Brain rot, manifesting, enshittifcation, brat; non sono solo parole che descrivono il reale presente, ma coordinate che strutturano il modo stesso in cui siamo capaci di concepire il mondo e il desiderio.

Da qualche tempo a questa parte, verso inizio Dicembre, i più importanti dizionari scelgono una parola che rappresenti l’anno appena concluso. Neologismi, parole risignificate o arcaismi perduti che riemergono grazie a qualche trend virale. E se le parole plasmano la società che le vive e creano modelli, immaginari latenti che abitano la nostra quotidianità (e ci aiutano a decifrarla), l’uso di uno specifico vocabolario è un atto politico. Si formano così, cartografie di fine anno di un disagio che trova sempre il modo di esprimersi.

Tra i tanti, Oxford Dictionary ha scelto brain rot come parola dell’anno, e non poteva essere altrimenti: è il significante perfetto della nostra condizione. Non tanto per ciò che vuol dire letteralmente – il deterioramento cognitivo causato dal consumo compulsivo di contenuti digitali – quanto per come questo significato è stato metabolizzato dalla cultura contemporanea. Il brain rot si è imposto subito come estetica, un format memetico (come non menzionare i film versione brainrot o le Ads di certe aziende brainrottate) o declinato come verbo per indicare l’azione di arrendersi ai social. Non è un’estetica del decadentismo, non è l’eterno ritorno del dandismo, la memetica del brainrot trasforma il deterioramento cognitivo in performance culturale. È il sintomo che diventa spettacolo di sé stesso. Normale amministrazione, è dai tempi di Baudrillard che la rappresentazione precede il reale. 

Non è un caso che il termine, a quanto dice l’Oxford Dictionary, nasca nel 1854 con Thoreau e riemerga proprio ora: allora era una critica alla modernità industriale, oggi è diventato il nostro modo di abitare il dolore digitale. Se c’è una cosa che insegna la memetica è che non esista uno stadio terminale, una fine della storia, che anche quella potrà essere risignificata in un ulteriore détournement in cui il Falso è solo un momento del Vero. Eppure il marcio cognitivo è l’ironia terminale della nostra epoca, la consapevolezza del nostro deterioramento trasformata in meme. Più consumiamo simboli, più diventiamo incapaci di produrne di nuovi.

Ma se brain rot è il sintomo, manifest – scelto da Cambridge Dictionary – è il nostro patetico tentativo di cura. Non a caso è esploso durante la pandemia, proprio quando lo scientismo elitario e classista iniziava a frantumarsi e perdere appeal presso le masse. Ora l’atto di “manifestare” (esprimere un’intenzione con la coscienza che questa influenzerà gli accadimenti futuri) è stato abbracciato dalle Olimpiadi 2024 fino ai concerti di massa: è la preghiera laica dell’era digitale. Di fronte al capitalismo terminale, indecifrabile e frammentato, la magia è il rifugio individuale in cui ci nascondiamo.

A differenza di quanto proposto da filosofi come Campagna o Mattei, qui non assistiamo a un reincantamento della tecnica weberiana o a un recupero di qualche capitale spirituale rimosso. Il manifesting è piuttosto il ritorno del pensiero magico arcaico in forma degradata, sterilizzata, Instagram-friendly. È la dimensione della spiritualità occupata da tecniche infantili di self-help. Il manifesting è la quintessenza di un’algebra del bisogno infelice: una formula magica che promette di trasformare il desiderio in realtà, dimenticando che il desiderio stesso è già stato colonizzato dal mercato. Quando Simone Biles o Dua Lipa parlano di manifesting, non stanno recuperando una dimensione sacra dell’esistenza: stanno piuttosto mettendo in scena l’illusione di agency in un sistema che ci ha privato di ogni reale possibilità di cambiamento. Il mantra di chi abbandona la lotta di classe per la lotta alla sopravvivenza. Un ritorno alla risoluzione della crisi della presenza con il magico. Interpassivi, deleghiamo il nostro desiderio a un Altro immaginario (l’universo, l’energia cosmica) che dovrebbe desiderare per noi. È la perfetta sintesi tra spiritualità New Age e mentalità imprenditoriale neoliberista. 

Collins Dictionary ci offre brat, termine che nel 2024 ha dominato la memetica estiva: la brat summer. Ispirato dall’album di Charli XCX, brat ha rappresentato più di un atteggiamento: un’ontologia del presente, una forma-di-vita edonista e atomizzata. Nel giro di un mese, il termine che descriveva bambini viziati e borghesi diventa l’appellativo dell’audace, ribelle che non deve chiedere scusa.

Ideologicamente ancora più curiosa l’accezione slang tradizionale del termine brat, all’interno del BDSM. Un sub che trova nella disobbedienza una forma innocua di gioco, che ricerca un dom che non solo gli impartisca una lezione, ma che accetti di farlo e rifarlo in eterno, cosciente che questo è il gioco dei ruoli. Probabilmente una psicoanalisi del movimentismo italiano. Brat è il vocabolo della trasgressione decadente, individuale, motivata dalla frustrazione più che dalla coscienza, mascherata dalla determinazione nichilista. 

Non è un caso che tra gli altri termini in lizza ci fossero parole come yapping (il parlare a vanvera, diventata un’azione rivendicabile), delulu (le aspettative irreali e irrazionali, inserita anche tra i neologismi di Treccani) e looksmaxxing (l’ossessione per l’ottimizzazione estetica). Sono tutti sintomi di frustrazioni e dissonanze cognitive. I punti di una costellazione che disegna non tanto lo spirito del tempo, quanto la nostra incapacità di immaginare alternative. Un vocabolario del disagio che funziona precisamente per la sua incapacità di guarire ciò che nomina. 

Ed eccoci al termine più triste e meno fantasioso del 2024, scelto da Macquarie Dictionary: enshittification. È ovvio che qui il linguaggio stesso ammetta la propria sconfitta. Non bastano più parole come deterioramento, degrado, decadenza: abbiamo bisogno di neologismi sempre più grotteschi per descrivere come tutto continui a peggiorare. Come nota Yuk Hui parlando della tecnodiversità, il problema non è solo il deterioramento delle piattaforme digitali, ma l’omogeneizzazione del deterioramento stesso. L’enshittification è il processo attraverso il quale ogni piattaforma digitale inevitabilmente degenera sotto il peso della monetizzazione, arrivando ad assomigliarsi tutte nella loro decadenza. Ora viene utilizzata per esprimere come ogni spazio altro in un tempo dato, verrà colonizzato dalle logiche di mercato e di desiderio capitaliste e in poco tempo sarà una merda. La cooptazione dell’evasione è ora una stagione naturale di qualsiasi processo.

Queste parole formano un perfetto circolo vizioso: le maglie invisibili e quasi magiche del brain rot ci spingono verso il manifesting come fuga fantasmatica, mentre celebriamo la brat summer disobbedendo il tempo di una stagione ad un sistema in eterna enshittification. Non sono solo parole che descrivono il reale presente, ma coordinate che strutturano il modo stesso in cui siamo capaci di concepire il desiderio. O marcisci o rendi il marcio cool. Le nuove generazioni trovano nuove parole. Eppure le strutture del desiderio non cambiano forse proprio perché invisibili e per questo innominabili. Come suggeriva Giorgio Agamben, forse la vera profanazione oggi consisterebbe nel restituire al silenzio ciò che il rumore incessante della comunicazione ha reso indicibile. Slay.