Capitolo tradotto da "Fanged Noumena" di Nick Land. E se fosse la morte l'unico modello dell'opposizione al capitale? E la rivoluzione non un dovere, ma un abbandono?
Osservazioni su Thanatos e la Produzione-Desiderante, di Nick Land

Se Deleuze deve essere tratto in salvo da quell’insulso liberalismo neo-kantiano che oggi passa per filosofia in Francia, è necessario ricostruire e approfondire la sua genealogia. Lo pseudo-nietzscheanesimo della reazione anti-hegeliana degli anni Sessanta è un contesto ben poco adeguato per un pensatore di tale rilievo, e lo stesso si può dire per le sue tenzoni con la psicoanalisi strutturalizzata. La forza di Deleuze deriva dal fatto che riesce a distaccarsi dalla temporalità parigina in modo molto più radicale rispetto alla maggior parte dei suoi contemporanei, incluso lo stesso Guattari. Il tempo del testo di Deleuze è un tempo più freddo, più rettiliano, più tedesco, o almeno il tempo dei tedeschi anti-tedeschi, come Schopenhauer e Nietzsche in particolare, per i quali le ere andavano scandagliate con disprezzo. È soprattutto un tempo lucreziano o spinoziano, un tempo di natura indifferente, che compone bizzarri accoppiamenti trasversali attraverso i secoli.

I
La modernità è “essenzialmente” ricostruttiva, una caratteristica rilevata sia dalla mera continuità astratta della sua organizzazione produttiva – il capitale è sempre neo-capitale – sia dalla dinamica trascendentale della sua modalità filosofica predominante (kantiana). La critica appartiene al capitale perché è la prima procedura teorica intrinsecamente progressiva apparsa sulla terra; evita sia il conservatorismo formale della scienza naturale induttiva, sia il conservatorismo materiale della metafisica dogmatica. Sia nel caso del modo di produzione che in quello del modo di ragione, ciò che emerge è un movimento auto-perpetuante di deregolamentazione, che tende ad affidare un privilegio sempre più radicale all’impulso interrogativo. Naturalmente, come indicano in modo così esplicito Deleuze e Guattari nei loro scritti, questo processo di liberazione immanente è soffocato e limitato dalla ricostituzione attiva di meccanismi di controllo arcaici: fedi, apparati statali, affinità parrocchiali, neo-tribalismi, un’autorità messa in scena in maniera sempre più ridicola; la morale, i matrimoni e i mutui.

Le traiettorie della filosofia moderna si delineano in risposta a questo dilemma sociale e teorico. Un flusso di pensiero, che attraversa Schopenhauer e Nietzsche fino agli strati repressi della psicoanalisi e della metapsicologia freudiana, traccia la ricorrenza dell’impeto formativo di base soffocato dalla teo-politica occidentale. Un altro flusso, associato principalmente a Hegel, è guidato dall’ideale implicito di una ricostruzione speculativa del politico, all’indomani del Capitale. Entrambe queste tendenze puntano nella direzione di un pensiero post-trascendentale; nel primo caso dissolvendo le differenze polarizzate tra l’empirico e le sue condizioni in una gerarchia aperta di strati intensivi, nel secondo collassando la composizione astratta di questa polarità nell’autolegislazione infinita del concetto concreto. Una terza corrente, forse la più intricata topograficamente, è rappresentata soprattutto da Schelling, ed è spinta dalla dinamica della critica verso un completamento del programma trascendentale: sostituendo la continuità immanente della cosmologia spinoziana con la ininterrogata pietà dell’identità logica ereditata da Kant.

Deleuze è il più potente esemplare di questo spinozismo trascendentale tra i pensatori contemporanei. La decostruzione di Derrida, pur essendo in fin dei conti programmaticamente simile a una schizo-analisi o a una critica genealogica di tipo deleuziano, è pesantemente indebolita da un afflusso di temi neo-umanisti, che arrivano, passando attraverso Heidegger, da Kierkegaard e Husserl, i quali aggravano l’entità del compromesso quasi-teologico che neppure lo stesso Schelling era riuscito ad evitare. Heidegger, pur alimentando gli aspetti più sordidi del regionalismo e dell’idealismo di questa eredità, prosegue con vigore l’eliminazione dell’influenza di Spinoza, accademicizzando e denaturalizzando il pensiero del fondamento impersonale o dell’Indifferenz. Sebbene sia Deleuze che Derrida critichino l’articolazione illegittima, il primo tende verso un materialismo compiuto, in cui la sostanza intensiva viene rilasciata trascendentalmente dalla sua paralisi nell’estensione, mentre il secondo persegue una meditazione giudaica, tracciata in teo-grafismi, radicalizzando indefinitamente una relazione anti-iconica con l’assoluto. Deus sive natura non è un’identità, ma una disgiunzione inclusiva; Spinoza il giudeo che scompare o Spinoza lo psicotico esplosivo, decostruzione o schizo-analisi.

Se la decostruzione è spinta dalle pietà effimerizzanti del capitale, la schizo-analisi è mossa dalla sua spietatezza da gazza ladra. Ricodifica sempre, ci dice la decostruzione, ma ogni volta in modo più sottile, più elusivo, sviluppando un po’ di più la parodia prolungata della legge su sé stessa. Decodifica sempre, blatera invece la schizo-analisi, non credere in nulla e liberati dalla nostalgia per l’appartenenza. Chiediti sempre dove il capitale è più disumano, privo di sentimenti e fuori controllo. Abbandona ogni attaccamento allo Stato. Non è il managerialismo sociale di Hegel ciò che si contrappone appropriatamente al nomadismo deleuziano. L’hegelismo è stato sempre solo il black humour della storia moderna. Piuttosto, è la politica non esclusiva della decostruzione o le più rozze teorie liberali neo-kantiane, con le loro umanità astrattamente ricomponibili, che rappresentano il vero contrappunto all’economismo anti-politico di Deleuze. In contrasto con la nevrosi ossessiva del pensiero etico, con il suo vano tentativo di consolidare un principio trascendente di giustizia a partire da quel triste fantoccio dei codici del lavoro contrattuale che chiamiamo “l’agente”, la schizo-analisi condivide quel delizioso senso di irresponsabilità di tutto ciò che è anarchico, inondante e rigidamente impersonale.

Il capitale non può disconoscere la schizo-analisi senza perdere le proprie zanne[1]. La follia che così estrarrebbe da sé è l’unica risorsa per il suo futuro; una nicchia de-socializzata di sperimentazione che corrode la sua essenza e deride con anticipo l’intero spettro dei modi di civiltà attualmente esistenti. La vera libertà energetica che annienta la gabbia sacerdotale della libertà umana è rifiutata a livello del secondario processo politico proprio nel periodo in cui il primario processo economico scivola sempre più tra le sue braccia. Il profondo segreto del capitale-come-processo è la sua incommensurabilità con la conservazione della civiltà borghese, che si aggrappa a esso come un nano in groppa a un drago. Man mano che il capitale “evolve”, la razionalizzazione sempre più assurda della produzione-per-il-profitto si sgretola via come un pellaccia secca per via dell’inflazione del feedback positivo della produzione-per-la-produzione.

Se il capitale è una macchina da suicidio sociale, è perché si trova costretto a favorire i propri assassini. Il capitale produce la prima socialità in cui il pouvoir della dominazione è continuamente sottomesso al rischio della puissance sperimentale. Solo intensificando i suoi legami nevrotici esso riesce a mascherare l’eruzione di follia nella sua infrastruttura, ma, ogni anno che passa, tali legami diventano più disperati, cinici, fragili. Tutto questo solleva la questione della famigerata “morte del capitalismo”, che è stata prevalentemente trattata come una questione di terrore o speranza, scetticismo o fede. Il capitale, ci viene detto, sopravviverà, oppure no.

Tale escatologia proiettiva perde completamente di vista il punto, ovvero che la morte non è una possibilità estrinseca al capitale, ma una sua funzione intrinseca. La morte del capitale è meno una profezia che una parte della macchina. La voluttà immanente ad ogni nuovo affare prende slancio dalla fine della borghesia. Considerate l’uso di cocaina da parte del capitale finanziario: al tempo stesso sia una sbornia quantitativa segnata come deviazione dallo zero, sia una spesa di lusso che annulla il signifcato storico della ricchezza. Il broker che gestisce dei futures strafatto di cocaina che passa accanto a un ubriacone lungo una strada di Manhattan traduce il destino della differenza di classe in un’intensità immanente tracciata su una superficie liscia di dissoluzione sociale. Il senzatetto abita il punto zero sociale, il punto di fuga della legalità premoderna preferito dal capitale, dal quale la scarica di cocaina è respinta come da un’anonima distanza dalla morte. C’è un divenire-un-senzatetto-ricco, un divenire-un-pezzente-fatto-di-cocaina, che è integrale al cinismo del capitale di frontiera. Questa è l’avanguardia moderna di Beckett, dove l’alta cultura si differenzia immanentemente dall’assenza di cultura, assolvendosi dal bisogno di presentare qualsiasi specificatore ontologico. È così che c’è un divenire-zombie del senzatetto proprio come c’è un divenire-frenetico dei veri manager del sociale: il quartiere popolare degradato come linea di base per l’effervescenza di Wall Street. È del tutto inesatto suggerire che gli yuppie della finanza non conoscano la privazione, poiché l’oblio limite di una proletarizzazione assoluta lo buttano giù con ogni bolla di champagne.

Esiste una risposta umanista familiare a questo divenire-zombie al limite delle possibilità del lavoratore moderno, che è associata anzitutto alla parola ‘alienazione’. I processi di de-skilling, ovvero il re-skilling sempre più accelerato, la sostituzione del lavoro manuale con il lavoro astratto, e l’intercambiabilità crescente dell’attività umana con i processi tecnologici – tutti accompagnati dalla dissoluzione dell’identità, dalla perdita di interesse e dalla narcotizzazione della vita affettiva – vengono criticati sulla base di una concezione morale. Ci si prospetta un risveglio politico, finalizzato al ripristino di un’integrità umana ormai perduta. L’esistenza moderna è vista come profondamente mortificata dalla sottomissione reale dei valori umani a una produttività impersonale, che a sua volta viene intesa come espressione di un lavoro morto o pietrificato, che esercita un potere vampiresco sul vivente. L’esangue proletario-zombie deve essere rianimato dal terapeuta politico, guarito ideologicamente dal suo amore sacrilego per i non-morti e vincolato alla nuova vita eterna della riproduzione sociale. Il nucleo mortifero del capitale è pensato come l’oggetto della critica.

Deleuze si differenzia radicalmente da un umanesimo socialista di questo tipo, poiché nel programma schizo-analitico la morte è il soggetto impersonale della critica, e non un valore maledetto al servizio di una condanna. Un passaggio complesso verso la fine di L’Anti-Edipo recita:

Non si tratta quindi del lavoratore trasformato da un processo di privazione in uno zombie, ma piuttosto che la produzione primaria passa da una personalità a uno zero, popolando un deserto alla fine del nostro mondo. È importante a questo punto notare che Spinoza cambia il senso della religione del deserto: non più una religione sorta dal deserto, ma un deserto nel cuore stesso della religione. La sostanza di Spinoza è un Dio del deserto. Dio come zero impersonale, come una morte che rimane il soggetto inconscio della produzione. All’interno dello spinozismo Dio è morto, ma solo nel senso di un punto di partenza per i vari divenire-zombie, di ciò che Deleuze chiama “il piano di consistenza”, che in Mille piani è la “fusibilità come zero infinito”[3].

Non c’è differenza, sul piano di consistenza, tra i corpi senza organi e il corpo senza organi, tra le macchine e la macchina. Tra le macchine c’è sempre un accoppiamento che condiziona la loro reale differenza, e tutti gli accoppiamenti sono immanenti a una macromacchina. Le macchine producono la loro totalità accanto a sé come elemento indifferenziato o comunicato, un divenire-un-Dio-catatonico, che erompe come un tumore dalla materia pre-sostanzializzata, attraverso la quale la natura genera la morte accanto a sé.

E in Mille piani:

Queste osservazioni sono chiaramente aggiuntive rispetto ad altre portate avanti nei testi chiave della schizo-analisi, così come alle discussioni estese su Spinoza contenute nei due libri che Deleuze dedica alla sua vita e opera, e agli innumerevoli commenti sparsi tra altri scritti. In Nietzsche e la filosofia, ad esempio, Deleuze isola Spinoza come l’unico vero precursore moderno di Nietzsche, in un’osservazione tanto significativa per comprendere il pensiero di Deleuze quanto poco convincente in relazione a Nietzsche.

Il nome “corpo senza organi” è di per sé un indizio sufficiente per ciò che è principalmente in gioco in questo pensiero, vale a dire: la realtà dell’astrazione. Il corpo senza organi è un’astrazione senza essere un risultato della ragione. È il deserto trascendentale della produzione primaria, o la riproduzione della produzione come continuum di massima indifferenza. È descritto in L’Anti-Edipo come “l’improduttivo, lo sterile, il non-generato, l’inconsumabile”. Dopotutto, cosa dovremmo distruggere per ferire il Dio o la Natura di Spinoza? Cosa si potrebbe creare per esaltarlo? Nulla. La fertilità e la corrosione modulano la sostanza senza intaccarla, giocando con le sue gelide permutazioni senza esprimere preferenze. Qualunque configurazione empirica prenda, riappare sempre di nuovo la produzione in quanto tale: il lusso insensato dell’impersonale.

La reale astrazione è la concezione trascendentale della sostanza spinozista. Già con l’ondata di testi deleuziani apparsi alla fine degli anni ’60 – e più particolarmente con la pubblicazione di Differenza e ripetizione – un progetto filosofico coerente diventa discernibile, meglio descritto come spinozismo trascendentale, o una critica dell’identità. In parallelo, in un certo senso, a Schelling, ma senza alcuna evidente influenza diretta, Deleuze si compiace della base naturalistica del pensiero di Spinoza, ma la intende come priva di una esplicita comprensione trascendentale dell’identità. Con grande generosità Deleuze introduce di nascosto la componente mancante e poi fa finta di averla trovata già lì.

La critica opera segnando la differenza tra gli oggetti e le loro condizioni, intendendo la metafisica come l’importazione di procedure adattate agli oggetti nella discussione circa i loro principi costitutivi. Ciò significa che la critica è prima di tutto una filosofia della produzione, che estrae ciò che è genetico o pre-oggettivo dal discorso; una filosofia che si occupa delle relazioni costitutive o delle sintesi.

Nell’enunciato elementare di identità A = A, la questione dell’interpretazione trascendentale è lasciata aperta. “A” rappresenta un oggetto di qualsiasi tipo, sia esso possibile, ideale, formale, ecc.? Oppure designa l’identità in quanto tale, come principio condizionante? Nel primo caso la relazione d’identità sarebbe estrinseca, con un fondamento ulteriore, mentre nel secondo il suo rapporto con un oggetto possibile rimane problematico. La domanda critica resta irrisolta: come è possibile che qualcosa sia oggetto di un giudizio di identità? O, come viene prodotto l’oggetto nella sua identità con sé stesso?

L’identità è tradizionalmente concepita come essenza assolutamente astratta, o, correlativamente, come principio finale dell’intelligibilità. Entrambe queste formulazioni corrispondono al soggetto logico puro, prima della predicazione. Qualcosa è ciò che esso è. L’essenza è concepita, almeno implicitamente, sulla base dell’eidos platonico: la verità atemporale o pura possibilità della cosa, l’im-prodotto, lo sterile, il non generato. In questo modo, la concezione tradizionale dell’essenza fonde la specificità con l’identità, e il sillogismo opera, fin dalla sua origine, secondo gerarchie generiche di essenza o tipo, che culminano nella teoria logica degli insiemi. Da Aristotele a Kant la ragione è così adattata al pensiero della “cosa stessa”, inconsapevole del fatto che un tema trascendentale è così confuso con uno empirico. Il corpo senza organi è la reale differenziazione tra questi temi: lo stesso che si de-coseizza.

Un rigore filosofico sorprendente inizia ad emergere dalle parole deliranti di Artaud citate all’inizio de L’Anti-Edipo:

Qui troviamo un tipo di giudizio d’identità storicamente aberrante. Il corpo è il corpo, ma solo come repulsione degli organi, o come ritiro del medesimo da ogni organizzazione specifica. La pace compromissoria tra il corpo e i suoi organi che fonda l’ontologia occidentale è minacciata da un movimento violento di scissione, e che non proviene dal soggetto, ma dal corpo. È così che Artaud anticipa la differenza in senso deleuziano, vale a dire: identità radicalmente trascendentale.

La realtà dell’identità è la morte, ed è per questo che l’organismo non può coesistere con ciò che esso è. Sulla superficie liscia del corpo senza organi, “che cosa” ed “è” si ritraggono allergicamente l’uno dall’altro, aprendo una disgiunzione inclusiva nel cuore dell’essenza. Questa disgiunzione separa il polo identitario del corpo senza organi dalla differenza illimitata degli organi deterritorializzati, scindendo quell’oggettivismo che innesta un’identità empirica in irrigidite configurazioni di differenza. L’oggettivismo pre-critico pensa le sintesi sulla base delle loro conseguenze, che possono essere descritte come il loro uso trascendente o illegittimo. Dove Kant parla di legittimità e illegittimità, i testi della schizo-analisi parlano del molecolare e del molare. Così il corpo senza organi è descritto come una “gigantesca molecola”[7], mentre l’organismo è sempre una costruzione molare: costringendo l’identità alla specificità.

Anche la morte si biforca lungo questa frattura: da un lato la morte come identità desertica della differenza, il vuoto catatonico della critica assoluta alla fine del capitale, dall’altro la morte come oggetto molare di un desiderio negativamente costituito, reinvestendo lo zero intensivo nell’ordine sociale. In L’Anti-Edipo, la relativizzazione molecolare della morte molare è descritta nei seguenti termini:

Ciò che separa l’anti-produzione re-investita nella guerra capitalista dalla repulsione assoluta del corpo senza organi è la liquidazione finale della morte nella sua funzione. Questa non è altro che la questione della critica compiuta, poiché il capitale è l’uso illegittimo, storicamente concreto, della sintesi congiuntiva. Questo significa che la produzione di equivalenza è schiacciata sotto l’identità segregata o pre-critica del capitale. Così, è occupando lo spazio di una condizione trascendente della produzione che il capitale persiste, perpetuando l’ordine molare della produzione sociale. Il limite del capitale è il punto in cui l’identità trascendente si spezza, dove il “medesimo” non è altro che la riproduzione assolutamente astratta della differenza, prodotta accanto alla differenza, con la più totale malleabilità. La questione non è che anche la differenza debba avere un’identità, ma piuttosto che la densità è l’identità della differenza, e nient’altro. La differenza non ha un’essenza trascendente, ma solo un piano immanente di consistenza, senza alcun fondamento ulteriore.

II

L’interpretazione che dà L’Anti-Edipo del fascismo è senza dubbio grossolana, ma è anche di enorme potenza. La disgiunzione rivoluzionario/fascista viene usata come discrimine tra le vaghe tendenze alla deterritorializzazione e riterritorializzazione; tra la dissoluzione e la reintegrazione dell’ordine sociale. Il desiderio rivoluzionario si allea con la morte molecolare che respinge l’organismo, facilitando flussi produttivi inibiti, mentre il desiderio fascista investe la morte molare distribuita dal significante; segmentando rigidamente il processo di produzione secondo i confini delle identità trascendenti. Questa è una politica senza preti e senza colpa, che emerge da scrittori che spaziano da Spinoza e Reich, e ulteriormente sviluppata da Klaus Theweleit, il cui studio sul Nazionalsocialismo nei due volumi Fantasie maschili è – nonostante la sua ingenuità teorica – la massima e più florida espressione dell’antifascismo schizoanalitico.

L’identità della politica rivoluzionaria e antifascista risiede nella resistenza alla proiezione molare della morte da parte del capitale. Tutte le fonti di disordine che il capitale rappresenta come l’esteriorità della sua fine, tra cui l’agitazione della classe operaia, il femminismo, le droghe, la migrazione razziale e la disintegrazione della famiglia, sono essenziali al suo stesso sviluppo, come gli attributi di una sostanza. Il compito rivoluzionario non è stabilire un’esternalità più grande, più autentica, più ascetica, ma smantellare i meccanismi di rifiuto nevrotico che separano il capitale dalla propria follia, attirandolo nella trappola della liquidazione delle proprie posizioni di riserva, e persuadendolo a investire nei margini deterritorializzati che altrimenti cadrebbero sotto la persecuzione fascista. La schizo-politica è costringere il capitale a coesistere in modo immanente con il proprio disfarsi.

Questa posizione del 1972 diventa fondamentalmente problematica già nel 1980, con l’apparizione di Mille piani. Tra L’Anti-Edipo e Mille piani avviene un massiccio cambiamento nella diagnosi del Nazionalsocialismo, che viene staccato dalla categoria generale del fascismo e sottoposto a un’analisi più specifica. Questo spostamento è reso necessario da un’intuizione – in parte derivata da Virilio – secondo cui, mentre il fascismo è spinto da un imperativo di ordine sociale sotto il dominio molare dello Stato, il Nazionalsocialismo è essenzialmente suicida; esso semplicemente impiega lo Stato come strumento di un travolgente e ingestibile impulso di morte. Questo viene riassunto in una frase tratta dalla fine di Micropolitica e segmentarità – scandalosamente tradotta male – come una «macchina da guerra che non aveva più altro scopo che la guerra stessa e avrebbe preferito annientare i propri servitori piuttosto che fermare la distruzione»[9]. Questo è possibile perché Il CsO è desiderio: è ciò che si desidera e ciò attraverso cui si desidera. E non solo perché è il piano di consistenza o il campo di immanenza del desiderio. Anche quando precipita nel vuoto di una dequalificazione troppo improvvisa, o nella proliferazione di uno strato canceroso, è comunque desiderio. Il desiderio si estende fino a qui: desiderare il proprio annientamento, o desiderare il potere di annientare[10]

La politica de L’Anti-Edipo, alleata al processo di dissoluzione molecolare che scorre dall’impersonale nucleo energetico del capitale, è minacciata da una neuroticizzazione familiare. Alla fine, questa non è altro che la cittadella contemporanea di Edipo: se non obbedisci a papà, diventerai un nazista. Aggrappati agli aggregati molari e diventerai come Mussolini, ma attaccati ai flussi molecolari indomabili e diventerai come Hitler. L’impatto storico di questo uso edipico dell’evento nazionalsocialista, e più in particolare – naturalmente – dell’Olocausto, non può essere sopravvalutato. La moralità è diventata il sussurro compiaciuto di un sacerdote trionfante: è meglio che continui a tenere il coperchio premuto sul desiderio, perché quello che desideri veramente è il genocidio. Una volta accettata questa logica, non c’è limite alla resurrezione di neo-arcaismi prescrittivi che tornano strisciando presentandosi come baluardo contro un’inconscio con gli anfibi: umanesimo liberale, paganesimo annacquato e persino i fetidi relitti del moralismo giudaico-cristiano. Ben venga qualsiasi cosa, purché odi il desiderio e dia man forte al poliziotto che ciascuno di noi ha in testa.

Qualsiasi politica che debba poliziare sé stessa ha perso ogni spinta schizo-analitica e si è riconvertita in un triste riformismo basato sul lobbismo, ciò che caratterizza la leale opposizione al capitale lungo tutto il corso della sua storia. La sua deterritorializzazione è trattata come sospetta, e il dissenso si ritrova a rivestire un ruolo conservatore, ovvero rigenerare la facoltà di censura morale, assumendo uno posizione di accusa. In questo modo si ristabilirebbe al cuore di un – ora del tutto spurio – neo-nomadismo schizofrenico quel patto meschino tra il preconscio e il super-io che ha dominato il socialismo sin dalla sua nascita. Non è esagerato suggerire che la teoria di un “effetto buco nero” o di una “destratificazione troppo improvvisa”[11] minacci di paralizzare e addomesticare l’intero enorme successo del lavoro congiunto di Deleuze e Guattari.

In Mille piani, gli avvertimenti contro una deterritorializzazione troppo precipitosa sono incessanti. In tre pagine successive del saggio “Come farsi un Corpo senza Organi?” troviamo tre esempi tipici:

Non è chiaro che fine faccia Freud con tutto ciò. L’istinto di morte culmina nel nazismo, il che significherebbe che le dinamiche libidinali della Seconda Guerra Mondiale erano commisurabili a quelle della Prima? Questo sembra improbabile per una serie di motivi, non da ultimo perché ciò implicherebbe che tutto lo sviluppo militarista del capitalismo abbia in un certo senso superato il fascismo. Forse, allora, il desiderio dei nazisti va oltre il thanatos reinvestibile che emerge dal patto della psicoanalisi con il capitale, fino al punto di simulare insidiosamente la recessione trascendentale del corpo senza organi? È allettante pensare che le contorsioni che una tale riflessione richiede espongano una frettolosità nell’interpretazione del 1972 del thanatos, che persino nel 1980 viene ancora liquidata come «il ridicolo istinto di morte»[15]. Se nel 1980 l’alternativa è tra un’adesione a una paralizzante nevrosi post-olocausto – l’ultima e più devastante arma segreta di Hitler – o una riconsiderazione del thanatos freudiano, forse è arrivato il momento di mettere in questione ciò che avrebbe potuto sembrava anzitutto solo un’antipatia comicamente esagerata verso Freud.

Vale la pena chiedersi innanzitutto: Freud è davvero chiamato in causa ne L’Anti-Edipo? Non è piuttosto Lacan, che aveva già trasformato la giungla selvaggia al cuore della psicoanalisi in un parcheggio strutturalista, prima di impegnarsi in una terapia settennale con Guattari, a progettare il supposto anti-freudismo del libro? Certo, l’Edipo è una fiaba viennese particolarmente nauseante, ma dove è presente Edipo in Al di là del principio di piacere? Una domanda che si potrebbe porre per la maggior parte dei testi di Freud. È Lacan che insiste sull’edipizzazione del gioco del Fort/Da, nel processo generale di edipizzazione del desiderio fino dentro le sue fondamenta; strappando via tutta l’energia, l’idraulica, la patologia e il trauma da Freud, e sostituendoli con la mancanza, il pathos dell’identità, e la pomposità heideggeriana, mentre approfondisce il ruolo del fallo e banalizza il desiderio in una vergognata aspirazione a essere amati. Certo, esiste uno strato nevrotico e conformista in Freud, ma galleggia sui flussi impersonali del desiderio che erompono dalla natura traumatizzata. Dove sono i flussi in Lacan? Dove sarebbe meno probabile trovare qualcosa che fluisce che nel nodoso feticcio del significante post-saussuriano onnipresente nei suoi testi? La valutazione che danno Deleuze e Guattari di Lacan, descrivendolo come una tendenza schizofrenizzante in psicoanalisi è il contenuto più assurdo del loro lavoro. Nel 1980 aveva già smesso di essere una battuta.

La pulsione di morte non è un desiderio di morte, ma piuttosto una tendenza idraulica alla dissipazione delle intensità. Nella sua dinamica primaria è completamente aliena a tutto ciò che è umano, non da ultimo alle tre grandi meschinità della rappresentazione, dell’egoismo e dell’odio. La pulsione di morte è il bellissimo resoconto di Freud su come la creatività sopravvenga senza il minimo sforzo, su come la vita sia spinta verso le sue stravaganze dalla più cieca e semplice delle tendenze, su come il desiderio non sia più problematico della ricerca del mare da parte di un fiume. L’ipotesi delle pulsioni autoconservative, che attribuiamo a tutti gli esseri viventi, si pone in netto contrasto con l’idea che l’esistenza delle pulsioni nel suo insieme serva a portare alla morte. Vista in questa luce, l’importanza teorica delle pulsioni di autoconservazione, di potere e di prestigio si riduce notevolmente. Esse sono pulsioni componenti la cui funzione è quella di garantire che l’organismo segua il suo cammino verso la morte, e di evitare ogni possibile ritorno all’esistenza inorganica al di fuori di ciò che è immanente all’organismo stesso. Non dobbiamo più fare i conti con la misteriosa ostinazione dell’organismo (così difficile da inserire in qualsiasi contesto) nel mantenere la propria esistenza di fronte a ogni ostacolo. Ci resta solo il fatto che l’organismo vuole morire esclusivamente a modo suo. Così anche questi guardiani della vita, in origine, erano i servitori della morte. Da qui nasce la situazione paradossale per cui l’organismo lotta con maggiore energia contro eventi (in realtà dei pericoli) che potrebbero aiutarlo a raggiungere rapidamente il suo scopo vitale – tramite una sorta di cortocircuito. Tuttavia, questo comportamento è esattamente ciò che caratterizza gli sforzi puramente pulsionali, contrapposti a quelli intelligenti[16].

Cosa succederebbe se – invece di “Come farsi un Corpo senza Organi?” – ci si chiedesse: Come farsi un nazista? Perché è un affare di gran lunga più faticoso di quanto suggerisca la diagnosi del 1980.

  1. Ovunque vi sia dell’impersonale e della casualità, introduci la cospirazione, la lucidità e la malizia. Cerca nemici ovunque, assicurandoti che siano tali da poterli contemporaneamente invidiare e condannare. Prolifera nuove soggettività: soggetti razziali, soggetti nazionali, élite, società segrete, destini.
  2. Dimenticati Freud e riporta il desiderio alla concezione kantiana della volontà. Ovunque ci sia impulso, rappresentalo come scelta, decisione, l’intero dramma teatrale della volizione. Introduci un’atmosfera cupa di responsabilità opprimente, formulando tutti i discorsi in forma imperativa.
  3. Venera il principio del grande individuo. Personalizza e miticizza i processi storici. Ama l’obbedienza sopra ogni cosa, e infervorati solo per i segni: il nome del leader, il simbolo del movimento e le icone dell’identità molare.
  4. Coltiva la nostalgia per ciò che è massimamente bovino, inflessibile e ristagnante: una stirpe di contadini razzialmente puri che zappano lo stesso pezzo di terra per l’eternità.
  5. Soprattutto, odia tutto ciò che è impetuoso e irresponsabile, insisti sul bisogno di una vigilanza incessante, opprimi la sessualità sotto la sua funzione riproduttiva, applica rigidamente la domesticazione delle donne, diffida dell’arte, monumentalizza le città per eliminare il disordine dei flussi incontrollati e perseguita tutte le minoranze che mostrano una tendenza nomadica.

Cercare di non essere un nazista ti avvicina al nazismo molto più radicalmente di qualsiasi irresponsabile impazienza nell’opera di destratificazione. Il nazismo potrebbe persino essere caratterizzato come la politica pura dell’impegno; il dominio assoluto del super-io collettivo nel suo rigore annichilente. Nulla potrebbe essere più disastroso politicamente del lanciare una causa morale contro il nazismo: il nazismo è la moralità stessa, erede della rispettabile storia europea: quella dei roghi delle streghe, delle inquisizioni e dei pogrom. Voler avere ragione è il substrato comune alla moralità e alla reazione genocida; lo stesso desiderio di repressione – organizzato in termini dello sguardo disapprovante del padre – che L’Anti-Edipo analizza con tale potenza. Chi potrebbe immaginare il nazismo senza papà? E chi potrebbe immaginare papà prefigurato nell’inconscio energetico?

La morte è troppo semplice, troppo fluida, troppo indifferente alle razze e alle patrie per avere qualcosa a che fare con i nazisti. Il ressentiment era qualcosa che essi conoscevano bene, così come l’aspirazione a un sacrificio mitico, un Götterdämmerung che li avrebbe iscritti nei libri di storia, ma queste cose non si estendono mai fino al desiderio di dissoluzione. Dopotutto, perdere il controllo potrebbe portarti a scopare con un ebreo, diventare effeminato, o creare qualcosa di degenerato come un’opera d’arte. Qualcuno crede davvero che il nazismo sia una questione di lasciarsi andare? Gli studi di Theweleit sulla postura corporea nazista dovrebbero bastare a disilludere chiunque circa tale assurdità. Il nazismo può fare di te un cadavere ben prima del disordinato sopraggiungere della morte.

Un materialismo libidinale compiuto si distingue per la sua completa indifferenza alla categoria del lavoro. Ovunque ci sia lavoro o lotta, c’è una repressione della creatività grezza che è precisamente il senso ateologico della materia e che – per via della sua assenza di sforzo egoico – sembra identica al morire. Il lavoro, d’altro canto, è un principio idealista usato come supplemento o compensazione per ciò che la materia non può fare. Si lavora sempre e solo contro la materia, ed è per questo che il lavoro è in grado di sostituire la violenza nella lotta per il riconoscimento di Hegel. Il lavoro è anche complice della fenomenologia, che fonda l’esperienza dello sforzo, invece di trattare questa esperienza come una delle altre cose che la materia può fare senza sforzo. Anche nella sua più profonda e malata illegittimità, tutto è senza sforzo per l’inconscio energetico, e tutta la nostra storia – che sembra così faticosa dal punto di vista degli idealisti – ha vibrato di pulsazioni idrauliche di irresponsabilità, scaturendo da una produttività spontanea e inconscia. Non può esserci una concezione del lavoro che non proietti lo spirito verso l’origine, moralizzando il suo sforzo, tanto che Jahvè dovette riposarsi il settimo giorno. Al contrario, la materia – o il Dio di Spinoza – non si aspetta gratitudine, non fonda alcuna obbligazione, non stabilisce alcun precedente oppressivo. Al di là delle gesticolazioni dello spirito primordiale, è la morte positiva il modello, e la rivoluzione non è un dovere, ma un abbandono.


[1] Il riferimento è al titolo della raccolta di Nick Land “Fanged Noumena”, letteralmente noumeni zannuti.

[2] Cfr. L’Anti-Edipo, G. Deleuze e F. Guattari.

[3] Cfr. Mille piani, G. Deleuze e F. Guattari.

[4] Cfr. L’Anti-Edipo, G. Deleuze e F. Guattari.

[5] Cfr. Mille piani, G. Deleuze e F. Guattari.

[6] Cfr. L’Anti-Edipo, G. Deleuze e F. Guattari

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] Cfr. Mille piani, G. Deleuze e F. Guattari.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] Ibid.

[14] Ibid.

[15] Ibid.

[16] Cfr. Metapsicologia, di S. Freud