Tra gli intellettuali e le intellettuali che oggi difendono Leonardo Caffo, il filosofo accusato di violenze e maltrattamenti dalla sua ex compagna, ve ne sono alcuni che hanno costruito una carriera sul femminismo, sulla solidarietà tra donne, sul «sorella io ti credo», sul «Non una di meno», hanno scritto articoli per le più importanti testate nazionali, hanno pubblicato libri sulla violenza di genere, partecipato a talk, podcast, hanno occupato incarichi universitari di prestigio.
Prima tra tutte Ilaria Gaspari, che il 28 giugno intervista sul Corriere l’imputato Caffo (a cui si dedica un intero paginone) facendolo passare per un perseguitato politico («Pensi che nella risonanza del tuo caso abbia avuto un ruolo anche una forma di anti-intellettualismo?», questo il livello delle domande poste dalla filosofa all’uomo maschio bianco cis accusato di violenza di genere, sottoposto a un ordine di allontanamento). Dopo l’uscita del pezzo, forse consapevole di averla fatta grossa, la Gaspari ha reso privato il suo profilo Instagram. Fa seguito Teresa Ciabatti, che senza pudore alcuno pubblica un post in cui difende l’amico, rilanciando una loro «bellissima conversazione». Dopo qualche ora il contenuto viene cancellato dai social, assieme ai like di altri esponenti del bel mondo engagé, tra cui quello in bella vista dell’onnipresente Chiara Valerio.
Leonardo Caffo, infatti, è nome noto nei salotti intellettuali, di cui fa sfoggio, anzi scudo, fissando sul suo profilo Instagram i messaggi privati che scambiava con la Murgia (proteggimi), divenuta un santino, l’icona che salva chiunque ne sia venuto a contatto in vita. Caffo negli ultimi anni ha scritto soprattutto per il Corriere della Sera, mentre su Internazionale aveva una rubrica fissa, così come su Lampoon e Interni, ed è stato tra i conduttori e autori di Radio 3 RAI; ha lavorato come curatore alla Triennale di Milano, è stato membro del comitato direttivo del Museo MAXXI di Roma. Di recente ha pubblicato un libro con Tlon, la casa editrice di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, la stessa che ha fatto del femminismo uno dei core business del suo progetto editoriale.
Ecco allora che il caso Caffo manda in tilt un certo tipo di femminismo, non quello radicale, che scende in strada o che mette il proprio corpo nella lotta contro il patriarcato, ma quel femminismo che in Italia si rivela monopolio di una cerchia ben definita di persone, quelle che si recensiscono i libri tra loro, che frequentano gli stessi festival, una bolla di intellettuali e case editrici e direttori artistici e professori universitari che si muove di comune accordo e si copre le spalle a vicenda, anche a costo di pestare il merdone. Come si concilia, adesso, il garantismo che fanno valere con la «sorellanza» sbandierata fino a ieri, quella sorellanza che non ammette il beneficio del dubbio di fronte a una donna che ha il coraggio di denunciare una molestia? L’ex compagna di Caffo non è una donna come le altre? La sua voce conta meno perché l’accusato scrive sul «Corriere della Sera» e ha presentato l’ultimo libro di Lagioia?
L’amichettismo, variazione culturale del familismo, vince anche sull’ideologia, e non importa se emergono le contraddizioni, se si impongono i toni e le modalità che si condannavano fino a ieri, per salvare un amico si attiva il dispositivo della superiorità morale, dell’impunità intellettuale, del cameratismo culturale. Se a destra assistiamo alle nefandezze di una gioventù meloniana omofoba e razzista, che probabilmente non reciderà mai il cordone ombelicale con un passato che non passa, malgrado i tentativi di rebranding, negli ambienti culturali progressisti viene a galla tutta l’ipocrisia del doppiopesismo, si palesano metodi di protezione discriminatori, che dimostrano a loro volta quanto il femminismo dei salotti, se vuole davvero vincere la sua battaglia, debba fare i conti internamente con le logiche clientelari che prevalgono tra i suoi esponenti più noti, tutelati da una rete di relazioni culturali che li rende immuni alle loro stesse accuse.
In Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti, scriveva Longanesi un secolo fa. Non è cambiato molto da allora, anche se ai nostri era chiesto molto meno della rivoluzione, anche solo il rispetto, il buon gusto, il silenzio. Hanno preferito la prepotenza, il favoritismo, l’omertà.