Muoversi per il mondo provoca il cialtronismo? Anche il non viaggiare lo causa. Danni cialtroni possono essere compiuti anche stando a casa, viaggiando con la mente lungo i percorsi obbligati costruiti su iperconvinzioni culturali. Una volta lo ha fatto anche Franco Battiato.
Franco Battiato non è un potente-calamita. Spesso, anzi quasi sempre, è stato un anti-cialtrone che ha composto brani-collage lunghi e affascinanti come “Goûtez et comparez”, costruiti accostando elementi diversi. C’era la sigla della radio rumena e la lettura delle quotazioni dei pomodori, c’erano le note dell’organo della cattedrale di Monreale e i sussurri di imprecisati fornicatori. Nell’orecchio destro di Battiato entravano le idee-cuneo di ascolti che, nuotando nel liquor cerebralis secreto da una vite delle iper-convinzioni ben temperata, uscivano dall’orecchio sinistro sotto forma di suoni-concetto. Questi suoni-concetto erano presi e riportati così com’erano, uno dopo l’altro, e il risultato, che puntava al richiamo di atmosfere e di luoghi, era davvero favoloso, come sempre quando si lavora sugli elementi senza spiegarne i meccanismi di acquisizione.
Come non lo è mai quando, per esubero d’intellettualismo, l’elemento che crea l’atmosfera non è riportato direttamente ma viene smontato, scardinato, addirittura commentato. Allora l’atmosfera muore, il lavoro diventa inutile, il prodotto diventa cialtronico. Inoltre la situazione peggiora quando un ambiente viene descritto con limitata cognizione di causa. La citazione di un elemento estraneo al mondo di un autore, la sua non-specializzazione, fanno in modo che, quando lo si vuole descrivere, si scelgano i concetti-base più deleteri. Franco Battiato è al tempo stesso cialtrone e non-cialtrone e forse è in questo la sua grandezza.
Battiato non-cialtrone:
– Quello che ci parla di deserto, di sufi e che si reca tra i beduini “per fermare la latinizzazione della lingua araba”.
– Quello che ha scritto il più bel verso mai composto sul modo in cui la cacofonia della guerra voluta da pochi irrompa indesiderata nella pace quotidiana di tanti: “Strano come i rombo degli aerei da caccia un tempo / stonasse con il ritmo delle piante al sole sui balconi”.
– Quello che si fa scrivere i testi da Manlio Sgalambro.
Battiato cialtrone:
– Quello che compone opere seguendo troppo da vicino il modello di Philip Glass.
– Quello che ha scritto “Alexanderplatz” (auf Wiederseeeehn…) con il suo carico di soffitte berlinesi, freddi berlinesi, teatri berlinesi, prostitute berlinesi che si chiamano invariabilmente Marlene (ma sui marciapiedi locali è garantita la presenza di molte Ulla) e che costituisce una sorta di Salone Internazionale dell’Intellettuale Malaticcio e Perseguitato a Berlino Est. (Quando C’Era Berlino Est).
– Quello che ha composto “Prospettiva Nevskij”. Ma qui è di rigore un approfondimento.
Durante la stesura di questo pezzo, Franco Battiato si è lasciato sottomettere al magnetismo di certe idee-forti che raccontano della Russia favolosa d’inizio secolo. Allora, sotto l’effetto di una vite delle iperconvinzioni starata per l’entusiasmo, Battiato è diventato come quei registi americani che facevano vestire tutti i tassisti parigini dei loro film con basco e maglietta a strisce orizzontali e tutti i gondolieri veneziani con paglietta e maglietta a strisce orizzontali.
Il titolo già dovrebbe metterci in allarme: “Prospettiva Nevskij”. La prima parte del nome, “prospettiva”, è solo la traduzione facilona, però diffusa, del vocabolo russo che significa “corso”. Quasi una traslitterazione, ma che Battiato trova necessaria. Se avesse intitolato “Corso Nevskij” un brano che vuole russeggiare, avrebbe ottenuto un risultato un po’ riduttivo, addomesticante, provincializzante. Avrebbe riprodotto il gusto dello struscio domenicale e non quello di un viaggio esotico tra storia e cultura. Superato il titolo, tuffiamoci nel primo verso che recita “Un vento a 30° sotto zero”. La Prospettiva Nevskij è a San Pietroburgo. Dicono gli atlanti che questa nobile città, benché si trovi più a nord di Mosca, presenta un clima meno rigido di quello della capitale e anche il freddo più canino di gennaio conosce medie di soli -7° C.
Naturalmente, la drammaticità della composizione non avrebbe permesso una strofa così composta: “Un vento a sette gradi sotto zero…”. Provate a cantarla. Sentirete che non c’è pathos e basta una sciarpetta per distruggere sul nascere lo stereotipo del freddo siberiano cui Battiato intende riferirsi, impegnandosi anch’egli a tracciare, con la massima precisione e un pezzetto di lingua che spunta dall’angolo della bocca, il disegno di un cosacco riportato sul suo album “Roselline”. Un cosacco facilitato nei contorni, di quelli da avanspettacolo che ballavano le danze tipiche non accovacciati ma “seduti su uno sgabello” (citazione da “Paperino e la casacca cosacca”). Lo stesso copiato dagli autori dei versi cantati da Adriano Celentano parecchi lustri or sono: “Mi sembri la figlia / di un capo cosacco / con quegli stivali / e quel nero colbacco”.
Definiamola una licenza poetica: poiché un vento a soli sette gradi sotto zero non avrebbe reso possibile la scrittura di un verso successivo, quello in cui il vento “a tratti, come raffiche di mitra, disintegrava i cumuli di neve”. A trenta gradi sotto zero i cumuli di neve sono ormai piccoli ghiacciai compatti che nessun vento può disintegrare; ma non è solo questo che colpisce. È che il cosacco di “Roselline” ha in testa un colbacco di pelo e allora in Russia deve necessariamente fare freddo.
Dicono ancora gli atlanti che d’estate Mosca tocca medie di 17° C, San Pietroburgo di 16° C. Sul Mar Nero, dove andavano in vacanza i membri dell’Apparat, a luglio si toccano addirittura i 25° C. Nessun cialtrone riesce però a cantare la Russia come fosse Portofino. Purtroppo il cialtrone non ama le contaminazioni intelligenti fatte con spirito (torniamo a Elio e le Storie Tese), così non comporrà mai un motivetto balneare d’ispirazione russa (I’ve found my love in Sevastopol’) e pretende invece l’ordine e la disciplina delle tabelle: trovate il motivo romantico nella casella all’incrocio tra la colonna Estate e la riga località marina.
Ancora una volta l’ordine come risultato del teratomorfismo mentale. Lo stesso procedimento tabellare è seguito da Franco Battiato, il quale non vuole rinunciare a un po’ di imprecisione geografica. Dove siamo? Improvvisamente “le piazze vuote e i campanili” che credevamo parti urbanistiche di San Pietroburgo diventano in una strofa successiva scenari siberiani non meglio precisati e vediamo “intorno i fuochi delle Guardie Rosse accesi per scacciare i lupi e vecchie coi rosari”. Tipico della scrittura cialtronica è questo iperspaziare in tutti i sacrari della banalità geo-folcloristica. Le Guardie Rosse dunque non possono mancare e nemmeno i lupi, che vivono un po’ dappertutto in Europa centrale, in America, in Asia, ma che diventano quasi un’esclusiva di questo delizioso quadretto da Beriozka perché così vuole la saggezza dei popoli: quando ci sono trenta gradi sotto zero non si può certo dire che faccia bel tempo e quando il tempo è brutto si dice che c’è fuori un tempo da lupi ed ecco che a trenta gradi sotto zero appaiono i lupi.
Su tutta questa meraviglia vegliano le vecchie con i rosari. Sono sempre le solite vecchie, avranno almeno 235 anni. Sono sopravvissute alle temperature polari, ai lupi, alla Rivoluzione d’ottobre e sono ancora lì coi rosari in mano, gli sciali sulla testa, i rubli in tasca, le icone alle pareti, i ritratti dello zar, i samovar e tutta quell’altra paccottiglia eurorientale che alcuni polacchi vendono un po’ ovunque in provincia di Milano, in mercatini improvvisati.
Intanto, cacciati i lupi e sistemate le vecchie, cosa resta da fare a Battiato? Poco. Se ne sta con altri “seduti sui gradini di una chiesa” ad aspettare che escano le donne. Tutto il mondo è paese: credevamo di essere in Russia e invece siamo nella piazza principale di Ramacca (CT, 9324 ab., 270 m slm). Evidentemente la canzone è stata scritta da Franco Battiato in uno di quei pomeriggi di calura e mollezze sicule che non sto a descrivere perché, non avendoli vissuti, rischierei di fare le sue stesse figuracce, ma per i quali rimando ad alcune scene di film-commedia ambientati nell’isola. Però una cosa è il clima siculo, altra cosa la rigidità sovietica descritta dallo stesso Battiato all’inizio della canzone. Sui gradini della chiesa, a trenta gradi sotto zero, ci saranno dei ghiaccioli… Questo è però solo un attimo di smarrimento geografico, subito ci si riprende al verso successivo, quando “guardavamo con le facce assenti la grazia innaturale di Nijinski”.
Riassumo la scena epocale: vento a trenta gradi sotto zero che disintegra i cumuli di neve. Nonostante ciò, le Guardie Rosse cercano di accendere i fuochi. Chi fuma sa quanto sia difficile tenere acceso anche un Bic in una giornata di brezza ma le Guardie Rosse accovacciate continuano a sfregare i legnetti e intanto tengono lontani i lupi, scalciando, che a vederli pare stiano ballando proprio come fanno i cosacchi. Intorno ci sono le vecchie con i rosari, mentre un’orda di donne esce dalla chiesa spettegolando in russo medievale stretto. In mezzo a questa situazione da incubo, sotto gli occhi di alcuni impassibili picciotti della steppa ormai congelati, c’è Nijinskij, naturalmente in calzamaglia, che non bada al gelo, ai lupi, alle vecchie e balla con grazia innaturale.
“E poi di lui s’innamorò perdutamente il suo impresario e dei balletti russi”. Al di là dell’incomprensibilità sintattica di questa frase, è scioccante il modo in cui, con una trasposizione spazio-temporale che ha del miracoloso, Battiato interrompe la descrizione meteorologico-religiosa per farci una lezioncina culturale che se da una parte affonda nel più becero nozionismo liceale, dall’altra sprofonda nel pettegolezzo più indegno, poiché le donne uscendo dalla chiesa stanno proprio servando sulla tresca tra il losco Diaghilev e il povero Nijinskij, sottile, pallido e un po’ perso.
Proseguiamo in questa estenuante analisi. “L’inverno con la mia generazione, le donne curve sui telai vicino alle finestre”. Al di là dell’anacoluto, nasce prepotente a questo punto l’interesse per l’uso della prima persona cialtronica plurale su cui si basa l’intera canzone (aspettavamo, guardavamo, studiavamo, di nuovo aspettavamo). I pronomi personali cialtronici identificano persone fittizie, in questo caso una mia generazione non meglio precisata, una collettività indefinita, forse un gruppo di artisti o magari solo una compagnia di ex alpini, che comunque è necessaria a segnare i confini in cui muoversi. Questa prima persona cialtronica plurale fa il paio con la terza persona cialtronica plurale, anch’essa non delineata apertamente, che tornava quotidianamente nei titoli di prima pagina de “Il Giornale” ai tempi dell’indimenticata direzione di Vittorio Feltri: “Vogliono portarci via la tredicesima”, “Non sanno fare nemmeno le lotterie”, “Stanno per rubarci anche le mutande”. Nel caso di Feltri la persona vaga era chiaramente un nemico, nel caso di Battiato la persona vaga diventa uno scudo, un rifugio, uno stile di vita.
Segue ora il verso clou di tutto il brano, quello per il quale non vale nemmeno più la pena proseguire: “Un giorno sulla Prospettiva Nevskij, per caso vi incontrai Igor Stravinskij”. Battiato non incontra Sergheij Passievic o Svetlana Staronovna e nemmeno Vladimir Nicolaievic, insomma una persona qualunque. No, incontra Igor Stravinskij perché così si conclude la raccolta di figurine “Grandi Personaggi della Russia di inizio Secolo”.
A questo punto tutto crolla miseramente; la Russia, i balletti e le chiese cadono al suolo e quello che ci girava nelle orecchie fin dall’inizio della canzone ora esplode in tutta la sua pienezza e al centro delle rovine resta in piedi solo una tavolata di maggiaioli già ubriachi. “Prospettiva Nevskij” non è un pezzo di musica colta con un testo di ispirazione culturale. Questo è solo uno stornello popolaresco nascosto sotto uno strato di guano culturale. L’assonanza Nevskij/Stravinskij più che di vodka sa di chianti in quanto è strettissima parente di altre assonanze tipo “Fior di verbena / il mal dentro al core non si sana / più aspetto e più cresce la mia penaaa…”.
Ci si provi a cantare il testo di “Prospettiva Nevskij” su accompagnamento delle stornellate e ci si accorgerà di come le parole si incastrino perfettamente in quel ritmo.
(da “Chaltron Hescon. Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo”, Einaudi, 1998).