Non ho statistiche a disposizione ma tiro a indovinare che metà della produzione romanzesca di oggi in Italia è basata su “intrecci di risoluzione”: gialli, thriller, detective stories, noir che dir si voglia.
In Italia fino a pochi decenni fa siamo stati refrattari a questo genere di procedimento narrativo per la ragione che la nostra letteratura è stata sempre “exclusive” (Arbasino dixit) ossia “alto di gamma”, preziosa, ricercata, mandarinesca, destinata agli happy few; di fatto priva, almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso, di un pubblico di massa, cui rivolgersi anche con una letteratura di genere. Ma c’è stato anche un impedimento, diciamo così, “antropologico” alla diffusione del giallo. Il poliziesco si basa su una preoccupazione protestante: assicurare alla giustizia di un Dio veterotestamentario il colpevole, mentre nel nostro Paese cattolico e indulgente c’è sempre stata una complicità antropologica col reo, col “Caino che nessuno deve osare toccare”, figurarsi a metterlo al centro di una caccia, foss’anche narrativa. (È una spiegazione pungente che Laura Grimaldi, responsabile storica del giallo Mondadori, dava in un’intervista che non sono riuscito a segnare).
Occorre subito aggiungere, circa la scarsa diffusione del “giallo”, penetrato in Italia solo a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, che esso prende nome dal colore della copertina con cui Mondadori confezionava i libri, ma in sé il giallo ricomprende crime stories, detective stories, thriller, noir, ecc. Il fatto in sé singolare è che il genere era solo d’importazione, non veniva praticato da autori italiani (salvo Scerbanenco, milanese di origine ucraina), non aveva scuole locali e pertanto non si declinava troppo in generi e sottogeneri, e non si perdeva quindi in sottigliezze nominalistiche. È noto che i nomi seguono le cose, secondo alcune suggestioni, e che scarseggiano laddove c’è poca varietà, mentre abbondano laddove c’è profusione: vedi i mille modi degli eschimesi di chiamare ciò che noi riassuntivamente e sbrigativamente chiamiamo “neve”.
Lo dico subito: io non amo il genere “giallo”. Credo di aver letto in vita mia, e solo per lo scrupolo di coprire una lacuna intellettuale più che per un reale interesse, non più di quattro esemplari del genere (un poker di “Gialli Mondadori”). Dopodiché non ho avvertito più il bisogno di leggerne altri, neanche sotto l’ombrellone. Aggiungo che credo di non essere uno snob: ho letto da giovanissimo Gramsci e verso la cosiddetta “letteratura industriale” ho mostrato sempre la dovuta attenzione “demopsicologica”, necessaria per comprendere l’estetica di massa, partendo dal presupposto che di questa massa faccio parte. Non ho neanche pregiudizi verso i generi: spesso più che una gabbia o un limite sono una sfida per gli scrittori di vaglia.
Le mie obiezioni verso il genere giallo collimano in parte con quelle espresse con caparbietà ed eleganza da Edmund Wilson ne Il cronista letterario (una raccolta di scritti a cura di G.Cherchi, Garzanti 1992), che ho letto “dopo” essermi fatto delle convinzioni personali, e che attestano sostanzialmente che il genere poliziesco altro non è che un gioco come un cruciverba o una sciarada: un intrattenimento. Ho qualche lettura poi nel campo della narratologia, che metto subito al servizio delle mie riflessioni: il giallo mi sembra il brillante risultato della intersezione di due macrostrutture narrative: a) il “romanzo d’assedio”; b) l'”intreccio di risoluzione”.
Di tutte le analisi narratologiche sull’intreccio che sono state proposte nell’intento di afferrare questo proteiforme manufatto letterario che è il romanzo, almeno due mi sembrano esaustive e definitive. La prima è quella di Franco Ferrucci, (L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi narrativi, Mondadori 1991), il quale ritiene che tutti i possibili intrecci, stringi stringi, si riducono a due archetipi narrativi: il romanzo d’assedio e il romanzo di peregrinazione (nostos, ritorno), il romanzo da fermi e il romanzo in movimento, ovvero l’Iliade e l’Odissea. Non è difficile accogliere favorevolmente l’estrema e azzardata riduzione di tutti i possibili intrecci narrativi a queste due modalità: è indubbio, solo per fare qualche esempio, che Le relazioni pericolose di Laclos è un romanzo d’assedio e che il Tom Jones di Fielding è un romanzo di peregrinazione, che Sulla strada di Kerouac appartiene al secondo tipo e Gli indifferenti al primo. Ancora: non vi sarà difficile ascrivere Le affinità elettive di Goethe e Il Nome della rosa di Eco ai romanzi d’assedio e Gil Blas di Lesage e il Don Chisciotte ai romanzi di peregrinazione. E così via.
Questa brutale semplificazione ci è di grande aiuto per riconoscere di primo acchito l’immagine complessiva di un romanzo, ciò che resterà come un fosfene negli occhi chiusi del lettore che ha finito di leggere un romanzo. Questa immagine è la macrostruttura su cui poggia tutta la narrazione.
I tedeschi chiamano Kammerspiel (tragedia da camera) il romanzo da fermo, e, per certi versi, il giallo è un perfetto Kammerspiel. Provate a scrivere un romanzo che si svolga tutto per linee interne e in spazi ristretti: indubbiamente dovreste essere molto bravi, perché non verrà in vostro soccorso né l’azione né l’avventura; ma potreste raccogliere frutti molto più succosi, di grande fascinazione e forte potere di attrazione: avete trasformato una “tragedia da camera” nella “stanza della tortura”, graditissima al lettore. Tenere incastrato il lettore in una stanza chiusa come in Dieci piccoli indiani (uno dei miei quattro gialli) o in una piccola città termale come avviene nei romanzi di Jane Austen o in un appartamento romano come Gli indifferenti di Moravia; e beh, non è cosa da poco. Avete utilizzato l’effetto cric: minimo sforzo (quanto ad azione e movimento) ma massimo rendimento. Avrete scritto un romanzo rinunciando al “romanzesco”, inteso come dilatazione dello spazio e del tempo tipico dei romanzi di avventura, di cappa e spada, e delle Rivombrose televisive.
Ma c’è una seconda classificazione delle macrostrutture narrative ancora più convincente che si affianca e interseca la prima. “Intreccio di rivelazione” o “di risoluzione”? Questo è il grande problema di ogni struttura narrativa. L’inventore di questa classificazione, il narratologo americano Seymour Chatman, dedica solo qualche fuggevole cenno a questi due possibili narrativi nel suo prezioso saggio Storia e discorso (Pratiche, Parma 1978). Secondo me sono centrali e vorrei riprenderle perché costituiscono il cuore di qualsiasi narrazione.
Ma di cosa si tratta?
Partiamo dalla definizione del più intuitivo fra i due: l’intreccio di risoluzione. Prendete una detective story, un thriller, un giallo. Ecco, questo è il classico “intreccio di risoluzione”: una trama in cui occorre risolvere un teorema narrativo.
Ora, in questa macrostruttura narrativa ciò che si mette in moto è un enigma da sciogliere, una sciarada narrativa da risolvere, come diceva Wilson. È la narrazione more geometrico demonstrata, è l’esprit de géometrie del meccanismo di risoluzione contrapposto all’esprit de finesse del meccanismo di rivelazione (una narrazione che svela un io, un ambiente, un’epoca). Come nel romanzo di movimento il potere d’attrazione è assegnato principalmente all’azione, così nel romanzo di risoluzione tutto il potere è assegnato all’intreccio, alla capacità che avrete nel predisporre tale “ordigno” narrativo, nel portarlo a maturazione e nel saperlo sciogliere secondo principi logici ferrei. Qui: «Che cosa accadrà?», è la domanda unica del concatenamento delle vostre sequenze narrative.
Ma occorre intendersi: i romanzi con intreccio di rivelazione, poniamo Madame Bovary o L’educazione sentimentale di Flaubert o altri ancora, non sono inerti macchine narrative dove il disvelamento di un ambiente o di una psicologia nulla concedono all’intrigo, all’incatenamento logico delle sequenze narrative, alla suspense. Se guardiamo più da vicino questi due romanzi scorgiamo che Madame Bovary, a differenza dell’Educazione, è un romanzo più strutturato, che segue principi quasi di “risoluzione”, mentre l'”Educazione” è totalmente “piatto” e nulla concede ai concatenamenti e agli sviluppi dell’azione. Il primo sembra obbedire alla regola per la quale all’ inizio del romanzo “tutto è possibile, a metà le cose divengono probabili, alla fine tutto diventa necessario“. C’è dunque una forma di “risoluzione” anche nei romanzi di “rivelazione”, ed è data dalla curvatura del racconto. La sapiente messa in tensione di tutto il materiale narrativo che culmina nel suicidio di Emma garantisce questi esiti nella Bovary. Nell’Educazione invece, Flaubert, che inseguiva un suo tipo di romanzo “sul niente”, ossia senza oggetto specifico, senza appigli esterni e senza un tema centrale, inanella una suite di scene «dove non “succede” nulla» e la domanda «Che cosa accadrà?», resterà sempre insoddisfatta, essendo l’ultima preoccupazione dell’autore.
A pensarci bene la vita di tanti di noi non è affatto romanzesca e si svolge piuttosto secondo gli schemi dell’Educazione che della Bovary: una sequela di atti che non si incardinano in scene madri, che non hanno un crescendo e che finiscono senza botti. Flaubert era cosciente di tutto ciò. Scriverà all’amica Mme Roger Des Genettes nell’Ottobre 1879: «Perché questo libro [l’Educazione] non ha avuto il successo che attendevo? […] È un libro troppo vero e, esteticamente parlando, gli manca una cosa: la falsità della prospettiva. A forza d’aver bene congegnato il piano, il piano è scomparso. Ogni opera d’arte deve avere un punto, una sommità, deve fare la piramide, o meglio la luce deve cadere su un punto della superficie. Ora, niente di tutto ciò nella vita. Ma l’arte non è la natura!». Ogni narrazione deve fare la piramide, deve avere una punta, che coincide con la spannung dei tedeschi e il dénouement dei francesi: tutte le linee narrative devono convergere in un punto, da dove procedere per lo scioglimento.
Nel “giallo”, ahimè, non accade altro che questo: un intreccio di risoluzione che fa coincidere il fine e la fine della storia, del plot.
Occorre subito aggiungere, per altro verso, che l’intreccio di “risoluzione” non si nega a istanze di rivelazione. C’è chi afferma anzi che il thriller oggigiorno è il nostro vero “romanzo sociale”, che dietro le trame di Dashiell Hammett, di Georges Simenon, di Jean-Claude Izzo o del nostro Camilleri v’è un lavoro segreto di “disvelamento”, di rivelazione appunto, di ambienti sociali, di universi locali e di psicologie che non occorre sottovalutare rispetto al mero plot. Non c’è solo l’intrattenimento dell’intrigo ma un contenuto di “rivelazione” non sminuito dall’attesa ovvia del lettore che venga soddisfatta la domanda: «Che cosa accadrà?». Anzi diciamo che lo scrittore scaltro che ha adottato questo tipo di intreccio, gabba l’ipocrita lettore ammannendogli il giochino del «giallo», per poi fare nei fatti ciò che vuole. Accetta una convenzione per disattenderla nei fatti.
Ciò detto, c’è chi afferma – il sottoscritto per l’occasione – che il dominio assoluto della trama in questo genere di narrazioni è una forma di asservimento abnorme a quelle necessità ludico-combinatorie che inevitabilmente comporta l’intreccio di “risoluzione”.
Quel che mi preme soprattutto sottolineare e che mi allontana da questo genere è che nei «gialli» il primo morto è innanzitutto l’autore; che in essi l’autore rinuncia a se stesso e noi lettori non acquisiamo un nuovo punto di vista sul mondo legato alla sua personale percezione. Guadagniamo il gioco e perdiamo il giocatore: perdiamo soprattutto lo sguardo dell’autore (che se è tanto icastico e perentorio, definiamo perciò: pirandelliano, tolstojano, dostoevskiano, shakespiriano o anche brancatiano ecc). Accettando il gioco rinunciamo alla conoscenza; ci divertiamo (nel senso etimologico del termine), sarà una “passive diversion” dirà il sommo Francis R. Leavis) ci distraiamo, e non portiamo nulla o poco a casa, ossia nessuna nuova acquisizione sulla vita, sul mondo e su noi stessi. Perché la letteratura è principalmente questo: una forma di conoscenza. Insomma, in questo tipo di intrecci non “ci si serve” della trama, ma “si serve” la trama (uso un’espressione tratta dal bel libro di Cesare De Marchi: I romanzi. Leggerli, scriverli, Feltrinelli, 2008): la trama diventa il fine e non il mezzo, e l’autore si eclissa al suo cospetto.
Concludo aggiungendo, al fine di guardare la questione sotto tutti i punti di vista, che ciò è vero solo in parte e che ogni impedimento può diventare un giovamento per i grandi artisti. Rammento infatti che uno scrittore assolutamente geniale come Carlo Emilio Gadda per uscire dal sublime ma «inconcludente» (nel senso che non riusciva a chiuderle!) manierismo delle sue precedenti opere di “rivelazione” (La cognizione del dolore prima fra tutte) ha dovuto ricorrere in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana proprio all’intreccio di “risoluzione”, all’inchiesta commissariale, e «concludere» finalmente un’opera. Ma di Gadda ci resta però uno “sguardo” (barocco è il mondo, e lo gliuommero non è di don Ciccio Ingravallo ma di tutti noi), una personale visione del mondo che non si perde al servizio dell’inchiesta commissariale di don Ciccio: era scrittore, prima che narratore, l’Ingegnere, aveva qualcosa da dirci e nulla da risolvere.