Articolo estratto dall'ultimo numero della Rivista "Il Bestiario".

I vecchi, mia nonna, tuo nonno, la signora al piano di sotto, sono inutili. Lo sono diventati col tempo, ogni giorno lo diventano di più. Più si afflosciano le loro braccia, più si deprimono i lineamenti del loro volto, più perdono d’importanza all’interno della società. E con essi perdono importanza anche i loro valori. Non si tratta qui della solita intuizione blasonata, dell’adagio fatto proprio dai sociologi virtuali che recita che in una cultura come la nostra, basata sull’apparenza, sulla produttività, sull’obsolescenza programmata, sulla superficialità e sul ricambio – in breve calibrata per venire incontro alle funzionalità dell’ultimo iPhone – i vecchi, con la loro lentezza, la loro bruttezza, la loro motilità ridotta, la precarietà della loro salute, non servono a nulla, e vengono buttati giù dalla rupe sociale.

Questa critica, per quanto accurata, si ferma all’evidenza, più o meno dove si ferma il film The Substance, recente successo internazionale al botteghino, che non va oltre questo dato implicito e lo interpreta insofferentemente – sfogandosi con violenza sulla parte vecchia di noi stessi, che tutti odiamo, soprattutto le donne e i pelati, e che vorremmo vedere morta – in uno splatter di due ore e mezza tra calci in faccia e body horror.

C’è dell’altro però. C’è qualcosa di più hegeliano nell’inutilità dei vecchi di oggi, e nell’irrilevanza dei loro valori. Un tempo, siamo tutti d’accordo, non era così. Nessuno di noi può dirlo con certezza, perché nessuno di noi c’era, ma pare che quelle reliquie senescenti che oggi dilapidano le casse dell’INPS e riempiono i profili TikTok dei loro nipoti, in una società neanche così lontana

dalla nostra nel tempo, ricoprissero un ruolo sociale fondamentale. Anche qui siamo nell’ovvio. Quando la sopravvivenza della specie dipendeva dalla volubilità delle stagioni, tenevamo in enorme considerazione l’esperienza diretta, sul campo, il know how, il bricolage, le capacità predittive, la ragionevolezza, tutte qualità che maturano con gli anni, tra errori e cicatrici, e che migliorano con l’età. Questa condizione sociale favoriva l’impostazione gerontocratica della società. Se non erano i vecchi a comandare direttamente, erano quantomeno i vecchi a consigliare, a orientare l’andamento della società, a imporre i propri valori. Primo fra tutti il rispetto degli anziani, guarda caso. E dunque rispetto dell’autorità prestabilita, predilezione per la stabilità, gli antiqui mori, i costumi dei padri. I giovani sembravano ridicoli, sbarbatelli privi di grazia, belle cosce da possedere, nulla più. Nessuno voleva essere giovane, perché la vecchiaia era un segno di distinzione, era la condizione più ambita, peraltro difficile da raggiungere per via degli alti tassi di mortalità infantile.

Oggi al contrario sono i giovani a comandare. Almeno in termini di valori. Non ci si faccia illudere dalle apparenze, anche i capi di governo vecchi (seppure ne restino sempre di meno) hanno alle spalle un esercito di giovani consigliori con gli smartphone sempre sguainati. Si osservino le recenti elezioni americane: i due dinosauri che stavano per competersi la Casa Bianca, non fosse per la diserzione di Biden, lottavano per il favore dei giovani, dei veri dittatori assiologici della società: Trump è l’incarnazione di un meme reazionario, mentre Biden, incapace di nascondere la propria senilità, è stato per l’appunto sostituito con una donna più giovane e più recettiva dei trend di IG.

Se i vecchi governano oggi, lo fanno adattandosi alle esigenze valoriali dei giovani, al loro modo di comunicare, alle loro insicurezze. Nessuno vuole mostrarsi appetibile per l’elettorato dei vecchi se non i partiti fragili ed effimeri, legati al filo del primo giro di influenza stagionale. Chi vuole comandare oggi cerca di farlo con i meme e con i reel, ovvero il prodotto con cui i vecchi sono convinti che comunichino i giovani. Non è un caso che l’ultima cosa memorabile che abbia fatto Berlusconi sia stata, poco prima di spirare, aprirsi un profilo TikTok.

Ma cos’è cambiato? Com’è avvenuto questo slittamento? Com’è che oggi essere giovani è un valore in sé ed essere vecchi è un motivo di vergogna? Che i vecchi si sforzano per sembrare al passo coi tempi, che i giovani si divertono a ridicolizzare la vecchiaia dei vecchi, l’arretratezza delle loro opinioni? Potrebbe essere un inevitabile corollario del progresso, ma potrebbe anche darsi che ciò che determina se un insieme valoriale domina o meno, non sia l’adeguatezza dei valori stessi, il loro tenore morale, la loro superiorità, ma la proprietà dei mezzi di sopravvivenza. Altrimenti detto: i vecchi dominavano e imponevano i loro valori perché detenevano i mezzi conoscitivi per permettere ai giovani di sopravvivere. Per i giovani delle due l’una: o si chinava la testa, ascoltando con rispetto e seguendo i consigli su dove seminare e quando raccogliere, oppure si usciva fuori al freddo a girovagare per il mondo, a scoprire da capo il ciclo stagionale delle piante e come riparare il tetto dopo una grandinata. Oggi vale più o meno il contrario. Nonno Pino non può che chinare la testa e bofonchiare qualcosa tra sé a sé rispetto al taglio di capelli di suo nipote Christian, se è grazie alla destrezza virtuale di quest’ultimo che riesce a scaricarsi lo SPID o capire come funziona un fondo-pensioni digitale. È grazie al know how dei nativi-digitale, al loro senso di orientamento sui portali online che i nonni oggi possono accedere alle risorse di cui hanno bisogno per sopravvivere, mentre, all’inverso, nulla di quello che hanno da offrire ai loro nipoti è ormai determinante per la loro sopravvivenza. Ironia della sorte che la dimestichezza con il linguaggio dei server e dei portali sia maturata in ore e ore passate a giocare ai video giochi o a scaricare illegalmente file da Emule.

Ma la rivoluzione giovanile non si ferma qui: con la digitalizzazione che procede a un ritmo sempre più accelerato, sempre più incomprensibile per gli analfabeti digitali, ai vecchi non resterà che adeguarsi e vergognarsi dei loro corpi esausti, mentre nuove tecnologie inaccessibili e gestite verticalmente dai giovani condizioneranno completamente le loro capacità di sopravvivere. L’unico tesoro che custodiranno non sarà più quello immateriale e magico del tramandare, ma quello ben più concreto e quantificabile della casa al mare da spartirsi tra nipoti, garantita a patto di smaltire le cianfrusaglie e le bigiotterie accumulate in tutta una vita da boom economico.

Sempre più inutili, sempre più soli, i vecchi non serviranno più a nulla se non a riempire con un po’ di colore e qualche ruga autorevole i profili social dei giovani, i loro padroni digitali. La blockchain universalizzata li costringerà a tatuarsi in faccia o fondare un gruppo drill per ottenere il rispetto dei loro nipoti ormai dispensatori delle loro stesse condizioni di vita, gli unici capaci di interagire con l’Uber automatizzato che porterà loro le medicine per il cuore, e il portale pieno di icone incomprensibili per gestire i risparmi di una vita.

Rimane loro la via dell’affetto, la speranza di riuscire ad ammansire i loro nuovi padroni in giovane età, quando sono più vulnerabili e ancora “alti così”, con la tenerezza, gli zuccheri raffinati, la cucina tradizionale; puntare tutto su quella segreta e silenziosa complicità che si intesse, in un gioco di facce buffe e sorrisi, tra i due lati opposti della tavola da pranzo, tra gli ultra vecchi e gli ultra bambini, entrambi precari e bisognosi e dipendenti dagli adulti al centro tavola, occupati a gestire il mondo e la sopravvivenza di tutto il resto della famiglia.