Avete presente il Timothée Chalamet dello spot Bleu de Chanel, il divo dall’aria annoiata che dopo aver ricevuto un bigliettino da una sconosciuta ammiratrice la insegue fino alla metropolitana salvo poi rimettersi in cammino come se nulla fosse mentre la sua voce fuori campo annuncia il nome del profumo in questione, come a dire chi se ne frega se quella mi è sfuggita? Il Gene Hackman respinto al bar dalle due ragazze ne Il braccio violento della legge si consolava con l’uovo sodo (“tanto io ho c’ho l’ovetto…”); Chalamet no, Chalamet dell’ovetto non saprebbe cosa farsene. Lui, nelle mani di Scorsese, punta tutto sul valore aggiunto, sul fascino del divo incuriosito lì per lì dal mistero (bluastro, ça va sans dire) delle cose. Più essenza che esistenza, insomma, in senso per una volta più letterale che sartriano…
È lo stesso Chalamet che mentre girava lo spot per Scorsese era tutto intento a calarsi nei panni dell’artista che proprio sul mistero ha costruito la corazza personale (“per cinque anni e mezzo ho portato dietro la chitarra per imparare a suonarla”, ha detto) prima ancora che contro il mondo, contro se stesso, del genio che a colpi di strappi, di dichiarazioni spiazzanti, di dinieghi e di bugie e a costo di clamorose inversioni a U, ha ostinatamente, antipaticamente, artisticamente tenuto fede al principio-guida enunciato in una delle sue prime canzoni, It’s All over Now, baby blu: “Te ne devi andare subito, prendi ciò che ti serve”.
Il No direction home, il distacco, l’idea di andare avanti, la bulimia musicale, l’inquietudine e il rifiuto di tutto ciò che non fosse “io” o “me”, trasformate in regola di vita. Ovvero Bob Dylan, ovvero l’uomo tormentato che finge di essere in pace, interpretato dall’attore più di moda del momento, specializzato proprio in ruoli soavemente tormentati, preferibilmente amorosi, la star più eccentricamente (cioè più conformisticamente) ligia ai dettami comunicativi del momento, pronta ad assumere le forme e i modi più “giusti”, che sia il photo call con abbigliamento di (fluida) ordinanza, l’obbligatoria presa di distanza dal Woody Allen (suo regista di Un giorno di pioggia a New York) accusato alla fine non si è capito bene di cosa o la passione sviscerata un po’ a sorpresa per il calcio, per la Roma e per Totti che tanto può far colpo sulla stampa e su tanti giovani fan. Di là, uno che ha fatto di tutto per fuggire se stesso, per liberarsi del successo così ossessivamente – almeno agli inizi – inseguito, pronto a smentire se stesso a getto continuo, di qua un attore che potrebbe essere suo nipote diventato il simbolo luccicante della contemporaneità comunicativa; di là un poeta che proprio come Sartre si permette il lusso (o la sfacciataggine?) di snobbare il Nobel ricevuto per la letteratura (in quell’occasione spedì a Stoccolma l’emissaria di lusso Patti Smith), di qua un ragazzo chiamato a dare luccicanza a un cinema che non si sa quanto sia giusto dare per morto o no.
Che i due estremi dovessero toccarsi forse era prevedibile, che dovessero anche baciarsi, decisamente meno. Soprattutto dalla parte dello scorbutico Dylan che a sorpresa (tanto per cambiare!) aveva dato via social la benedizione al film, già suffragata per la verità dalla presenza del suo manager, Jeff Rosen, tra i produttori del film: “Timmy è un attore brillante, così sono sicuro che sarà completamente credibile nella mia parte. O nella parte di un me più giovane. O di qualche altra versione di me”. Ecco, “qualche altra versione di me”. Perché questo è il punto, per quest’uomo che in vita sua ha indossato maschere su maschere, sfuggente, contraddittorio e “impossibile” come nessun altro, diventato leggenda contro se stesso, quasi un auto-simulacro a forma di prisma.
Non per nulla Todd Haynes anni fa aveva intitolato -dylanianamente – il suo film Io non sono qui, scomponendo il protagonista in varie parti-sfaccettature-momenti di vita (interpretati da attori come Richard Gere, Heath Ledger, Christian Bale e da attrici come Cate Blanchett), e non per nulla lo stesso Scorsese nel più recente Rolling Thunder, si era inventato – anche lui dylanianamente, in fuga dal convenzionale – una serie di evidenti, volute falsità. Non per nulla i fratelli Coen in A proposito di Davis, dedicato a un suo collega decisamente meno fortunato, lo facevano intravedere solo nel finale, in procinto di cantare al “Gaslight”.
James Mangold no. Mangold, in questo A complete Unknown ha in Chalamet il suo Dylan, e gli sta addosso dall’inizio alla fine, da quando ventenne sbarca a New York nel 1961 a quando, quattro anni dopo, se ne va in motocicletta via da Newport, dopo lo s-concerto rockettaro creato nel santuario più venerato della musica folk, sorvegliato da vestali puriste come Pete Seeger e Alan Lomax. Per il giovane cantautore era l’addio al ruolo di acclamato portavoce della musica “di protesta” in cui canzoni come Masters of War e i tanti duetti con Joan Baez lo avevano incastonato in quel periodo cruciale della storia recente degli Stati Uniti, quello in cui la rivoluzione controculturale faceva davvero paura ai potenti, quello del passaggio da Kennedy a Johnson, quello in cui il razzismo teneva per la collottola la democrazia americana, quello in cui cominciava seriamente a incrinarsi il tacito e avvilente patto tra Washington e Stati del sud: voi votate le nostre leggi, noi lasciamo correre sul famoso “uguali ma separati”. Risolto in maniera ben diversa, è lo stesso Dylan elettrico, neo divo “contro”, ormai sulle copertine delle riviste come Malcom X, Kennedy o Castro, e che nel film di Tod Haynes aveva il corpo di Cate Blanchett e che, dal palco, dalle custodie degli strumenti musicali tirava fuori mitragliatrici.
Intendiamoci, il disagio civile era davvero reale, così come l’anticonformismo, e anche a Thelonius Monk il ragazzo si era presentato dicendo “faccio musica folk” (“beh, quella la facciamo tutti, gli aveva risposto il jazzista”), per dire che il problema non era certo il folk, ma quello che il folk si portava dietro, che gli stava intorno, anzi addosso. Il suo nume, più ancora di Hank Williams e Buddy Holly restava Woody Guthrie (quello che qualche strale lo aveva spedito anche a Fred Trump, il padre di Donald), che Mangold ci presenta in ospedale, insieme a Pete Seeger, come già fece Artur Penn in Alice’s Restaurant. Solo che Mangold, a differenza di Penn, in quella camera d’ospedale ci porta anche Dylan trasformandola praticamente in una sala prove chiamata a dare il la (il battesimo del maestro) all’intero film.
Un film, questo A complete Unknown (un completo sconosciuto, vuol dire, originale giudicato a quanto pare più felice di qualsiasi titolo italiano), che aggiunge episodi di fantasia e ne toglie altri di realtà (per esempio il fatto che a portare per la prima volta le sue canzoni in classifica, a sancirne l’affermazione fu per primo il trio Peter, Paul e Mary) e che in attesa del “voltafaccia” finale si risolve tutto tra canzoni (una decina in tutto, tra cui le ormai classiche The Times They Are A-Changin o Like a Rolling Stone) e intermittenze amorose vissute da lui e più che altro sofferte dalle sue innamorate dell’epoca, Sylvie Russo (nella realtà Suze Rotolo, interpretata da quella Elle Fanning un po’ smorfiosa che con Chalamet aveva già fatto coppia per Woody Allen) e Joan Baez (nella realtà…Joan Baez, interpretata da Monica Barbaro). Niente di più, a parte forse un Johnny Cash che (purtroppo) stavolta non è Joachim Phoenix come in Walk the Line e che per lui ha solo una raccomandazione: “combattere i poteri forti”.
Dylan ha detto spesso di amare gli acrobati (un “trapezista” si è anche autodefinito), Mangold deve amarli molto meno. Regista affidabile e multiuso (tanti i generi da lui affrontati, dal poliziesco al western, passando per la commedia), nemmeno stavolta, in questo film targato Disney, mostra curiosità per territori “altri”. Premiato oltre misura dalle otto nomination all’Oscar, probabilmente pensava che per far centro potessero bastare alcune canzoni immortali e una star come Chalamet, capace di far aggio su un mito vivente, con l’espressione da celebrity annoiata così simile a quella esibita nello spot Chanel di Scorsese. Uno Chalamet incensato ora a dismisura anche come cantante da cronisti evidentemente troppo poco interessati a chiedersi quanti e quali miracoli possa fare la tecnologia del suono…