a tirare avanti principalmente per passione e arrotondare nella ristorazione 2/3 sere a settimana.

C’è un percorso classico, un cursus honorum prestabilito, per entrare a far parte del mondo editoriale, letterario, o culturale identificato come underground, se per underground non s’intende sottoculturale, battagliero o innovativo, ma ci si riferisce a tutte quelle attività culturali che costringono chi le persegue a tirare avanti principalmente per passione e arrotondare nella ristorazione 2/3 sere a settimana.; ndA: ‘underground’ bisognerà pronunciarlo mentalmente come Antonio Albanese in quel film per il resto dell’articolo.

Anzitutto è fondamentale l’università; non tanto però per l’istruzione che offre, ma perché l’accademia è la primavera della squadra culturale underground di domani. Dei battitori liberi – autodidatti o mal istruiti – ci sono e ci saranno sempre, ma passando dall’università è tutto più semplice; è lì che si imparano le parole d’ordine fondamentali – quelle a tal punto vaghe da poter includere tutto e il contrario di tutto (come ‘capitalismo’, che rimane ad oggi imbattuto per ampiezza di significato) – e si capisce come funziona il gioco, cosa dire, in che modo e dove dirlo, si stabiliscono le gerarchie ideologiche, s’impara il vocabolario e il timbro del parlare culturale. Poi per carità, spesso s’impara anche qualcosa di nozionistico, ma non è questo il punto. Non basta sapere per diffondere cultura underground.

Una volta presa la laurea o il dottorato (meglio), o anche nel mentre, bisogna farsi il giro delle riviste, quelle radicali, cioè quelle che non prevedono un contributo economico per chi scrive (come questa su cui scriviamo, radicalissima). Non sono tantissime, bisogna girarne quanto basta perché la propria bio virtuale possa recitare “scrive e collabora con alcune riviste”. Bisognerà ricordarsi di citare gli autori o le case editrici di cui si vuole attirare l’attenzione, non importa se in modo congruente, tanto nessuno nota se una citazione conferma o meno la proposizione che segue, l’importante è lanciarla nell’etere, su internet, dove sarà preda facile dei filtri di ricerca. Gli attori culturali sono di norma insicuri e orgogliosi, digitano il loro nome sui motori di ricerca con cadenza settimanale; se quindi si cita accuratamente e con un po’ di cinismo in poco tempo si verrà notati, è una garanzia. Si può anche tentare un approccio laterale, con un piede qua e uno là tra il mondo della cultura ufficiale e quello sottoculturale, legittimando letterariamente o filosoficamente un prodotto della cultura di massa, usando Heidegger per ascoltare l’hyperdub o Lautréamont per interpretare un meme. E’ un approccio tra i più rischiosi di cadere nel ridicolo, ma anche più profittevoli nel caso di successo. Una via più diretta, invece, per mettersi sulla mappa sarà quella di organizzare la presentazione del libro o del progetto di qualcuno del giro di cui si vorrebbe fare parte. Richiede però avere l’accesso a uno di quei fantomatici “spazi” o “realtà” culturali; non è scontato, anzi per molti è già condizione sufficiente per dichiararsi attori culturali underground.

Essenziale in tutto questo, però, è frequentare nel frattempo gli eventi giusti nei posti giusti – possibilmente posti all’apparenza working-class, nello spettro che va dall’evento al centro sociale all’inaugurazione della libreria in periferia; (tornerà utile più avanti: qualunque strada si scelga di percorrere l’importante è farla sembrare in salita). Bisognerà farsi notare però a questi eventi, non troppo, ma neanche troppo poco, si può provare con l’abbigliamento o il taglio di capelli, ma il metodo ad oggi più efficace rimane la domandina durante o, meglio, dopo (“ti posso chiedere una cosa”) a uno dei relatori; quel tipo di domande che non mette in difficoltà chi la riceve, né scioglie alcun dubbio di chi la formula, ma permette a entrambi di connettersi lungo un asse comune di riferimenti culturali (si sarà senza dubbio imparato a fare questo tipo di domande negli anni universitari).

Poi bisogna includere in qualsiasi cosa si scriva o si dice in pubblico un’altra cosa imparata negli anni dell’università, le parole d’ordine di cui sopra, facendo attenzione a quali hanno perso nel frattempo valore, diventando mainstream, – per capirlo basta dare un’occhiata alle locandine delle grandi fiere nazionali o seguire la pagina instagram di Tlon – e quali magari sono state bannate perché condivise con convinzione dalla destra reazionaria. Bisogna inoltre sapersi orientare sulle nuove uscite della piccola editoria “radicale”, ovvero quella che paga poco, come le riviste, e pubblica libri che contengono nel titolo le suddette parole.

Queste pratiche sono fondamentali per chi si ostina a voler il proprio posto al sole in questo mondo, soprattutto se non ha granché da dire. La fase “riviste” della sua carriera potrebbe durare parecchio, e nel tempo le esigenze della fame o della specie potrebbero finire per congelarla così come è. Per chi è capace di produrre dei ragionamenti sensati, invece, o di scrivere discretamente (le due cose non vanno necessariamente insieme), in poco tempo qualche spazio potrebbe finire per aprirsi, il suo nome comincerà a girare in qualche piccola redazione a caccia di idee, che guarda caso avrà in progetto un libro, o un volume collettaneo, proprio su uno di quei temi propagandati come sottoculturali. Se sarà stato abbastanza furbo e recettivo, ormai avrà imparato a padroneggiarne uno in particolare, o un mappazzone concettuale che li contiene e connette tutti tra di loro tramite qualche prefisso latino, per dare vita a un’unica critica universale, inconcludente e molto allusiva.

Da questo punto in poi, dalla prima pubblicazione allineata, le porte del mondo culturale underground sono, in linea di principio, aperte. Dipenderà dalle capacità del singolo saper sfruttare l’occasione, il giro di conferenze, le presentazioni, le connessioni. Avrà dimostrato che il contenuto c’è, ed è tale da non infastidire nessuno all’interno del mondo culturale, da non scomodare troppo il pensiero e da confermare i preconcetti che già dominano il dibattito della bolla, rimescolandoli in nuovo prodotto editoriale; esso sarà perciò di casa pressoché ovunque, dai CSOA alle testate nazionali che pagano a collaborazione, passando per fiere, televisioni, piccole riviste e podcast seriali. Non c’è da temere: ogni redazione culturale è sempre costantemente a caccia di qualcuno con cui riempire un palinsesto, per giustificare l’accesso ai fondi pubblici o vendere le birre al bar-libreria che ospita l’evento, quindi in sostanza per tirare a campare. Basta avere pazienza. L’accesso è perciò di norma garantito, se si riesce a non farsi cogliere in flagrante con qualche illecito a spese pubbliche, a limitare la propria ironia entro cerchi ristretti e fidati, e non farsi prudere le mani con la propria compagna. A determinarne le caratteristiche e la dirompenza saranno l’aspetto fisico, la capacità retorica, la sfrontatezza, il capitale umano ed economico iniziale, e l’emotività che genera la propria biografia se la si può leggere attraverso la chiave di un eventuale riscatto economico o esistenziale ottenuto grazie alla cultura.
 

C’è poi un percorso non tradizionale, più moderno ed eccentrico. Creare una pagina di meme, o una incentrata, sempre con taglio ironico, su una o più delle parole d’ordine del momento. Maggiore il numero dei follower, maggiore sarà di conseguenza la credibilità dell’istituto culturale che vorrà trasformare la pagina in un libro o in un prodotto audiovisivo ufficiale. Se il successo potrà essere immediato, gli effetti a lungo termine di questa strategia sono incerti, il rischio sarà di rimanere impelagati nelle maglie del proprio personaggio da social. Chi nasce produttore di meme o influencer spesso muore comunque cameriere, anche se per un po’ gira un libro col suo nome in copertina.