Non c’è stato bisogno di portarlo via di peso, come successe due anni fa al povero ex presidente Hu Jintao durante il Congresso del partito comunista, nessuno lo ha preso sottobraccio e accompagnato più o meno cortesemente all’uscita. Nell’America democratica, per dire grazie e arrivederci al candidato ultraottantenne Biden sono bastati alcuni sondaggi e la chiusura di qualche rubinetto nel canale dei finanziamenti per la campagna, oltre a una spruzzata di COVID arrivata alla fine come la canonica goccia caduta su questo sorprendente vaso di Pandora delle presidenziali americane 2024, le più movimentate della recente storia americana.
Un vaso che negli ultimi dieci giorni ci ha riservato un uno-due che nemmeno “mani di pietra” Roberto Duran avrebbe saputo sferrare con maggiore veemenza, a ricordarci una volta di più quanto violenza e democrazia siano intrecciate nella storia degli Stati Uniti e quanto profonda sia la crisi di entrambi i partiti principali, repubblicano e democratico.
Prima la silenziosa ma altamente spettacolare fucilata durante il comizio di Butler, con Trump che per un pelo non ci lascia come minimo l’orecchio, mostrando subito ancora sanguinante il pugno alzato a una folla plaudente; quindi il commiato di Joe Biden, dato ormai per scontato nonostante le smentite d’ufficio fino all’ultimo della Casa bianca, con tanti saluti al record che forse in cuor suo aveva già smesso di pregustare, quello di essere il primo over 80 a partecipare a una campagna presidenziale, per conto di un partito democratico in cui Nancy Pelosi si sta prendendo nuove soddisfazioni nei confronti di un sempre più debole Barak Obama, accusato di aver badato più a se stesso (e al possibile futuro politico della moglie?) che al bene del partito.
Roba da sceneggiatori in forma olimpica. Era chiaro: il film che prevedeva l’“unto del signore”, l’eroe salvato dall’intervento divino, l’ex presidente poco gradito al suo stesso GOP (proprio come il re dei conservatori Barry Goldwater negli anni Sessanta), capace di sollevare gli animi hillbilly, il nemico giurato (e sguaiato) del Deep State e dell’informazione perbenista, combattere (?) contro il politico di lungo corso ormai così barcollante fisicamente e mentalmente che nemmeno gli amici sapevano più come difendere, non poteva andare avanti. Troppo inutilmente costoso, troppo poco spettacolare, e soprattutto troppo scontato il suo finale, una specie di “David contro Golia 2. La vendetta”. Perché Golia-Trump l’ha detto a tutti nel primo discorso post-attentato: Dio è con me.
A un centinaio di giorni dalle elezioni, ecco dunque rimischiarsi tutto, con un David democratico che potrebbe ritrovare fiducia sotto le sembianze femminili di Kamala Harris (visti in tempi ristretti, pareva impossibile una soluzione diversa, senza contare il precedente negativo della convention “aperta” del 1968 che spianò la strada a Nixon) e un Golia repubblicano ritrovatosi improvvisamente di fronte un avversario diverso da quello bersagliato a più non posso fino a pochi giorni prima. “Vincere con lei sarà ancora più facile”, è stato il primo commento di Trump, ma per quanto risultino fuori luogo certi entusiasmi espressi da chi crede ancora ciecamente nello schema repubblicani=destra e democratici=sinistra, anche stavolta è difficile prenderlo sul serio.
L’elezione del 2020 era andata così, con un detentore del titolo che dopo aver fatto per quattro anni da classico elefante nella malmessa cristalleria del mondo (complicando non poco la vita a molte istituzioni internazionali), continuava a inseguire sul ring il ben poco brillante ottantenne che il giovane Obama aveva scelto nel 2012 come proprio vice a bilanciare la propria inesperienza ma che lo stesso Obama, da ex presidente, non aveva poi voluto candidare nel 2016, preferendogli sciaguratamente la divisiva Hillary Clinton. Non si era mostrato furbo come Chaplin sul ring di “Luci della città”, Biden, ma non ne aveva avuto nemmeno bisogno. Anzi, al contrario, nel film che lo ha visto vincitore nel 2020 lui era infatti lo scialbo rassicurante e l’altro il kitsch disturbante. Per dirla architettonicamente, il match era tra il “less is more” (il meno è il più) di miesiana memoria e il “less is bore” (il meno è noioso), diventato con Robert Venturi il claim del postmodernismo americano. Trump si era affannato, aveva sferrato pugni qui e là, ma alla fine di una delle campagne presidenziali più modeste (e più volgari, anche) della storia americana si era dovuto accasciare sotto i colpi di un’affluenza record (66,6%, 75% in probabili Stati-chiave come Michigan e Wisconsin) e un voto postale rivelatosi decisivo, complice anche quel COVID sbeffeggiato oltre misura.
Il copione che ci riserva il Trump versus Harris per i prossimi tre mesi ha tutta l’aria di essere molto diverso da quello andato in scena nel 2020, anzi l’opposto. Un americano “tedesco” di New York, ex presidente condannato in sede civile per molestie sessuali che in quanto a volgarità, omofobia e sessismo non vuol essere secondo a nessuno di qua, e una rivale donna, afro-americana di discendenza indo-giamaicana, nata in California, ex procuratrice tipo “law and order” a San Francisco, sposata per giunta con un ebreo. Senza contare il turn point anagrafico: per quanto presente, ora il “vecchio” è il quasi ottantenne Trump. Se non fosse per l’apparato della power élite che assicura continuità tra un’amministrazione e l’altra e una redistribuzione della ricchezza che va al contrario, si potrebbe parlare quasi di due Americhe a confronto. Sorprese magari no, ma di scintille il nuovo copione ne assicura eccome. Del resto, siamo o non siamo nel Paese di P.T.Barnum? A coniare il minimalista “less is more” non poteva certo essere stato un europeo…
Il “meno”, negli Stati Uniti, è sinonimo di noioso, a bassa intensità di appeal, per dire così, eppure ora il palazzinaro-costruttore d’alto bordo Donald Trump farebbe molto bene a studiarsi cosa voleva dire Mies van der Rohe, l’architetto di Aachen morto nel 1969 a Chicago. Perché in questo nuovo film che si va a girare, le parti si sono letteralmente invertite e la nuova sfidante è per molti versi un mistero – non come quello dell’uscita di scena di Angela Merkel, ma pur sempre un mistero. Soprattutto per Trump.
Salutata quattro anni fa come la speranza di tutto il mondo femminil-progressista, Harris è rimasta infatti avvolta nel cono d’ombra della vicepresidenza (la carica che l’John Adams vice di Jefferson considerava “la più insignificante”), senza che nessuno ne abbia saputo spiegare in maniera convincente (a meno di non credere alla storia del dossier migranti) le ragioni. Sicché ora è lui, forte del vantaggio fin qui fin troppo facilmente accumulato, a dover interpretare il ruolo dello “scialbo”, del “moderato” e lei a dover attaccare, magari puntando tutto sui buoni risultati dell’economia (nonostante un po’ d’inflazione) e sui diritti civili, l’aborto in particolare, messo clamorosamente in crisi con la sentenza della Corte suprema che ha abolito il diritto federale. Se poi riuscisse ad andare oltre il blando lamento fin qui esibito da Biden nei confronti di Netanyahu (nessun taglio sulle armi, solo qualche munizione in meno) potrebbe forse convincere oltre alle donne anche molti giovani elettori delusi a tornare alle urne. Difficile, dati i rapporti storici di vicinanza tra Stati-Uniti e Israele (ma intanto salta il discorso del primo ministro israeliano davanti al Senato in seduta congiunta…).
A tre mesi dal voto, abbiamo così una vicepresidente sessantenne finora rimasta nell’ombra (e già bollata come ordinaria via X da Elon Musk, insieme a Peter Thiel il più vicino al partito repubblicano tra i gigacapitalisti della Silicon valley anche prima dell’arruolamento come vice di J.D. Vance da parte di Trump), obbligata nelle prossime settimane a farsi conoscere per la sua tattica offensiva. I primi colpi li ha già sferrati: uno esplicito, da ex procuratrice, a Trump (“Ho già avuto a che fare con truffatori e predatori sessuali”), l’altro, più velenoso, sembrerebbe proprio a Obama: “Ha fatto più Biden in tre anni di mandato che molti altri anni in otto”.
L’ex presidente che già assaporava la vittoria si ritrova ora costretto a fare i conti con un avversario ancora da mettere completamente a fuoco ma ringiovanito di oltre vent’anni…Non sappiamo quanto Trump saprà essere prudente, non sappiamo quanto e dove Harris continuerà a picchiare, non sappiamo insomma se sarà un incontro al fulmicotone come quello Muhammad Alì-Frazier del 1975 o alla camomilla come quello tra Sugar Ray Leonard-Marvin Hagler del 1987.
Il futuro, come ripeteva sempre il Segretario di Stato di Truman Dean Acheson, arriva sempre un giorno alla volta, ma tutto lascia supporre che a rivelarsi determinante sarà ancora l’affluenza, quel 10% in più che quattro anni fa consentì a Joe Biden di essere il primo presidente della storia ad aver festeggiato i suoi ottant’anni alla Casa Bianca.
Trump ha già cominciato ad offendere la sua nuova avversaria (per la sua risata particolare), ma chissà se deciderà se proseguire nell’abituale raffica di insulti. Commetterebbe un errore madornale a lasciarsi trasportare da un istinto che finora non si è mai preoccupato troppo di non apparire da gentleman. A noi non serve una Lady Gaga, disse nel 2020, spavaldamente, Donald Trump. Ora però chissà cosa non farebbe per avere dalla sua Taylor Swift. O almeno per impedire che la cantautrice del momento si schieri contro di lui a sostegno di Kamala Harris. Potrebbe rivelarsi un’arma letale…