Il mondo dell'informazione e della cultura sta collassando sotto il peso delle sue contraddizioni. Proponiamo qui una strategia per risollevarlo e mettersi al passo del conflitto in corso.

Uno dei fenomeni più strani della nostra epoca è l’inversione dei ruoli tra conservatori e progressisti nel campo della cultura e dell’informazione. La specificità di questi settori è che i cosiddetti “progressisti” sembrano incaricati di difendere la tradizione, vale a dire le moribonde istituzioni che per secoli si sono occupate della gestione e della distribuzione del sapere nelle nostre società: l’università, la scuola, i centri di ricerca, le redazioni giornalistiche, le case editrici e i “salotti”, quei luoghi metafisici in cui gli intellettuali si ritrovano a discutere dei massimi sistemi. Viceversa, tutto ciò che generalmente viene classificato come “conservatore” pare avere un solo obiettivo: delegittimare e distruggere questi centri, indebolirli fino a provocarne il collasso, sostituirli con qualcos’altro, qualcosa di nuovo e confuso.

Da un lato abbiamo quindi “quelli di sinistra”, i progressisti, ingaggiati in una missione conservatrice, nel senso che si impegnano a conservare la legittimità del pre-esistente, delle istanze democratiche, dell’eredità del Novecento. Ci si affanna a difendere l’autorevolezza di voci serie, competenti, quelle di esperti e studiosi, di fronte alla minaccia del populismo e del qualunquismo con cui i comici affollano le tribune parlamentari e gli influencer gli scaffali delle librerie. È una conservazione che vuole anche evitare gli estremi pericolosi, scongiurare i rischi celati in tutto ciò che è troppo arbitrario o troppo esplicito, tutto ciò che prende troppo posizione per o contro qualcosa. In fondo, un punto di vista netto minaccia sempre di escludere qualcun altro che non è d’accordo, e nella democrazia non c’è spazio per gli esclusi; per questo tale immaginario si nutre del compromesso, la via di mezzo che permette di garantire la governabilità e l’ordine.

Dall’altro lato abbiamo “quelli di destra”, i conservatori, che all’improvviso sono divenuti dei rivoluzionari: non gliene importa più niente né dell’ordine, né della democrazia, né della morale. Vogliono solo un cambiamento radicale e lo vogliono il prima possibile: l’ha capito bene il loro ambasciatore numero uno, che non appena si è insediato alla Casa Bianca ha iniziato ad apporre la sua firma svolazzante su dozzine di decreti, per poi promettere la risoluzione della guerra in Ucraina e della questione palestinese.

L’antropologo Georges Balandier lo definirebbe un potere che si mette in scena per mostrare che può agire, promessa alla base del patto stretto con le masse: “Noi ti eleggiamo, basta che tu faccia cambiare tutto e che lo faccia subito.” Questa inversione di ruoli tra progressisti e conservatori ha nei differenti approcci all’informazione la sua manifestazione più eclatante. Nonostante il putiferio provocato dall’arrivo di internet, chi ha ancora fiducia nel gioco della democrazia si ostina a voler regolamentare persino questo Far West della comunicazione per renderlo più inclusivo, meno discriminatorio, più civile e via dicendo.

La supposta “dittatura del politically correct” colpisce le tendenze collettive tanto quanto gli atteggiamenti individuali: sia che venga criticato come imposizione di valori culturali appartenenti all’immaginario della sinistra, sia che venga giudicato come uno strumento del capitalismo per spezzettare il conflitto di classe in una miriade di lotte identitarie indebolite, è innegabile che il concetto di “politicamente corretto” venga percepito nella contemporaneità come un tentativo di disciplinare il dibattito pubblico. Man mano che l’agorà occidentale si allarga a miliardi di persone e comprende minoranze ed etnie finora escluse, vale la pena di adoperarsi per normarla, affinché non diventi una giungla in cui ognuno urla ciò che gli pare e nessuno si ascolta: questa è la scommessa in cui si sono lanciate le forze progressiste.

Viceversa, di fronte a una relatività totale data dal marasma di opinioni, di voci discordanti e di visioni polarizzate del mondo – panorama apocalittico che qualcuno ha definito addirittura “era della post-verità”, come se nella Storia fosse mai esistita un’era della verità – coloro che fino a ieri erano trattati come conservatori, all’improvviso sono diventati i più grandi promotori del nuovo, inteso come capacità di immaginare orizzonti alternativi. In fondo, cosa sono le teorie complottiste che negano l’utilità dei vaccini e l’esistenza del cambiamento climatico, se non contro-narrazioni in grado di ribaltare la visione dominante, quella che l’ordine vigente vuole imporre come verità oggettiva? In cosa si differenziano le fake news sugli immigrati che rubano e sui manifestanti che vandalizzano le strade dalla propaganda che ha caratterizzato l’intera storia dell’umanità?

Ma la risposta alla propaganda l’abbiamo già trovata, diranno quelli con la coscienza limpida, si tratta dell’informazione! Ebbene, il termine “informazione” ha un’etimologia ben precisa: se spolveriamo il dizionario di latino, il primo significato di informatio è quello di “raffigurazione” o “rappresentazione”, seguito da “idea, nozione, immaginazione” e solo infine “insegnamento, spiegazione”. Vediamo bene come la componente soggettiva sia alla base della parola, che d’altronde contiene dentro di sé “forma”, qualcosa che per definizione si configura, si adatta e si modella in relazione a un contenuto.

L’informazione non è altro che la mise en forme di un contenuto, una formattazione che da esso diviene inseparabile nel momento in cui viene enunciata. Che si tratti di un giornalista o di un utente anonimo su un forum di terrapiattisti, un emittente che comunica qualcosa, che informa il suo pubblico, non può fare a meno d’inserire la propria soggettività nell’enunciato, dato che è proprio attraverso il gesto del comunicare che ci costruiamo un’identità agli occhi di noi stessi e dell’altro. E in fondo non potremmo farne a meno: la pretesa oggettività di alcune testate giornalistiche equivale all’inverosimile desiderio di separazione tra i fatti puri e chi li riferisce, che così facendo finge di parlare da una posizione indefinita, si fregia del privilegio impossibile di ritrarsi dal proprio punto di vista, come un’entità onnisciente e astratta. Il punto di vista è invece insito nella fabbricazione di un articolo, dal momento della selezione – oggi riporto la notizia della liberazione di 200 ostaggi palestinesi, o quella dell’esercito israeliano che apre il fuoco sugli sfollati che rientrano nel nord di Gaza dopo il cessate il fuoco? – fino a quello della stesura – utilizzo il termine genocidio, guerra o operazione militare? – e della scelta delle fonti – intervisto un ambasciatore israeliano, un portavoce dell’ONU o un militante palestinese?

La metafora del giornalista come strumento imparziale al servizio della notizia, macchina fotografica che rispecchia gli eventi così come sono, è tanto logora quanto anacronistica. Difatti è bastato che arrivasse una vera macchina, l’intelligenza artificiale, a minacciare migliaia di posti di lavoro, perché all’improvviso tutti i quotidiani più rinomati dell’Occidente, dal «New York Times» all’«Economist», si prodigassero in apologie del giornalismo autentico, quello figlio di interpretazioni e riflessioni squisitamente umane, in grado non solo di comunicare fatti ma anche di darne una chiave di lettura.

D’altro canto, non c’è niente che dimostri più di una guerra o di un genocidio quanto la neutralità di tante testate affermate non sia altro che un’ideologia malcelata, che come tutte le ideologie rifiuta di ammettere la propria parzialità. Chi detiene il potere ha sempre saputo sfruttare questo mito per creare una realtà fittizia, una normalità che si tramutasse in norma: in primis per legittimare la propria dominazione e poi per dettarne i canoni. Si tratta di un’operazione che ha sempre avuto un successo strepitoso, dai sovrani dell’antichità, che naturalizzavano la propria superiorità attraverso una chiamata divina o una discendenza di sangue, fino allo Stato moderno, che attraverso i suoi dispositivi fa coincidere naturalmente legalità e giustizia, matrimonio e amore, voto scolastico e merito…

Alice Coffin, giornalista e militante francese, nel suo libro Le génie lesbien afferma che la neutralità giornalistica non è altro che un alibi per escludere etnie e minoranze dal dibattito pubblico. Si tratta di una strategia d’invisibilizzazione e marginalizzazione del diverso, che viene accusato di non essere fedele alla verità e quindi di fatto alla realtà costruita e imposta dalla narrazione patriarcale ed eterosessuale, bianca ed eurocentrica. Coffin considera la neutralità come un privilegio di chi vuole raccontare non solo una storia ma tutte le storie, affinché la propria visione occupi lo spazio mediatico in maniera totale, eliminando il dissenso.

È facile ricollegarsi al dibattito su alcuni studi accademici ritenuti troppo ideologici: fin dalla loro nascita, i gender studies sono stati mira di offensive mediatiche che puntavano a trasporre alcune controversie reazionarie, alimentate dalla visione creazionista della Chiesa cattolica, dalla sfera accademica a quella ideologica e politica. Lo strumento principale di questi attacchi è proprio la pretesa neutralità degli ambiti universitari, che non devono immischiarsi con oggetti di studio faziosi e politicizzati come il femminismo: nelle aule si studia solo il sapere fondato e dimostrato scientificamente, una tendenza all’oggettività che negli ultimi tempi è strabordata sempre di più dalle discipline matematiche alle (per l’appunto) scienze umanistiche. La risposta degli studi di genere è stata infatti una maggiore produzione di cifre, statistiche e dati che legittimassero il proprio approccio anche allo sguardo miope della comunità accademica. Ma se persino i poteri millenari come quello del Vaticano faticano a regolare i flussi di sapere, in una società interconnessa in cui la loro circolazione è accelerata e moltiplicata all’infinito, non c’è da stupirsi che il progetto di regolamentazione del dibattito pubblico da parte di quei progressisti-che-fanno-i-conservatori sia stato e continui a essere un fallimento totale. Dall’utilizzo della schwa o di altri stratagemmi per evitare il maschile sovraesteso, fino alle critiche contro altre forme di discriminazione legate al linguaggio, qualsiasi misura calata dall’alto ha trovato terreno fertile soltanto nelle nicchie politicamente schierate per quelle lotte specifiche, mentre il resto della comunità continua a opporre una resistenza accanita e spesso derisoria.

D’altra parte, in tempi di crisi chi cerca di far rispettare le regole non va di moda. L’estrema destra populista l’ha capito bene: i suoi portavoce di tutto l’Occidente sono riusciti a dare un’aria rivoluzionaria alla propria visione del mondo, aggrappandosi a una critica feroce del sistema vigente. I temi sono sempre gli stessi, vecchi e reazionari – il razzismo e l’odio dello straniero, la misoginia di stampo patriarcale, l’elogio della ricchezza e la colpevolizzazione della povertà – ma l’accezione che hanno assunto è stata capovolta. Per parlare agli strati di popolazione più marginali e insoddisfatti, queste forze recitano una prospettiva di ribaltamento del presente, scostandosi dalla tradizionale destra di privilegiati che vogliono mantenere le cose come stanno per assicurare la continuità del proprio privilegio.

“Nuovo è sempre meglio” afferma Barney Stinson in How I Met Your Mother, e i programmi dell’estrema destra ne condividono la massima, anche a costo di sembrare incoerenti o contraddittori. Tutto ciò che rappresenta lo status quo può essere accusato come responsabile della situazione attuale: dalle élite politiche di Bruxelles fino a quelle sanitarie delle case farmaceutiche, dai diritti umani fino al concetto ultimo e intoccabile della democrazia, ogni occasione è buona per scagliarsi contro i guardiani dell’ordine. Persino riguardo a tematiche notoriamente conservatrici come quella della sicurezza, spesso legata alla legittimazione della violenza da parte delle forze di polizia o alla necessità di provvedimenti più rigidi sulla questione migratoria, il discorso viene impostato in maniera da sottolineare che “le cose per come sono andate fino ad ora non funzionano” e che “serve un colpo di mano”.

L’idea sottesa è che nel passato ci sia sempre stata una continuità e una complicità nella gestione del potere, a cui è giunto il momento di mettere una fine. Una volta affermata tale narrazione, è facile che il colpo di mano diventi colpo di Stato (fallito nel ridicolo), come nel caso dell’assalto al Campidoglio avvenuto il 6 gennaio 2021. D’altra parte, sarebbe impossibile far passare proposte politiche medievali per soluzioni innovative e ribelli agli occhi di milioni di elettori senza assumere un estremismo anche nei metodi e nelle forme: tutto diviene lecito per ottenere il cambiamento desiderato.

Recentemente è uscito un articolo di Internazionale intitolato “Perché a Giorgia Meloni piace Antonio Gramsci”, in cui viene raccontata l’appropriazione, da parte dell’estrema destra occidentale, di concetti storicamente socialisti: l’egemonia culturale e la battaglia delle idee. La pertinenza di tale analogia diventa evidente se riguardiamo alla strategia comunicativa con cui tali forze ripuliscono la loro immagine di conservatori per divenire fautori del nuovo; all’approccio cinico con cui ricorrono a ogni arma retorica per manipolare l’opinione pubblica; e all’astuzia con cui attaccano la sinistra proprio nell’unico campo in cui essa è portatrice di una tradizione e di un assetto regolatore, quello della cultura e della conoscenza.

Tutto ciò va unito al fatto che, malgrado i loro tentativi di passare per gli ultimi arrivati, sorti dal basso e portatori delle istanze popolari, i partiti dell’estrema destra occidentale sanciscono un’alleanza sempre più stretta con quegli stessi attori che possiedono i mezzi di produzione del sapere e dell’informazione: dai social media ai canali televisivi, dai grandi gruppi editoriali alle fondazioni che finanziano le università più influenti dell’Occidente, pochi miliardari hanno il controllo economico dell’infrastruttura che ci permette di creare conoscenza e di diffonderla. Come si difende il campo “progressista” da questi attacchi? Di solito, prestandovi il fianco e rendendo la propria immagine ancora più conservatrice.

Lo abbiamo visto nel caso del giornalismo, dove un’ulteriore istituzionalizzazione del mestiere di giornalista è stata finora l’unica risposta a una battaglia mediatica in cui tutti diventano legittimati a parlare e a inventare le proprie verità. Come se valorizzare ancora di più il ruolo dei gatekeepers tradizionali, dei buttafuori che operavano una selezione all’ingresso dello spazio di dibattito fino all’arrivo del digitale, possa davvero servire ad aumentarne la credibilità, invece che farli detestare ancora di più. Lo abbiamo visto nel caso del sapere universitario, in cui la risposta di fenomeni come i gender studies o gli ethnic studies alle accuse di faziosità politica è stata la ricerca di una scientificità neutralizzante e normalizzante: in sostanza il traghettamento silenzioso e graduale da espressione di un movimento rivoluzionario con una potente carica di novità a sapere costituito, integrato e in fin dei conti innocuo. Lo vediamo nei tentativi paternalisti da parte degli ultimi baluardi del Sapere, gli intellettuali, di educare le masse, quelle stesse masse di cui hanno sfruttato l’ignoranza per ritagliarsi un ruolo di guida e avanguardia ideologica nella società, senza peraltro ottenerne l’emancipazione.

In tutti questi casi, quello che manca è il coraggio di assumere fino in fondo il proprio ruolo partigiano, a partire dal postulato secondo il quale informazione è forzatamente sinonimo di rappresentazione, soggettiva e parziale, e nessun sapere, né accademico né intellettuale, può sottrarsi da una presa di posizione, prima di tutto ontologica e in secondo luogo politica. Il primo passo consiste dunque nello scendere dal piedistallo dell’oggettività e dell’imparzialità e nello sporcarsi le mani nel fango della battaglia ideologica. Consiste nell’abbattere tali preconcetti, nemici di qualsiasi reale progressismo, che si proteggono ancora dietro una pretesa di verità scientifica.

La scienza e la tecnologia hanno saputo costruire tale paradigma, raccontandoci che la realtà è una e una sola e che basta avere strumenti di calcolo abbastanza potenti da produrre quantità di cifre e statistiche in grado di spiegare qualsiasi segreto della natura, così da manipolarla e sconfiggerne le leggi più inviolabili. Viceversa, le teorie complottiste sono il sintomo di una resistenza della popolazione a questo paradigma, proprio perché qualsiasi affermazione, per quanto scientifica e apparentemente vera, è invece figlia dei rapporti di dominazione di una società data. Non a caso, nel Seicento la teoria complottista più in voga era quella copernicana secondo cui la Terra gira intorno al Sole e non il contrario, condannata e ridicolizzata dai poteri ecclesiastici dell’epoca.

Ciò non significa dare adito a qualsiasi bufala, ma accettare la relatività e la caducità di qualsiasi paradigma di pensiero, che si afferma in un determinato periodo storico sulla base degli strumenti che può mettere a disposizione e dei sacrifici che deve inevitabilmente compiere rispetto a ciò che non prende in considerazione. Il concetto stesso di definizione è delimitante: contiene il termine ‘finis’, confine, perché ritaglia una porzione manipolabile della realtà e lascia fuori qualcos’altro. Allo stesso modo un articolo di giornale, un approccio epistemologico del gender o la profetizzazione della fine del capitalismo non hanno nulla di scientifico, né di vero nel senso assoluto, né tantomeno svelano un aspetto dato e naturale della realtà: semplicemente, promuovono determinati valori, visioni del mondo e convinzioni che possono offrire soluzioni soggettive ad alcuni problemi. Proprio come, in una scienza come la fisica, accettare il fatto che il tempo sia separabile in istanti ci permette di ottenere alcune cose – prima tra tutte misurarlo – ma ci obbliga a rinunciare ad altre – la continuità e la coesistenza di una dimensione passata, presente e futura. Ripudiare il mito della neutralità significa abbandonare l’ipocrisia di chi è convinto di avere la verità in tasca, abbracciando una prospettiva molto più pragmatica e machiavelliana: convincere le persone di avere ragione è più importante che avere effettivamente ragione in assoluto.

C’è chi dice che le ideologie sono morte, ma sembra invece che oggi siano più vive che mai: sono talmente presenti che la gente è scettica verso qualsiasi forma di oggettività, e non senza buoni motivi. Una delle eredità dei totalitarismi novecenteschi è la diffidenza verso ogni forma di propaganda, intesa come condizionamento della mentalità delle persone con o senza il loro consenso. Ma tale esercizio del potere è insito nel comunicare di qualsiasi tipo e non si può sfuggirvi. Una soluzione è quella che la sociologa Sandra Harding definisce un’oggettività forte: prendere coscienza del proprio punto di vista inevitabilmente parziale e dichiararlo esplicitamente. In particolare, la sociologa femminista sostiene che i soggetti marginali e oppressi siano più consapevoli dell’inevitabile assenza di neutralità: dalla periferia è più facile accorgersi di alcune dinamiche in cui si è invece immersi quando si occupa una posizione centrale. Adottare un’oggettività forte significa sì fare ricorso a tutti gli strumenti metodologici che ci offre la ricerca, ma consapevoli dell’arbitrarietà con cui poi si darà un senso ai dati e alle statistiche raccolti.

Lasciare questo compito alle visioni del mondo subalterne, che non hanno ancora avuto modo di emergere, è imperativo per qualsiasi soggetto che si pensi rivoluzionario: l’aspirazione al cambiamento non può passare per il mantenimento degli stessi attori che hanno occupato la scena fino ad ora. Allo stesso tempo, è arrivato il momento che le figure di spicco di cui si fregia l’immaginario progressista, dai giornalisti agli intellettuali, passando per i ricercatori e i protagonisti della scena culturale – non a caso in maggioranza uomini, in maggioranza bianchi e in maggioranza di classe privilegiata – giustifichino la propria voce e la propria partecipazione non sulla base della quantità di lauree o pubblicazioni, non dell’autorevolezza della testata o della casa editrice per cui scrivono, ma della validità delle proprie idee, della capacità di convincere il prossimo e di aggregare le masse sotto una narrazione alternativa della società. Ciò significa rientrare in contatto con la realtà: riconoscere il proprio ruolo come situato e non ex nihilo, collocato in una guerra ideologica che, volenti o nolenti, è già in corso, è già condotta dalla parte opposta, e che come tutte le guerre ha molto più bisogno di soldati che di osservatori.

Il monopolio della cultura detenuto dal progressismo è attaccato da tutte le parti: dalla destra populista in quanto privilegio di un’élite intellettuale distaccata dalle masse, dalla nuova sinistra che cerca di sorgere dai margini, quella etnica e femminista, in quanto barriera d’accesso esclusiva per le identità marginalizzate. Invece di ritirarsi nei bastioni della tradizione, proteggendo l’autorevolezza di un manipolo di testate giornalistiche e case editrici, rinchiudendosi nella miopia di un sapere universitario ormai parte integrante del sistema in declino, cercando di salvare qualche principio democratico, etico o professionale nel caos delle spinte entropiche che le attaccano, queste forze devono schierarsi, non perché sia giusto di per sé ma perché il periodo storico in cui vivono glielo impone.

In riferimento al metodo, può darsi che teorie del complotto, fake news e manipolazioni mediatiche di vario genere siano da criticare in quanto moralmente sbagliate, in quanto violazioni impunite da un sistema imperfetto. Ma inserite invece in uno scenario di scontro aperto, di battaglia delle idee per l’egemonia dell’opinione pubblica, tutte queste pratiche sono ammirevolmente efficaci. In primis per la loro capacità di convogliare milioni di persone a credere nella stessa cosa: in un mondo polarizzato e diffidente, volto alla frammentazione e all’individualizzazione, sono le uniche narrazioni ancora in grado di creare attorno a sé una collettività attiva, pronta alla lotta e all’azione diretta in loro nome.

Ad esempio, non c’è nulla che faccia infuriare i difensori del dibattito democratico quanto il boicottaggio, operato da parte di gruppi coordinati di estrema destra, di pagine social considerate di sinistra, attraverso la segnalazione massiva e il conseguente ban dalla piattaforma: una scomparsa provvisoria ma estremamente dannosa in termini di visibilità. Si tratta di un’attività parcellizzata e imprevedibile: viene da chiedersi perché tali attacchi non siano riprodotti contro le pagine neonaziste o i gruppi Telegram di suprematisti bianchi. È un’evoluzione più offensiva ed efficace del blando attivismo sui social, denunciato da alcuni come slacktivism, basato sulla pigra ricondivisione di post e sulla partecipazione push-button: qui non si tratta di dare più visibilità alle proprie narrazioni, ma di attaccare quelle che si ritiene illegittime o dannose.

Inoltre, tali pratiche di lotta hanno una potenzialità data dalla loro indole anti-sistemica, dalla loro inclinazione essenzialmente ribelle, dato che nel campo della comunicazione sono l’unica stortura, l’unica falla capace di mettere in difficoltà apparati mediatici e algoritmi, ricordiamolo, appartenenti all’1% dell’1% più ricco del mondo. Sarebbe ingenuo pensare che una parte delle fake news e delle teorie complottiste non venga messa in circolazione e pilotata da frange di quella stessa élite al potere: ormai è nota l’abilità dei responsabili della propaganda russa nello sfruttare il funzionamento dei social occidentali per i propri interessi, così come risulta emblematico lo scandalo di Cambridge Analytica, società di consulenza britannica, venuto alla luce nel 2018. Tuttavia, sarebbe altrettanto ingenuo credere che i proprietari delle piattaforme online, da Google a Facebook, da X a Microsoft, possiedano gli strumenti per controllare questi fenomeni.

Dall’altro lato dell’oceano, l’alleanza è stata sancita: i mega-conglomerati denominati GAFAM, i quali detengono realmente il monopolio del sapere, della sua produzione come della sua diffusione, hanno scelto da che parte stare. Senza citare il saluto nazista del CEO più megalomane e ridicolo della contemporaneità, tutti hanno visto le foto in cui Jeff Bezos, proprietario di Amazon, e Mark Zuckerberg, proprietario di Meta, partecipavano insieme ad altri influenti ultramiliardari alla cerimonia d’inaugurazione del presidente Donald Trump.

Le fake news appaiono come la carta vincente utilizzata da queste persone per salire al potere e al contempo l’unica arma mediatica in grado di creare seri problemi ai loro apparati. Sembra sensato affermare quindi che tali fenomeni, al pari delle teorie del complotto, vadano studiati e analizzati non tanto per capire come contrastarli in quanto “menzogne” – abbiamo visto che non esiste comunicazione che non lo sia: Umberto Eco definiva la semiotica come “lo studio di tutto ciò che può essere usato per mentire” – ma per appropriarsene. Zuckerberg ha annunciato la fine del fact checking sui social di Meta, il blando meccanismo di regolamentazione che limitava l’uso del linguaggio e censurava le tematiche politicamente più sensibili. Benissimo: cosa succederebbe se Facebook fosse invaso da un’ondata di fake news riguardanti licenziamenti ingiusti di operai, ecocidi provocati da multinazionali dannose, scandali riguardanti politici di estrema destra? Si dice che le migliori bugie contengano sempre una parte di verità… Spingiamoci ancora più in là con l’immaginazione: quali sarebbero le conseguenze della diffusione di teorie del complotto secondo le quali i rettiliani o gli alieni che ci hanno invaso si nascondono dietro quel manipolo di miliardari al potere, o secondo cui l’arrivo su Marte è una bufala propagandistica al pari dell’allunaggio, o ancora secondo cui l’attacco di Hamas del 7 ottobre, proprio come l’11 settembre, è stato organizzato a tavolino dalle sue stesse vittime, come pretesto valido per fare la guerra in Medio Oriente?

Le storie sono un’arma potente. Così facilmente interpretabili che spesso non si può prevederne le conseguenze. Al contempo, è utopistico illudersi di poter riportare la situazione attuale all’ordine: internet ha reso la conoscenza e il sapere orizzontali, accessibili, aperti, ma così facendo ha creato l’entropia, un’entropia di cui finora hanno approfittato solamente le persone sbagliate. Queste persone hanno imbastito un immaginario falsamente rivoluzionario: riappropriamocene. Loro hanno capito che è imperativo portare avanti la lotta per le proprie convinzioni con ogni mezzo, proprio come lo capirono i fascisti che marciarono su Roma cent’anni fa.

È il momento di fare lo stesso, al pari dei partigiani che un secolo fa salirono sulle montagne ed entrarono in clandestinità per combatterli, accettando di andare contro la legalità e la propria morale. I tempi odierni sono tempi di crisi, di guerre e di caos: tutti elementi che lasciano poco spazio per decidere ciò che è lecito e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che non lo è. Qualcuno diceva che in guerra non ci sono regole, ma nella battaglia ideologica di cui parlava Gramsci una regola c’è: vince chi ha in tasca la storia migliore, quella che offre più possibilità di sognare un orizzonte nuovo. Per il resto, ogni mezzo è lecito per diffonderla: le cosiddette “masse” non sono stupide, la interpreteranno in ogni caso come pare a loro. Come hanno sempre fatto.