A tenere unito il popolo europeo è la combinazione delle due ideologie di colpa e crisi: un passato cupo da redimere, un futuro terribile da scongiurare. Due retaggi biblici ed escatologici che gli europei faticano a scrollarsi di dosso, il loro nervo scoperto ideologico su cui fa leva la classe dirigente per scuotere l'animo di un popolo sempre meno interessato dalle sorti del mondo e dal proprio ruolo futuro al suo interno.

Nonostante la storia paia aver ripreso il proprio corso, il futuro non sembra riservare all’Europa un ruolo di potenza sullo scacchiere mondiale. Il popolo europeo vive un presente di sospensione rassegnata. Chiamato in causa direttamente dalle contingenze storiche, se non altro per il ruolo di guida economica che ancora esercita nel mondo, esso sembra invece storicamente paralizzato da un eccesso di autocoscienza.

Infatti, ciò che distingue l’europeo di oggi, rispetto agli altri popoli della terra legittimati in misura simile a pretendere un ruolo attivo nella storia, è la dedizione con la quale s’impegna, sia nel privato che nelle sue istituzioni pubbliche, a una critica morale di sé e del resto del mondo. Al ruolo di guida che potrebbe esercitare, l’Europa ha preferito quello, autoproclamato, di giudice. In quanto tale però, per una logica separazione dei poteri, esso sembra aver rinunciato alla propria facoltà esecutiva, alla propria potenza. Un popolo o un’entità statale che invochi giustizia al cospetto dei suoi pari dimostra per ciò stesso di non possedere una forza sufficiente ad attuarla. Ciò che però caratterizza l’Europa contemporanea non è tanto la mancanza della disponibilità economica e militare che le permetterebbe di risultare rilevante e incisiva per le sorti del pianeta, e dirigerlo verso i fini che più si addicono alle sue aspirazioni. Ciò di cui risulta priva è piuttosto la volontà di dispiegare la propria forza. Di fronte alla minaccia di dover ridimensionare il proprio stile di vita, gli europei preferiscono, in plebiscitaria maggioranza, le politiche di compromesso che garantiscono loro la conservazione dello status quo e si accontentano di pretendere per sé stessi un ruolo esterno alla storia, di giudice e garante morale.

Sembra infatti che il popolo europeo sia giunto a quel grado di civiltà che lo espone al pericolo della decadenza politica. Gustave Le Bon, nella sua disamina della psicologia dei popoli, aveva notato che «arrivato a quel grado di civiltà e di potenza in cui, credendosi sicuro di non esser più aggredito dai vicini, un popolo comincia a godere i benefici della pace e del lusso che le ricchezze procurano, le virtù militari svaniscono, l’eccesso di civiltà crea nuovi bisogni, si sviluppa l’egoismo. Non avendo altro ideale che il godimento precoce di beni rapidamente acquistati, i cittadini abbandonano la gestione degli affari pubblici allo Stato e perdono presto tutte le qualità che avevano costituito la loro grandezza. Allora vicini barbari o semi barbari, con bisogni minimi ma con un ideale potentissimo, invadono il popolo troppo civile, poi formano una nuova civiltà con gli avanzi di quella che hanno abbattuta»[1]. Nel complesso sistema di deterrenza economica e militare su cui si fonda la pax americana, la prospettiva di un’invasione esterna del continente europeo (o meglio dei paesi dell’Unione) sembra piuttosto remota, tuttavia le considerazioni di Le Bon permettono di fare luce su un processo che sembra aver condizionato la mentalità europea contemporanea.

A differenza degli americani, su cui ricadono quasi totalmente gli oneri e gli onori del corrente assetto politico del mondo, il popolo europeo pare potersi permettere un maggiore distacco rispetto alla storia. Esso ha infatti approfittato della relativa tranquillità che gli garantiva la sfera d’influenza straniera a cui è stato soggetto nel passato recente, per riconvertire le proprie risorse, mettendole al servizio di un’attività che non si concilia affatto con lo status di potenza: la critica e la produzione di idee.

La riflessione critica ha in realtà accompagnato lo sviluppo dell’Occidente fin dai suoi albori, influenzandone il pensiero. Socrate fu il primo pensatore ad applicare il metodo razionale all’indagine filosofica, convinto com’era che nel dialogo, qualora le parti coinvolte si assicurassero di rispettare il principio di non contraddizione, sarebbe sorta maieuticamente la verità. Il pensiero socratico era perciò ancora contenuto in una cornice pagana di fiducia nella natura e nelle facoltà dell’uomo, sebbene ponesse per la prima volta i presupposti metafisici di valori ideali – come il Bene, la Verità – che potessero trascendere la sfera naturale della vita[2]. È attraverso il cristianesimo però che il pensiero occidentale ed europeo comincia ad assumere le sue caratteristiche specifiche. La rivelazione cristiana, se da un lato promuoveva l’indagine teologica ed ultraterrena, con la riflessione intorno ai dogmi biblici, dall’altro garantiva la legittimità dello studio della natura e dello sviluppo delle scienze. Essendo infatti il creato opera del Signore, lo studio di esso equivaleva a un ampliamento della conoscenza di Dio da parte del credente che a vi si dedicava, a maggior ragione se finalizzato a confermare i precetti della religione rivelata. Come notava Hans Blumenberg[3], la garanzia teologica che offriva l’idea di Dio permise alle scienze umane di svilupparsi a tal punto da arrivare in realtà a contraddire alcuni dei presupposti biblici su cui si fondava il cristianesimo, come nei celebri casi di Galileo Galilei o di Giordano Bruno[4]. Dal lato invece della speculazione pura, come sottolinea Nietzsche nel frammento di Lenzerheide[5], l’idea cristiana di Dio legittimava alcuni concetti metafisici, i quali, se sviluppati fino in fondo, sarebbero arrivati a toglierle legittimità, primo fra tutti la veridicità – perseguendo la quale l’uomo europeo sarebbe entrato in conflitto con il sistema ideologico posto dal cristianesimo.

Per capire in che modo è orientata la riflessione critica dell’europeo contemporaneo bisognerà soffermarsi ancora un po’ su questo passaggio attraverso il cristianesimo, perché alcuni dogmi teologici sono sopravvissuti all’interno della coscienza europea, seppure laicizzati e secolarizzati, e ne condizionano aspettative, timori e senso di colpa. Ci riferiamo in particolar modo al peccato originale e all’idea del giudizio futuro, dell’apocalisse, su cui si fonda l’odierno pregiudizio europeo nei riguardi della storia e del ruolo che essa, l’Europa, vuole svolgere al suo interno.   

La storia biblica ha un inizio – la caduta – e un compimento – l’apocalisse, il giudizio, con relativa apoteosi dei giusti e condanna degli empi. È solo a partire da una tale concezione lineare della storia, come susseguirsi di eventi irripetibili, che possono acquistare senso le idee di peccato e di redenzione, fondamentali per l’escatologia cristiana, e che in forma mutata sono sopravvissute nella coscienza europea, condizionandone l’attitudine critica. Ha perciò un’origine teologica l’idea che una colpa passata possa determinare il presente e che un giudizio futuro potrà riscattarlo. L’esito positivo della storia, però, nella concezione cristiana non avviene progressivamente, ma attraverso un’apocalisse. La concezione lineare della storia, nella sua declinazione occidentale, è perciò intimamente escatologica e teleologica, orientata verso un fine, il quale si dispiegherà non in una serena e distaccata retrospettiva di ciò che è stato, ma in un momento topico ed esplosivo, in cui le contraddizioni accumulate nel faticoso percorso dell’uomo lungo l’asse della storia raggiungeranno un’acme e si dispiegheranno senza riserve.

La sostanziale differenza tra l’uomo prescristiano e quello biblico è quindi che se il primo, confortato da un rapporto più diretto con la natura e una concezione ciclica del tempo, accetta il fato, rassegnato o sereno che sia, il secondo, incentivato da una concezione lineare, è perennemente sollecitato a scandagliare il proprio passato e redimerlo in vista dell’avvenire. L’uomo biblico vive proiettato nel futuro e oppresso dalla colpa del passato, l’uomo pagano gode invece sereno del presente. Questo sentimento storico sembra in qualche misura essere sopravvissuto anche nell’europeo di oggi. Il passaggio attraverso l’umanesimo prima e l’illuminismo poi, ha inferto dei colpi mortali al sistema ideologico su cui si fondava il cristianesimo, senza però riuscire a liberare la mentalità europea dai pregiudizi che ad esso si accompagnavano. L’uomo, nel suo percorso di emancipazione da Dio, ha continuato ad abitare un mondo orientato verso un fine, e proveniente da un passato di colpe da emendare. Le idee moderne di colpa e crisi, prodotte dalla critica europea, mostrano perciò un’evidente radice biblica ed escatologica – il peccato originale, il giudizio della fine dei tempi – e il fervore ideologico che le sosteneva sembra essere sopravvissuto anche al venir meno dell’idea di Dio quale garante del senso ultimo della storia umana.

L’ultimo tassello che manca per completare il quadro della mentalità europea moderna è il disastro della tecnica novecentesca. Nel secolo scorso l’Europa ha portato alle sue estreme conseguenze il principio sul quale ha deciso di fondare la propria essenza storica, venuta meno la garanzia dell’esistenza di Dio: la ragione. Quest’ultima infatti non ha soltanto una funzione passiva e critica, nella produzione riflessiva di idee, ne ha anche una attiva e propulsiva, che porta al dominio razionale del mondo attraverso la tecnica. Il popolo europeo è stato insieme attore e testimone, nel corso del ’900 del totale dissesto sociale, ambientale, politico e militare al quale può portare l’uso della tecnica slegata da qualsiasi finalità ultraterrena o metafisica. Ciò ne ha mortificato le aspirazioni, portandolo ad accentuare la propria tendenza autocritica da un lato, e la proiezione apocalittica dall’altro. Al giorno d’oggi perciò il popolo europeo si sente situato nel punto di convergenza tra un passato percepito come scomodo e immorale, e un futuro che si prospetta impietoso nel suo giudizio. Inerte dinanzi al divenire storico, esso immagina la propria condizione naturale come uno status quo di stabilità economica e sociale, al cui interno potrebbero fiorire benessere e sviluppo, garantendo così la possibilità di emendare le colpe del passato e tutelare il futuro dal collasso. La situazione reale però è ben diversa. L’Europa di oggi è perciò temporalmente in bilico e priva di un rifugio in una direzione o nell’altra della storia, nel passato o nel futuro; la sua tensione storica, di conseguenza, non può che risolversi in un angosciato consumo del presente.

Data questa complicata mentalità del popolo europeo, quest’attitudine post-storica aggravata da un fervore teologico che condanna all’autocritica e a un atteggiamento conservativo rispetto al futuro, è interessante osservare la strategia adottata dalla classe politica dell’UE.  All’interno di questa ultima convivono in competizione due correnti, l’una mondialista, egemone e umanitaria, l’altra nazionalista, sovrana ed élitista. Entrambe potrebbero e vorrebbero possedere un qualche tipo di prospettiva storica, ma devono fare i conti con la distorsione prospettica che abbiamo analizzato e che sembra disilluderne l’elettorato. Per mobilitare e tenere unito il pluriversum di nazionalità che governano, i dirigenti europei non cercano di liberare i cittadini dell’Unione dai pregiudizi che ne condizionano la mentalità, al contrario ricorrono precisamente all’esacerbazione dell’ultimo residuo ideologico e irrazionale che domina il pensiero europeo. Da un lato essi fanno perciò appello direttamente a quel senso di colpa che immobilizza l’europeo nell’autocritica, rileggendone il passato e mettendone ancora più in luce i delitti e i soprusi, nel tentativo di risvegliarne una responsabilità storica, e mobilitarlo alla ricerca di un’espiazione; dall’altro lato invece quel timore apocalittico che paralizza le prospettive storiche degli europei, invece di essere dimesso razionalmente, è al contrario accentuato e usato come leva psicologica, tramite una narrazione che racconta di una crisi sempre diversa e sempre alle porte, che potrà essere differita solo tramite l’azione e il sacrificio.  

Entrambe le correnti che dominano politicamente l’Europa, infatti, paiono in realtà incapaci di galvanizzare l’elettorato solo sulla base di una dichiarata identità sovranazionale. La visione politica di ambo le parti, escluse alcune posizioni da campagna elettorale tanto identitarie quanto ininfluenti, si risolve sostanzialmente nella promessa di una gestione economica migliore del patrimonio europeo rispetto alla controparte. Una tale assenza di prospettiva soffoca e disincentiva un’attiva partecipazione politica di massa, e impedisce al popolo europeo di agire e mettersi in gioco con decisione nel contesto internazionale. La classe politica europea si vede perciò costretta, per evitare di essere espropriata dalla storia, a scuotere gli animi degli elettori e renderli disponibili ai sacrifici che richiede al suo popolo il ruolo di potenza, farcendo di timori millenaristi le ideologie che lo dominano, e predicando con fervore clericale sulle colpe del suo passato. Da un lato la fine dei privilegi, la fine delle libertà, l’avvento delle dittature straniere, l’invasione extracomunitaria, il collasso sociale, sanitario, culturale, ecologico; dall’altro le violenze del colonialismo, della schiavitù razzista, del patriarcato, dell’omofobia, dell’antisemitismo.      

In noi europei è dunque sopravvissuto un sentimento escatologico, persino oltre i presupposti teologici su cui si fondava. Esso perciò non riesce più a sostenere un’idea di progettualità nel futuro. L’unico sentimento che riesce ad accomunare il popolo europeo, assediato dagli spettri del passato e angosciato dalle crisi del futuro, è la speranza che il presente decada il più lentamente possibile, è il mantenimento dello status quo fine a sé stesso. Le crisi che la governance europea paventa al suo elettorato, avendolo scoperto ad esse suscettibile, servono a svegliare il popolo europeo, tramite l’allarmismo e le prediche morali, e trascinarlo fuori da un presente di pura sopravvivenza nel quale sembra essersi arenato, nel momento stesso in cui la marea della storia ricomincia ad agitarsi.


[1] Gustave Le Bon, L’inconscio del mondo, Roma, GOG, 2023.

[2] Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia Antica, Donzelli, Roma 1996

[3] Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. di Cesare Marelli, Genova: Marietti, 1992.

[4] Michele Ciliberto, Il Rinascimento. Storia di un dibattito, Firenze, La Nuova Italia, 1975.

[5] Friedrich Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Milano, Adelphi, 2006